La religiosità della medicina. Dall'antichità a oggi
(Storia e società)EAN 9788842084471
L’autore è un capostipite della Storia della Medicina in Italia e rinomato studioso delle dimensioni materiali dei fenomeni storico-sociali di lunga durata. Muovendo da una prospettiva storiografica a carattere enciclopedico, negli anni si è posto all’attenzione del grande pubblico con una produzione ricca di presupposti culturali e capace di rinnovare il suo obiettivo di massima: una lettura dei grandi eventi, personaggi, fasi della storia occidentale a partire dalla perentoria trasformazione della realtà, dal violento farsi innanzi della verità personale rappresentata dalla malattia e dalla sofferenza nella vita di ogni uomo. Lo specialismo elegante e dotto di Cosmacini è una ricca, assidua e commovente ricerca laica di una metamorfosi, quella del Pulvis es et pulvirem reverterit, in una trama medicale di ricostruzione della vita personale a tergo del suo significato sacrale. Nell’opera “La religiosità della Medicina” alcuni dati problematici ineriscono i presupposti riguardanti le scienze sociali che di medicina si sono occupate.
Sappiamo come, sul piano filosofico il termine “malattia” è policontesturale, cioè veicola diversi significati che tra loro hanno una somiglianza di famiglia, all’incirca nel senso indicato da Wittgenstein nelle Ricerche Filosofiche. All’interno della famiglia di significati che formano il concetto di malattia, due sono quelli più diffusi, per i quali abbiamo in inglese due termini distinti: “disease”, come disfunzione dell’organismo rilevabile oggettivamente sul piano fattuale e “illness”, come percezione soggettiva della malattia stessa. La Sociologia è solita farsi carico in modo non impressionistico dei diversi significati della malattia. Facciamo un breve esempio. La teoria della differenziazione sociale conclude che i sistemi sociali nei quali noi oggi viviamo, si danno un criterio operativo ricostruibile in base ad un codice binario interno ad ogni sistema (pagare - non pagare in Economia, giusto - ingiusto nel Diritto, Vero - falso nella Scienza; sacro - profano nella Religione, ecc). In medicina vi è un codice siffatto? Si, è il codice Salute - Malattia. Ora, per avere operazioni ricorsive autoriferite, capaci di stabilizzare nel tempo l’autonomia funzionale di un sistema sociale ci vuole il rispetto di due condizioni. Primo: nessun sistema sociale deve interferire più di tanto nelle operazioni di una altro sistema.
Secondo: il consenso umano dentro un sistema sociale, si deve aggregare sul valore positivo del codice (Pagare, Vero, Sacro, Giusto ecc), perché di solito, il valore negativo blocca l’operatività autonoma dei sistemi sociali. Tutto ciò non vale per la Medicina nella quale è il valore negativo del codice (Malattia) a garantirle ricorsività operativa. La salute, in termini socio-strutturali, è ben poca cosa e non ci dice nulla come concetto. Nelle teorie dei sistemi sociali “Salute” sta a testimoniare un’antica derivazione sacrale e religiosa dalla Salus, riconducibile, nella eccellente ricostruzione semantica di Emanuele Severino, al concetto di Festa Arcaica. Ritornando al bel libro di Giorgio Cosmacini, il capitolo di importanza centrale sulla De-sacralizzazione del sangue del Dolore e del corpo..comporta delle evidenti conclusioni in chiave teologica facilmente declinabili nel grande alveo argomentativo della secolarizzazione. La Medicina ha assunto il ruolo di simbionte laico della Giovannea definizione della missione di Gesù “ Io sono venuto perché (gli uomini) abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. Non è un caso che l’Autore definisca altrove la Medicina “Arte Lunga”, nel senso di una lunga, estenuante laicizzazione del paradigma del Christus Medicus. Il Ministero messianico di Gesù si rivolgeva e si rivolge alla persona umana nella sua globalità: dimensione spirituale, psicologica, morale e fisica. In tema di secolarizzazione, tramontata la portata suggestiva del concetto, ed avviandoci verso una ri-sacralizzazione della società, avendo chiaro il senso di quella missione, si può prescindere ancora dalla sottolinatura del valore epifanico del sangue e del corpo del Cristo che in quanto Humus salvifico e storico-Kerigmatico, non può essere facilmente sacrificato all’applomb laico mostrato, pur in modo ineguagliabile dall’autore?
