I giovani e la fede
(Giornale di teologia)EAN 9788839934031
Bruno Forte, già ordinario di teologia dogmatica nella Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, dal 2004 è arcivescovo di Chieti-Vasto. Delle sue opere, le principali sono la Simbolica ecclesiale (in otto volumi) e la Dialogica (in quattro volumi). Con l’editrice Queriniana ha recentemente pubblicato, in questa stessa collana, La santa radice. Fede cristiana ed ebraismo.
Le pagine di questo libro sono nate da incontri e dialoghi con i giovani e sono stimolate anche dalla prossima Assemblea del Sinodo dei vescovi che si terrà a ottobre prossimo sul tema I giovani, la fede e il discernimento vocazionale.
Il testo è suddiviso in nove capitoli. Il primo si sofferma sui cambiamenti del nostro tempo. Non soltanto viviamo un tempo di radicali trasformazioni, ma anche un tempo di smarrimento per la crisi di valori e dei sistemi di pensiero. Le speranze vere sono morte e il nichilismo e il relativismo hanno preso il sopravvento. Così l’uomo fugge sempre la fatica e la passione del vero per abbandonarsi all’immediatamente fruibile, calcolabile con l’interesse per il consumo immediato. È evidente che i primi a subire i condizionamenti di questo contesto culturale sono i giovani, perché sono i più vulnerabili dal punto di vista del possesso dei mezzi di discernimento critico.
Il secondo capitolo è dedicato ai giovani e alla fede nella società che cambia. Nonostante l’apparente trionfo della decadenza c’è ancora la possibilità di ritrovare il senso perduto. A questo punto l’autore indica tre modi fondamentali. Il primo modo è la riscoperta dell’altro. È possibile riconoscere che il volto dell’altro, nella sua nudità e concretezza, nel semplice sguardo, è misura dell’infondatezza di tutte le pretese totalizzanti dell’io. Il prossimo, con il solo fatto d’esistere, è ragione del vivere e del vivere insieme, perché è la sfida a uscire da sé, a vivere l’impegno dell’amore per gli atri. Il secondo modo è la riscoperta dell’Ultimo. Nel volto degli altri si riconosce la traccia dell’Altro e si stabilisce così il primato dell’appello etico rispetto a ogni astrazione metafisica e a ogni rinuncia nichilista. Il terzo modo è quello di rilevare l’esigenza diffusa di un nuovo consenso intorno alle evidenze etiche. Essa nasce dal bisogno di definire il bene non per il risultato che se ne può trarre, ma per la forza del bene in se stesso. Si profila il desiderio di ritrovare la passione per la verità, l’amore a ciò per cui valga la pena di vivere al di là di ogni calcolo e di ogni progetto misurato soltanto sull’orizzonte penultimo. Con l’incarnazione, la morte e la risurrezione di Cristo, Dio ha offerto una risposta definitiva agli interrogativi che l’uomo si pone sul senso e sul fine della propria vita. Quindi, l’incontro con Cristo fa riscoprire il primato di Dio nella vita, fa trovare e testimoniare il senso della vita e della storia e esorta a essere modelli concreti di una carità in cui specialmente i giovani possono sentirsi accolti e amati, contagiati dal gusto di fare scelte autentiche di carità alla scuola del Dio misericordioso.
Il terzo capitolo riguarda la sfida educativa. Oggi si nota una distanza dilatata tra le generazioni, sia per l’accelerazione dei cambiamenti in atto, sia per la novità dei linguaggi che il mondo della rete ci va imponendo. Questi hanno modificato profondamente gli scenari tradizionali dell’educare. Per essere un educatore occorre prima di tutto la disponibilità. Nel processo educativo la relazione interpersonale è molto indispensabile. Oggi l’educazione richiede di avere pazienza e amore perché chi va educato ha bisogno anzitutto di fiducia e di sentirsi amato così da lasciarsi anche correggere e ammonire. Chi ha fretta o non è pronto ad ascoltare e accompagnare pazientemente il cammino altrui, non sarà mai un educatore.
Il quarto capitolo tratta l’incontro con il Vivente. Un’altra sfida lanciata dall’epoca della modernità è la cosiddetta crisi d’identità, radicata in una sorta di perdita collettiva e personale, frutto di una malintesa emancipazione del passato e delle proprie radici. Senza memoria non c’è identità né profezia. Come avviene al culmine dell’incontro del Signore risorto con i discepoli di Emmaus, occorre un’educazione che compie l’operazione della memoria viva, capace di inserire la persona nella realtà totale che conti per lei, per tutti e, dunque, nella tradizione viva della fede, dell’amore e della speranza. Queste nutrono la vita e trasmettono la luce che viene dal passato della salvezza, aprendo al futuro della promessa. In questo modo lo scopo dell’educazione sarà schiudere orizzonti, raccogliere le sfide e accendere la passione per la causa della verità; sarà anche accompagnare l’altro dalla tristezza del “non senso” alla gioia della vita piena di significato ricevuta dal Signore risorto.
