Roma e Gerusalemme
-Lo scontro delle civiltà antiche
EAN 9788842083085
Martin Goodman, storico inglese e docente ad Oxford, ha pubblicato due anni fa questo ampio e complesso volume ora tradotto in italiano da Michele Sampaolo. Il problema dell’antisemitismo antico viene nuovamente affrontato a partire da una domanda costantemente riproposta nel volume: la tragica distruzione di Gerusalemme e del Tempio era inevitabile? o meglio: era inevitabile che il conflitto assumesse un carattere, per così dire, definitivo? Nel secondo dopoguerra, all’indomani del processo di Norimberga, Léon Poliakov scrisse una Storia dell’antisemitismo (ripubblicata in traduzione italiana in due volumi nel 2004 dall’editore Sansoni) in cui erano sinteticamente registrate le tendenze antiebraiche diffuse nel mondo antico prima dell’avvento del Cristianesimo, per concludere che l’Impero Romano non ha conosciuto un vero e proprio antisemitismo di stato. Sentimenti antigiudaici non mancano presso scrittori come Diodoro Siculo, Pompeo Trogo, Giovenale, Tacito, Seneca, ma si tratta di atteggiamenti che non manifestano l’esistenza di una ostilità diffusa o addirittura di una strategia politica perseguita dallo stato romano nella tarda Repubblica o nei primi secoli del Principato.
Qualche anno fa Peter Schäfer (Giudeofobia. L’antisemitismo nel mondo antico, Roma, Carocci 1999) ha invece provato a dimostrare l’esistenza di un antisemitismo, prima della nascita del Cristianesimo, già diffuso in Egitto e consolidatosi attraverso l’incontro con la cultura ellenistica, animata - diversamente da quella ebraica - da una evidente apertura ecumenica. L’inevitabile discussione ha visto l’intervento di studiosi che non hanno mancato di prendere posizione a favore dell’una o dell’altra tesi. Tra gli altri Jasper Griffin, docente ad Oxford, recensendo il volume di Schäfer ha osservato che i casi di antisemitismo in età precristiana sono piuttosto rari e non costituiscono una tendenza ben delineata. Le accuse nei confronti degli Ebrei non sono differenti da quelle rivolte ad altri gruppi religiosi o politici, secondo topoi ideologico-letterari piuttosto noti agli studiosi di storia antica. Il volume di Goodman interviene nella discussione proponendo una tesi ben precisa: il mondo romano e quello giudaico non costituivano due realtà antitetiche, destinate nel tempo ad una tragica contrapposizione. Roma e Gerusalemme sono il simbolo di due mondi che avrebbero potuto benissimo coesistere come del resto accadde fino alla seconda metà del primo secolo d. C. Questa tesi è sviluppata attraverso una ricostruzione ampia e spesso prolissa dei caratteri fondamentali, delle forme di vita del mondo romano e di quello ebraico. Per oltre quattrocento pagine il lettore è condotto per mano a riconsiderare un quadro storico noto, diciamo pure “manualistico” del mondo antico. Storia politica, correnti filosofiche e religiose, concezioni politiche, diritto, storiografia: nulla manca in una ricostruzione tanto minuziosa quanto poco utile allo studioso e soprattutto all’articolazione rigorosa della tesi che l’autore intende dimostrare. Così, dopo un percorso a tratti estenuante lungo le vie del “già noto”, Goodman ricorda che nella Roma del primo secolo d. C. le testimonianze letterarie non consentono di stabilire l’esistenza di tendenze antisemite tali da preoccupare la comunità ebraica, piuttosto numerosa nella capitale dell’Impero.
Le espulsioni che avvennero al tempo di Tiberio (19 d. C.) e di Claudio (probabilmente nel 49 d. C.) non furono espressione di una politica repressiva progettata e perseguita. «In realtà - osserva Goodman - è abbastanza difficile individuare una ragione particolare per cui i Giudei possano aver suscitato una speciale ostilità da parte dei Romani prima della ribellione scoppiata nel 66. (…) È stato giustamente osservato che i Giudei sembrano aver mantenuto il senso di una comune identità distinta più a lungo che i tanti altri stranieri di Roma, i quali si integravano nel resto della popolazione urbana nel giro di una o due generazioni dall’arrivo; ma se i Giudei erano pigri, non mangiavano carne di maiale, o mutilavano i genitali dei loro figli, queste pratiche non avevano nessun effetto sui loro vicini» (p. 444). D’altra parte non mancano testimonianze del rispetto delle autorità romane nei confronti del Tempio di Gerusalemme. Giuseppe Flavio, ad esempio, ricorda le donazioni fatte da Augusto e dalla moglie Livia, come anche il sacrificio di cento buoi compiuto da Marco Vipsanio Agrippa nel 12 d. C. Quali allora le ragioni che nel corso di un secolo portarono alla distruzione di Gerusalemme? I disordini insorgenti nella Giudea non fanno pensare ad una società sull’orlo della ribellione. Fino al 66 la Palestina non è proprio un’oasi di pace, ma in base al dettagliato racconto di Giuseppe Flavio, osserva Goodman, si può concludere che le tensioni erano interne alla società giudaica, «piuttosto che sintomi di un diffuso risentimento nei confronti del governo romano» (p. 465). La testimonianza di Giuseppe Flavio non è forse del tutto veritiera e richiede di essere esaminata anche in riferimento alla presenza di tensioni messianiche che portavano con sé anche atteggiamenti antiromani. Comunque sia, secondo il nostro autore fu la lotta per il potere a Roma a provocare la catastrofe.