Non ci si può limitare alla deferenza intelletuale per la realtà religiosa diacronico-sincronica, magari utilizzando il concetto di religiosità come elegante suggeritore di deontologia. Oggi vi sarebbe dunque un processo di risacralizzazione a fronte di un persistente fenomeno di de-sacralizzazione del sangue, del corpo, vale a dire dell’ossatura simbolico-teologica del cristianesimo? Non è un caso che autori decisamente ostili alla identificazione per l’Etica di una specifica funzione sociale, vivano le stesse difficoltà nella definizione della medicina come sistema di Funzione. Insomma, la risacralizzazione (concetto arduo ed utilizzato ancora nei termini di una critica serrata all’esclusività delle teorie della secolarizzazione sviluppatesi intorno agli anni ‘60 del 1900), costringe a ripensare l’intervento medicale se è vero che ogni sistema sociale riproduce dal vertice osservativo proprio, l’intera prospettiva sociale. Per chi alla ri-sacralizzazione non crede rimane comunque difficile sostenere le ipotesi generali sulla Secolarizzazione, come ampiamente dimostrato dalla letteratura sociologico-religiosa di questi anni e per giunta lasciando cadere il problema dello statuto sacrale del corpo, del sangue e della sofferenza individuale al suo mistero debitamente congiunta.
Afferma l’autore, tra l‘altro:“ La professione medica, più di ogni altra sfera dell’agire umano, si richiama a quella coscienza morale, quel radicato senso di religiosità laica che nasce da un’etica della dignità e della tolleranza, fondamento indispensabile del rapporto profondo tra soggetto curante e soggetto curato” Qui emerge un dato centrale: la religiosità esprime una emancipazione medicale dal religioso realizzata in chiave etica. La progressiva de-sacralizzazione degli oggetti tipici della medicina (la malattia, il sangue, il corpo umano ed il dolore), fa virare l’autore verso una coniugazione della morale medica alla sua funzione, in vista di una sussunzione del soggetto malato su di un piano sociale aspecifico, quello deontologico. Tuttavia, la letteratura contemporanea su Etica, Medicina e sociologia non può essere completamente bypassata qualora si metta a tema l’ambito, alquanto discusso della Ri-sacralizzazione. Infatti diversi autori non hanno mai nascosto il loro fastidio per questo concetto troppo promettente e per nulla stipulativo, dichiarando a più riprese che a partire dalla seicentesca differenziazione per funzioni della società europea, nei fatti, nessun sistema sociale si è mai incaricato di vicariare la Religione. In altri termini non ci può stare una risacralizzazione nel senso di paventare tanti vissuti individuali ri-orientati religiosamente; la ri-sacralizzazione eventuale si gioca sullo stabilire un diverso statuto performativo del sangue, del dolore e della corporeità in un’epoca in cui la funzione medicale si è esattamente incaricata di tenere a distanza gli elementi di cui sopra da ogni processo di neo-sostantivazione.
Probabilmente il significato di Risacralizzazione, abbraccia un piano concettuale molto più esteso di quanto normalmente faccia presumere l’accezione corrente del termine, vale a dire un ritorno forte di sensibilità religiosa a fronte della tendenza del singolo individuo ad evitare i prezzi imposti dalla contingenza esistenziale, laddove per Religione va inteso l’analogico contro il digitale, l’assoluto contro il contingente, un mondo cioè che non assolutizzi il relativo e non relativizzi l’assoluto. Dunque con “Religione” si deve intendere una strategia di lettura della realtà da parte dell’uomo europeo che non pensa alla realtà in forza della sua coazione alla trasformazione del reale (biologico, spirituale, psichico anche). in altro da se. Il raddoppiamento della realtà e l’istituzione del delicato rapporto tra simulazione di realtà, vero e verosimile, ha visto svilupparsi nell’alveo della deriva antireligiosa, le condizioni per la trasformazione della Comunità in Società e per l’allontanamento definitivo delle condizioni dell’evoluzione sociale dai criteri del “Giusto mezzo” che erano ancora capaci di pensare le istituzioni sociali a misura delle creature per cui erano realizzate. Ormai le Istituzioni sono ben oltre le esigenze dei singoli individui e la Medicina non sfugge a questa regola generale della complessità socio-strutturale. Il punto delicato che l’autore sottolinea verso la fine del saggio è assai indicativo della necessità di pensare a dei connettivi epistemologici tra scienze umane ed Etica e questo per la debolezza socio-strutturale dell’Etica. Ogni sistema sociale deve orientare le azioni degli individui con strategie che rendano probabili le scelte degli stessi nella direzione più utile a ricomporre ed ingrandire l’ambito operativo dl sistema sociale in questione (politica, Economia, Scienza, Diritto ecc).