Il quinto capitolo si sofferma sul mondo della scuola e del lavoro. L’intero villaggio globale sta attraversando la grave situazione della crisi economica e finanziaria. La percentuale della disoccupazione giovanile è a un livello preoccupante. Si allarga la faccia dei cosiddetti NEET (Not engaged in Education, Employment or Training: non impegnati nello studio, nell’impegno o nella formazione). Ad un numero molto elevato di giovani è negato non solo il futuro, ma anzitutto un presente che sia all’altezza della dignità dell’essere umano. Per affrontare questa crisi occorre la maturazione di scelte radicali, di un vigoroso ritorno al primato del bene comune e alla concezione della vita vissuta come essere per gli altri e, quindi come dono e servizio. Infatti, di fronte a questa situazione, non solo i responsabili della politica, ma ognuno che abbia pure la minima possibilità, deve contribuire a creare lavoro. Ai giovani il primo compito da indicare è dunque certamente quello di impegnarsi al massimo nello studio per prepararsi a portare un contributo qualificato alla società di domani.
Il sesto capitolo sviluppa il ruolo della scienza, della politica e dell’etica per la vita dei giovani. L’uomo è fatto per esistere con e per gli altri ed è anche un “animale politico” destinato a fare parte della comunità (la polis degli antichi greci). Come ha ricevuto in dono la propria vita e se stesso, così egli si realizza autenticamente solo se stabilisce con gli altri esseri umani, e con tutte le creature in genere, una relazione responsabile e solidale, proporzionata a ciascuno e rispettosa del dono che ciascuno ha ricevuto. Solo una politica ispirata all’etica della responsabilità e della solidarietà si rivela rispettosa del destino della persona umana, al di là del naufragio delle ideologie e della frammentazione della cultura decadente, ben nascosta nei suoi effetti perversi dalle maschere sorridenti e bonarie dei media. Analogicamente nessuna tecnica, nessun intervento sull’ambiente naturale o umano potranno ritenersi moralmente accettabili se comporteranno in qualunque forma o misura una valutazione della qualità della vita umana e dell’unicità e irripetibilità della dignità di ogni essere personale. È chiaro che vince chi si lascia vincere dall’orizzonte della trascendenza. Solo dove l’esistenza della persona è riconosciuta come dono da accogliere e rispettare, inviolabile nella sua sacralità, fondata eteronomamente nel mistero ultimo e trascendente, l’attività umana conosce dei limiti e delle misure di ordine deontologico e sfugge ai frutti dell’alienazione. Infatti, Dio non è il concorrente dell’uomo, ma il suo ultimo garante e salvatore, anche nel campo del rapporto tra etica e scienza. Di fatto l’uomo è stato donato a se stesso da Dio e deve, perciò, rispettare la struttura naturale e morale di cui è stato dotato. In effetti, tutto questo deve essere proposto con chiarezza e convinzione ai giovani, protagonisti dell’immediato futuro.
Il settimo capitolo punta sul rapporto tra giovani e vita ecclesiale. Di fronte a una società sempre più complessa, che bombarda i giovani con messaggi che dicono cosa fare e cosa pensare, si rimprovera il messaggio cristiano di essere in netta minoranza sia in termini quantitativi che qualitativi. I giovani sono abituati a messaggi accattivanti, attenti allo stile, mentre spesso la chiesa non dà peso alla forma, perdendo man mano il contatto con i ragazzi perché rimane fissata alle pratiche tradizionali, ad un linguaggio obsoleto e non più adeguato ai tempi. È evidente che oggi non c’è bisogno di gente che ripeta a memoria nozioni: c’è piuttosto urgente necessità di chi viva l’incontro con Dio e sappia trasmettere la fede, unendo idea ed emozione. Se i giovani non vedono nei credenti, e specialmente negli educatori dei testimoni credibili della gioia vera, avranno difficoltà a pensare che la via della fede sia quella della felicità. È necessario, allora, pensare a un nuovo linguaggio che aiuti a entrare in relazione con i ragazzi di oggi e a educatori preparati per questo nostro tempo e non più catechisti improvvisati, con metodi obsoleti e superati. Occorre anche una conversione pastorale che non consideri più i giovani come semplici destinatari, ma li riconosca e li promuova sempre più come protagonisti della vita del popolo di Dio. Si parla dei giovani, si progetta sui giovani, ma i giovani spesso non ci sono. Essere protagonisti dovrà significare per i giovani riconoscersi persone caricate di un invio, innamorate di chi invia, il Signore Gesù, e di ciò che hanno da dire di Lui quali testimoni della bellezza d’averlo incontrato.
