Il profeta e il faraone. I Fratelli musulmani alle origini del movimento islamista
EAN 9788842078418
Con la consueta scrittura brillante e piacevole, e la grande capacità di leggere i documenti e interpretare le fonti, Gilles Kepel [di cui è già comparsa una recensione su questa stessa rivista a Fitna, Guerra santa nel cuore dell’Islam, Laterza, Bari 2004, in Studia Patavina 3 (2005) 928] ci dona con questo volume una penetrante e illuminante analisi del periodo 1950-1980, ossia del trentennio decisivo per la formazione del movimento islamista in Egitto e nel mondo musulmano contemporaneo. Come evidenzia il sottotitolo, al centro del suo saggio è il rapporto tra i Fratelli Musulmani e il movimento islamista più recente. I primi nascono nel 1928 in Egitto intorno alla predicazione di Hasan al-Banna’ e rapidamente organizzano un movimento politico-religioso dai caratteri fortemente moderni. È un movimento di massa, in perfetta consonanza con i movimenti di massa che si andavano sviluppando in quegli anni nell’Europa divisa tra le due grandi «chiese», quella nazional-fascista/nazista e quella social-comunista. E questo movimento assume subito nel suo linguaggio, nell’ideologia e nell’organizzazione alcuni «stilemi» tipici dei movimenti di massa europei. Il «partito di Dio» del Fratelli Musulmani si autorappresenta innanzitutto come una «avanguardia» delle masse musulmane, che vanno redente dal loro asservimento al potere dei nuovi faraoni, ossia i capi politici dell’Egitto coevo supposti fedeli a parole all’Islam ma in realtà lontani dai suoi principi e dalle sue pratiche, tesi solo a utilizzarlo cinicamente come instrumentum regni. Alla V Conferenza Generale del movimento (Cairo 1939), si stabiliscono i principi guida: L’Islam è un sistema perfetto (kamil) che si fonda interamente su se stesso, basandosi sulla Sunna del profeta e sul Corano, elevati a uniche fonti giuridiche riconosciute; l’Islam è quindi definito un sistema valido in ogni tempo e in ogni luogo, che richiede ai suoi credenti non una «quieta» adesione, bensí molto di più: lottare attivamente per affermarlo e estenderlo nella società, in primis nelle stesse società musulmane corrotte dalla Modernità e ormai divenute tiepide verso il messaggio di Maometto. C’è poi - altro elemento di forte modernità - la organizzazione scientifica della propaganda a mezzo stampa e attraverso le «cellule del partito» che operano all’interno della società egiziana tra le due guerre in tutti i settori: tra i lavoratori, gli intellettuali, gli insegnanti, i giornalisti ecc. e che organizzano strutture di solidarietà nelle periferie degradate del Cairo e delle altre grandi città. I Fratelli Musulmani insomma si propongono come una sorta di stato nello Stato, che costruisce la «rivoluzione dal basso». Si costituiscono ovunque «comitati degli studenti», «comitati dei contadini», «comitati degli operai»; il movimento giungerà negli anni ’40 a contare su 500.000 membri e una bacino di simpatizzanti e fiancheggiatori di vari milioni di egiziani. Il movimento dovrà vedersela con i nazionalisti del Wafd che - informati a un vago liberalismo d’importazione occidentale - sono impegnati in quegli anni a realizzare la piena indipendenza dell’Egitto dal protettorato britannico; ma essi si opporranno soprattutto ai musulmani modernisti, che hanno in quegli anni una sorta di egemonia sull’intellighenzia musulmana, partendo dall’idea che occorra «modernizzare l’Islam» piuttosto che «islamizzare la Modernità».
Il potere non resterà inerte di fronte alla sfida: la storia dei Fratelli Musulmani è punteggiata da una serie di date sinistre, quelle in cui si scatena la repressione poliziesca più spietata con il seguito di sparizioni, torture, campi d concentramento, processi-farsa e impiccagioni di leader e militanti. Lo stesso Hasan al-Banna’ sparisce in circostanze non chiare, ma probabilmente «soppresso» dai servizi segreti nel 1949 a seguito della vasta repressione scatenata da un attentato al primo ministro egiziano nel 1948.