L’Etica non ha elaborato delle strategie adatte a questo scopo e quindi non è potuta svilupparsi come sistema sociale capace di orientare positivamente l’azione. E’ restata un macro sistema, ubiquo ma dai piedi d’argilla, che vede inflazionare le sue possibilità di intervento all’interno di sistemi forti socialmente, chiusi operativamente e che stabiliscono in proprio ciò che si può o non si può fare travolgendo il campo della scelta morale con l’assoluta chiusura operativa che è in gran parte chiusura al richiamo di un’etica condivisa, dunque umana. Non è un caso che la sola Chiesa Cattolica parli di Disumanizzazione delle condizioni di vita nella società complessa di cui la medicina, non fa che riproporre i criteri generali dal vertice osservativo di un sistema cresciuto operativamente sulla de-sacralizzazione del dolore, del sangue, della malattia e dei corpi, quindi dell’umano. Una delle questioni principali che viene sottaciuta agitando il concetto di Ri-sacralizzazione è quella di “stabilizzazione dei cicli evolutivi”; religione oggi vuol dire anche che ci si riappropria di una idea della realtà non più in procinto di essere ulteriormente modificata; destrutturata e magari ridotta ad una dimensione economicamente viabile, una realtà che diviene ambiente della persona e della morale. L’uomo moderno ha iniziato a vedere il proprio corpo nello stesso modo in cui iniziava a padroneggiare la natura . Ormai la natura non è più manipolabile oltre determinati livelli di resilienza e dunque anche il corpo si presume dovrà essere osservato medicalmente in una prospettiva “religiosa”, cioè di autenticità di vita. Afferma Cosmacini: “ la storia precorre ormai le norme e le leggi: se queste non ne tengono conto sono metastoriche, oltrechè metafisiche e si pongono fuori del tempo e del mondo. Oggi una delle questioni cruciali della Bioetica sembra ruotare intorno alla contrapposizione tra una concezione della vita ispirata al principio della sacralità della vita e un’altra ispirata al principio della qualità della vita”.
Impegnarsi nell’ambito della salute è sempre impegnarsi nell’ambito della vita. Salvaguardare, recuperare e migliorare lo stato di salute significa servire la vita nella sua totalità. Nelle parole di Giovanni Paolo II: “…malattia e sofferenza sono fenomeni che, se scrutati a fondo, pongono sempre interrogativi che vanno al di là della stessa medicina per toccare l’essenza della condizione umana in questo mondo. Si comprende perciò facilmente quale importanza rivesta nei servizi socio-sanitari, la presenza di operatori, i quali siano guidati da una visione integralmente umana della malattia e sappiano attuare di conseguenza un approccio compiutamente umano al malato che soffre”. Una suggestione conclusiva. Nelle Scienze Sociali della seconda metà del ‘900, merita un posto di assoluto rilievo Niklas Luhmann. Luhmann sta per essere rapidamente “classicizzato”negli studi Sociologici contemporanei a motivo della forza dirompente del suo impianto teorico generale, nel quale, la Religione ha sempre mantenuto un ruolo portante. Luhmann si è sempre opposto alle teorie della Secolarizzazione ed all’ipotesi generale di un controllo Etico sull’operatività ricorsiva dei diversi sistemi sociali. Nel 1983 il Governo della Repubblica Federale di Germania, dovendo procedere ad una riforma del sistema di sanità pubblica, affidò proprio a Luhmann l’incarico per una ricognizione preliminare. Lo studio non produsse risultati apprezzabili dal punto di vista teorico. Luhmann non ha mai dedicato alla Medicina scientifica come sistema di funzione la stessa attenzione dedicata ad altri sistemi sociali. Perché il Governo federale attribuì l’onore e l’onere di un tale lavoro ad un sociologo autore di un profondo rinnovamento della sociologia votata alla osservazione della complessità strutturale, ma che dice chiaramente le sue difficoltà a rubricare la Medicina dentro un dispositivo teorico generale? Se i diversi sistemi sociali rappresentano, da vertici osservativi spesso incommensurabili, la medesima prospettiva sociale, cioè contengono tutti ed al contempo la società dentro di sé, come è possibile per la coerenza interna della teoria dei sistemi sociali, mantenere la Medicina in uno stato di minorità teorica dal quale non è riuscita storicamente ad emergere con una propria teoria della riflessione? Se era legittimo relegare la Medicina Scientifica nell’ambiente Teorico della Sociologia del sistema non riconoscendole il rango di sistema sociale capace di alto interplay negli anni ‘60, diventa assai arduo continuare a farlo negli anni ‘80, con un progetto Genoma finanziato e con l’ingegnerizzazione delle stesse ipotesi-serendipity all’interno dei progetti di ricerca biomedica. Forse Luhmann ricercava una strategia per inserire la Medicina in un nuovo quadro di riferimento capace di creare capacità di collegamento tra corpo e coscienza, in tal modo intersecando delle matrici religiose afferenti ad un altro campo funzionale, che con il sistema medicale ritornava a legarsi non in modo etico, ma in modo socio-strutturale.