Gli avvenimenti ricordati da Goodman sono noti. Dopo che l’occupazione romana a partire dal 37 a. C. si protrasse senza affrontare crisi particolarmente gravi, alla fine del principato di Nerone le cose cambiarono. Nel maggio del 66 Gessio Floro, procuratore della Giudea, scatena le truppe romane contro la popolazione di Gerusalemme, colpevole di aver rifiutato di recarsi processionalmente a salutare due coorti dell’imperatore. In un solo giorno trovarono la morte tremilaseicento persone, in maggior parte donne e bambini. La reazione giudaica porta alla costituzione di uno stato indipendente, mentre gli abitanti di Gerusalemme si dividono tra quanti aspirano alla pace e alla ricomposizione dello scontro con Roma e quanti insistono nella prospettiva delle armi. La morte di Nerone, nel 68, fa precipitare la situazione. Alla fine dei disordini istituzionali (il 69 è l’anno dei quattro imperatori) si impone con la forza Vespasiano. Ricorda Goodman: «All’improvviso (…) il comandante delle forze romane schierate contro Gerusalemme non era più un oscuro senatore di mediocre talento e di minimo prestigio nella corte dell’imperatore. Adesso egli era, o sperava di essere, lui stesso imperatore. Il tentativo di Vespasiano, e la necessità per lui di poter vantare pubblicamente una vittoria su degli stranieri che gli desse legittimità, spiegano l’energia dispiegata di colpo nell’attacco a Gerusalemme. Vespasiano aveva preso il potere a Roma da lontano. Si trovava ad Alessandria, molto distante dallo spargimento di sangue romano con cui i suoi sostenitori, in particolare Antonio Primo a Cremona nell’ottobre 69, conquistarono per il lui il potere. Il massacro non era una partenza di buon auspicio per un nuovo regno.
L’immagine di Vespasiano aveva urgente bisogno del lustro di una conquista straniera - il fondamento più sicuro di autorità per un politico romano - per potersi presentare nella capitale come un eroe guerriero e salvatore dello Stato. Vespasiano ritardò il proprio arrivo a Roma fino all’estate del 70, dando istruzioni al figlio Tito, lasciato in Giudea, di vincere la guerra il più rapidamente e totalmente possibile, a qualunque costo» (p. 501). A questo punto le testimonianze sulla distruzione del Tempio divergono. Secondo Giuseppe Flavio l’incendio fatale sarebbe stato provocato accidentalmente e le truppe romane non avrebbero obbedito all’ordine di Tito di domare le fiamme. Secondo Sulpizio Severo, che sembra riferirsi ad un brano perduto delle Historiae di Tacito, lo stesso generale romano avrebbe ordinato la distruzione del Tempio. Goodman ritiene più credibile il racconto di Giuseppe Flavio. E conclude: «Non era la prima volta, né sarebbe stata l’ultima, che una guerra all’estero veniva usata per mascherare imbarazzanti verità di politica interna romana. (…) Insolito in questo caso fu il fatto che il nemico fosse un popolo che era stato dentro la sfera romana per oltre un secolo, e ancora più insolito fu il fatto che la demonizzazione della nazione sconfitta avesse effetti che durarono per secoli» (p. 660). La demonizzazione dei Giudei, nella propaganda imperiale, trova conferma nei decenni successivi al 70, anche dopo la fine della dinastia flavia.
In questo contesto Goodman inserisce lo sviluppo dell’antigiudaismo cristiano. Dopo il 70 nelle comunità cristiane si fa più decisa la spinta a distanziarsi dai Giudei. Per difendere la propria fede e diffondere il Vangelo i Cristiani dovevano stabilire una differenza incolmabile con il Giudaismo, che nell’orbe romano suscitava ormai profondo disprezzo. Il lavoro dei teologi, spiega ancora Goodman, finisce poi per sviluppare la dottrina del deicidio, che a partire dal II secolo si impone come uno degli elementi portanti dell’antisemitismo cristiano. L’ultima grande rivolta giudaica tra il 132 e il 135, soffocata dall’imperatore Adriano in persona, segna la fine di Gerusalemme, a cui è imposto il nome di Aelia Capitolina, secondo un prassi non insolita nell’amministrazione romana, che per ragioni amministrative mutava talvolta il nome di una provincia appena conquistata. Si apre così, osserva il nostro autore, una nuova drammatica storia i cui effetti negativi sarebbero stati di lungo periodo. Il volume di Goodman è forse destinato a suscitare nuove discussioni e polemiche, dal momento che gli studi attuali sull’antisemitismo interessano anche un vasto pubblico che ben conosce la persistenza diffusa di antichi pregiudizi e la loro pericolosità nel quadro politico internazionale dei giorni nostri. Non possiamo però non dissentire dalla scelta dell’autore di sviluppare in molte pagine una tesi che poteva essere più efficacemente articolata in uno studio assai più contenuto. Il lettore non addetto ai lavori finirà per disorientarsi di fronte ad un eccesso di informazioni, soprattutto nella prima parte del volume che non segue sempre rigorosamente una linea argomentativa chiara e lineare. L’esperto di storia antica, da parte sua, troverà del tutto inutile una lunga esposizione manualistica al termine della quale viene sviluppato il racconto della distruzione di Gerusalemme nel quale finalmente si delinea con chiarezza la posizione dell’autore.
Quella di Goodman è una ricostruzione che lascia assai perplessi per quanto riguarda il primitivo sviluppo dell’antisemitismo cristiano, al quale sono stranamente riservate poche pagine. Sembra che all’autore di un così poderoso volume sfuggano le radici teologiche profonde che hanno necessariamente portato i primi cristiani a prendere le distanze dal Giudaismo. Si può ridurre l’antisemitismo cristiano ad una scelta sollecitata dall’esigenza di legittimazione nei confronti del potere imperiale?
Tratto dalla rivista Firmana n. 49/2010
(http://www.teologiamarche.it)
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12,50 €→ 11,87 € -
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