Ma questo è solo il «primo tempo» o l’antefatto della storia narrata nel libro di Kepel. Dopo Hasan, emerge la straordinaria figura di Sayyid Qutb, il maggiore ideologo del movimento a cui darà una sterzata in senso se possibile ancor più estremista. Qutb, che trascorre buona parte della sua vita nei campi di concentramento di Nasser, elabora una teoria che inquadra la società egiziana attraverso la categoria di jahiliyya ossia «paganesimo»: non solo quella egiziana, ma in realtà tutte le società musulmane attuali hanno nei fatti abbandonato l’Islam, sono di fatto «apostate». Occorre ri-convertirle alla vera fede, occorre re-islamizzarle. Ora, siamo di fronte a un altro parallelo interessantissimo: questa re-islamizzazione non può non farci pensare alla rievangelizzazione che è tuttora la parola d’ordine di settori del mondo cristiano che vivono drammaticamente lo status di minoranza dei credenti nella società moderna. Solo che Qutb, a partire dal suo libro più noto ossia Pietre miliari - alla cui attenta analisi è dedicato il cap. II del volume di Kepel - si stacca dalla matrice relativamente «moderata» di Hasan al.-Banna’ che aveva fatto della da’wa (=predicazione) il perno della prassi politica del movimento, per affiancarvi il principio della haraka (=movimento). Quest’ultimo contempla esplicitamente la presa del potere attraverso la rivoluzione armata: il potere del novello Faraone è ritenuto intimamente e inemendabilmente jahil, ossia «empio» o «pagano», contro di esso è lecita l’insurrezione armata. Siamo alla preconizzazione di quello che sarà il verbo dei movimenti «jihadisti» contemporanei: la jihad, che nel diritto islamico classico è prescritta solo contro gli infedeli ovvero i non-musulmani, con Qutb e i suoi emuli diventa lecita contro gli stessi sedicenti musulmani che opprimono e «sviano» il popolo, che ne favoriscono la «alienazione». È in realtà una vera e propria rivoluzione giuridica, guardata con orrore dal corpo degli ulema di al-Azhar (la più celebre università religiosa del mondo sunnita). ‘Abd al-Salam Faraj, un epigono di Qutb, giungerà a parlare della jihad in un celebre libello definendola il «dovere occultato», ovvero dimenticato e rimosso dalla coscienza dei «veri» musulmani. E sarà proprio un gruppo che si ispira a questa idea della liceità del jihad contro un potere musulmano a parole ma corrotto e «apostata» nei fatti, a organizzare l’attentato in cui perirà nel 1981 il presidente egiziano Sadat, il «novello Faraone».
L’originalità e l’interesse del libro di Kepel sta nell’analisi attenta delle diverse correnti islamiste che sono sorte dalla meditazione sul verbo rivoluzionario di Qutb. Questi fu fatto impiccare da Nasser nel 1966 al termine di un processo di regime che doveva - nelle intenzioni del governo egiziano - portare alla fine del movimento. Accadde naturalmente il contrario: Qutb è da allora il «martire» per antonomasia e molto di più: una icona di tutto il movimento islamista egiziano e mondiale. Ma assai varia fu la ricezione del suo messaggio. Una parte consistente del movimento che si stringe intorno all’organo di stampa ufficiale del movimento, Da’wa (=predicazione), si industrierà a trovare un utile compromesso con il potere, smussando le posizioni più estremiste espresse da Qutb e tornando in sostanza all’ispirazione originaria di al-Banna’ (cap. IV del libro di Kepel). Questa posizione moderata viene espressa nel titolo di un altro celebre libello dei Fratelli Musulmani di questa seconda fase: «Du’a… la quda’»(=predicatori…, non giudici); ovvero si lascia cadere la pretesa, che tanto aveva scandalizzato, di «giudicare» la società egiziana non più musulmana o peggio «apostata». Ed è proprio a questa corrente che si legherà la vasta ripresa della propaganda del movimento nelle università islamiche (v. cap. V) che prenderà quota soprattutto nel periodo della presidenza Sadat, il quale cinicamente utilizzò gli islamisti per sbarazzarsi dei comunisti e dei nasseriani di sinistra. Nelle università i Fratelli Musulmani giungeranno ad assumere una