Era l’orizzonte della sofferenza umana a mantenere nella prudenza teorica l’interesse di Luhmann per la medicina. Il sistema sociale della medicina sembra essersi sufficientemente chiuso e specializzato nel trattamento di ambiti dell’esperienza del soggetto europeo per il quale non vi sono equivalenti funzionali, con l’unica eccezione della Religione. Questi ambiti esorbitano costantemente le possibilità funzionali di intercettarli prima e di regolarli poi in un quadro operativo chiaro. E’ alla religiosa messa in comunicazione tra corpo e coscienza che Luhmann pensa avendo chiara di fronte a sé la golden share della medicina sulla malattia umana, ma anche la sua insolvenza strutturale circa il dolore umano, ridondanza ambientale che nella società differenziata spinge verso nuove prospettive lo stesso dibattito sulle forme di umanità ancora possibili. La lettura del libro di Giorgio Cosmacini è un utile momento di dilatazione di tale consapevolezza.
Tratto dalla rivista Firmana n. 50/2010
(http://www.teologiamarche.it)
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Umberto Masperi il 25 novembre 2019 alle 11:02 ha scritto:
Libro di 200 pp., quindi non voluminoso visto l’argomento che tratta e l’autorevolezza di chi lo scrive (cfr. biografia). Un percorso storico, scandito in due tappe (I. Dal mondo antico all’ancien régime; II. Dall’età dei Lumi al mondo d’oggi). Ben fatto, stimola la riflessione sul problema-medicina, di cui si parla spesso attraverso i media (ma qui in una prevalente direzione, progressi scientifici). Terminata la lettura viene spontanea, oltre che polemica (lo ammetto) una “particolare” riflessione, dall’ inizio e dalla fine. *INIZIO: l’autore fa la doverosa precisazione (p.IX): “La religiosità è cosa diversa dalla sacralità: mentre questa attiene alla sfera (teologica) del divino, la prima appartiene alla sfera (antropologica) dell’umano senza preclusione di ogni possibile altra sfera” (e non quindi, chiedo, anche la “sfera teologica” e filosofica).
*FINE: sull’eutanasia-buona morte: “Oggi si usa e si abusa non solo della dizione “sacralità” della vita’’ ecc. (p.200). Domando: dato che sono i cristiani “cattolici” a sostenere la sacralità della vita, sono forse loro ad “abusare”? Viene, quindi, aggiunta (ad abundantiam) dall’autore la “religiosità” laica della medicina quale nozione più universalistica e (ad super abundantiam): “Nel dibattito sull’eutanasia non ci sono buoni e cattivi (sic!), non c’è chi è nel giusto e chi sbaglia” (cfr. p.201) Chiedo ancora: questione di “cuore” e di “intelligenza” alla Pascal, mal sfruttati?. Quando si parla di “eutanasia”, osservo modestamente, che la “‘religiosità” laica della medicina è superata da quella della “persona”, soggetto di eutanasia: qui “religiosità-sacralità”(=sacralità della vita) ha altro fondamento , non più il semplice livello metodologico della premessa (metodo, metà odòn , lungo il cammino).
Qual è quello ontologico e assiologico (l’autore lo sa, essendo laureato in filosofia dopo l’eccellente laurea e professione in medicina). La buona razionalità ci avverte che c’è l’altra distinzione in casu eutanasia , tra il dare la morte e l’accompagnare alla morte naturale, con la vera bontà (eu), fratellanza.
Per me “credente”, tra “l’assiologico” (=il valore) c’è il ricordo: “Tempio dello Spirito” (1 Cor.6,19); Cfr.Gv.2,19), senza dimenticare (altro ricordo): Gen.2-3, il “frutto” dell’albero della “conoscenza” (nel senso biblico, totale e profondo possesso) del bene e del male (lignum vitae, to zùlon tès zoès: eritis sicut dii, èsesthe os theoì).