incontrastata egemonia nell’ambiente studentesco: la «polizia islamica» degli studenti del movimento imporrà ad esempio il velo alle donne, la proibizione di spettacoli e intrattenimenti che inducono la «corruzione» ecc. Un’altra interessante lettura del messaggio di Qutb è espresso dal movimento che fu battezzato «Takfir wa hijra» (=scomunica e ritiro), egemonizzato da tale Shukri (cap.III). Quest’ultimo in sostanza «scomunica» l’intera società egiziana in quanto sarebbe ricaduta nella jahiliyya (=paganesimo) e, constatato che il movimento si trova in una fase di debolezza, predica –in attesa di tempi migliori- la costituzione di piccole comunità che si «ritirano» o «separano» dal resto della società, ossia che fanno hijra (=egira), a imitazione della famosa egira di Maometto che si separò dalla «corrotta» Mecca per ritirarsi appunto a Medina, dove gettò le basi della futura società islamica. Nascono cosí nelle periferie della grandi città egiziane vere e proprie «comuni» di giovani che vivono, ostentatamente separati dal resto della società disprezzata senza remore, secondo i più rigidi principi della morale islamica, facendo cassa comune e sposandosi solo all’interno del gruppo. Anche qui non si può che rimarcare la «modernità» di questo esito che - pur nella diversa genesi e nelle diverse modalità di sviluppo - risulta parallelo a quei movimenti di «contestazione globale» della società e delle sue istituzioni che si sviluppano proprio in quegli anni nell’Occidente euro-americano portando numerosi giovani alla fondazioni di «comuni». Infine c’è l’orientamento del gruppo che porterà a termine con successo l’attentato a Sadat (v. cap VII). Quest’ultimo parte dai medesimi presupposti: il takfir ossia la «scomunica» della società sedicente musulmana dell’Egitto, ma invece della hijra (ritiro/separazione) sceglie la lotta armata, ovvero il jihad di cui riattualizza contenuti.
Il volume di Kepel, pubblicato nel 1984, costituisce in definitiva una eccellente introduzione alla storia e al linguaggio del moderno estremismo religioso di marca islamica e si raccomanda come lettura utilissima anche per l’analisi degli sviluppi di questi ultimi decenni. Di più, esso ci fa comprendere come non solo non esista un unico Islam, assolutamente monolitico e tutto schiacciato su quella deriva estremista che monopolizza oggigiorno l’attenzione dei media. Kepel ci dimostra piuttosto come l’estremismo fondamentalista abbia sempre trovato il suo primo e durissimo avversario all’interno degli stessi stati musulmani e delle istituzioni religiose ufficiali (tipo al-Azhar), che lo hanno combattuto e tuttora lo combattono con ogni mezzo - anche i più brutali - per estirparlo: i massacri di Fratelli Musulmani e movimenti similari si ebbero non solo in Egitto, ma anche nella Siria degli anni ’80, dove interi villaggi supposti «covi» di estremisti islamici furono rasi al suolo dall’aviazione militare; nell’Asia Centrale dell’epoca post-sovietica, dove l’islamismo estremista dagli anni ’90 in poi è spesso stato in guerra aperta con gli ulema e le forze dell’ordine. Ma il libro di Kepel ci fa comprendere come lo stesso Islam estremista sia tutt’altro che monolitico: correnti «quietiste» e correnti «movimentiste» vi si fronteggiano, le une predicando la riforma della società «apostata» attraverso la predicazione e l’educazione, le altre attraverso metodi più aggressivi o apertamente rivoluzionari; le une cercando con vario successo forme di integrazione nella società politica, le altre ponendosi in vario grado e misura in antagonismo con essa.
Il libro di Kepel insomma è un invito a non fare di ogni erba un fascio, è un invito a studiare, a informarsi, a cercare di capire il fenomeno Islam e i suoi sviluppi «moderni» (figli, per molti aspetti, della nostra stessa Modernità!) esercitando appieno il pensiero critico, prima di emettere troppo facili sentenze.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2009, nr. 3
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
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