Nell’ottavo capitolo l’autore ci parla della speranza che fa vivere. Egli presenta due concezioni sulla speranza. Entrambe si confrontano tra loro, ma sono radicalmente diverse. La prima concezione riguarda la visione del mondo che fa della speranza la proiezione in avanti delle possibilità dell’uomo, un’espressione della capacità di trasformare il mondo e la vita in una sorta di anticipazione militante dell’avvenire. È la visione moderna, legata alla nascita del protagonista adulto e all’emancipazione della scienza e della filosofia del progresso. A confronto con questa concezione della speranza ce n’è un’altra che è quella della visione cristiana. Essa attesta che la salvezza attesa e sperata non è un fiore della terra, spuntato esclusivamente grazie alla fatica dell’uomo, ma è un dono dall’alto, certamente preparato e atteso, tuttavia sempre sorprendente e irriducibile a un calcolo puramente umano. Si profila, quindi, la scelta tra due diverse visioni su ciò che si deve sperare: l’emancipazione o la redenzione, il futuro come realizzazione delle potenzialità del soggetto storico o il domani come frutto dell’alleanza tra l’attesa umana e il dono divino. Alla luce dell’enciclica Spe salvi di Benedetto XVI, l’autore sottolinea che una speranza troppa umana non ha prodotto maggiore libertà, uguaglianza e fraternità. Come lo provano le ideologie dell’epoca moderna, la speranza affidata al solo portatore umano è sfociata nell’inferno dei totalitarismi, dei genocidi e delle solitudini in cui l’altro è stato ridotto ad avversario da eliminare o semplice “straniero morale” da ignorare. Di fatto la speranza non è qualcosa che possiamo creare e gestire con le nostre forze. La speranza è Qualcuno che viene a noi, trascendente e sovrano, libero e liberante per noi. Venuto tra noi nella pienezza del tempo, Gesù, Verbo incarnato, che ha dischiuso un cammino, ha acceso un’attesa, ancora più grande del compimento di tutto. Per cui il credente è e resta un cercatore di Dio, un mendicante del cielo.
Il tema della vocazione è l’argomento dell’ultimo capitolo. La vocazione non è il frutto di un calcolo umano o una scelta puramente terrena. Essa viene dall’alto e Dio solo è fonte della vita e del progetto secondo cui spenderla nel modo più vero e più bello. Perciò la vocazione anima tutti i moti della coscienza indirizzandoli a Dio e, per rispondervi, occorre consegnare se stesso senza riserva e lasciarsi condurre dallo Spirito Santo, rinnovando ogni giorno il sì a Dio. La vocazione è accompagnata dalla speranza affidabile, senza la quale nessun impegno d’amore eterno, definitivo e stabile per tutta la vita potrà mai apparire possibile o essere realizzato. Le attitudini necessarie a discernere e realizzare la propria vocazione sono l’ascolto di Dio, la preghiera e la carità. Chi si nutre dell’ascolto della Parola di Dio impara ad amare il Signore e a vivere in costante dialogo con Lui, avvolto nel suo amore.
Perciò il cristiano non prega un Dio, ma prega in Dio: quando prega non sta davanti a Dio come un straniero, ma entra nelle profondità di Dio lasciandosi avvolgere dal mistero della Trinità santa. L’ascolto orante della Sacra Scrittura lo fa sentire amato e lo rende capace di amare, così da comprendere facilmente che è chiamato a impegnarsi per gli altri sui passi di Gesù. A questa verità i giovani hanno bisogno di essere guidati da personalità ricche di carità e di spirito di preghiera.
L’autore conclude il suo libro con due lettere, una rivolta ai giovani e l’altra ai sacerdoti giovani. Nella prima l’arcivescovo esorta i giovani a sognare cercando di comprendere il sogno non come fuga dalla realtà o presunzione di realizzare con le sole forze umane ciò che è impossibile, ma come sfida a volare alto, a vedere l’invisibile e ad amare con amore che viene da Dio e che ci invita a fare della nostra vita la realizzazione del suo progetto, spendendola con gioia, nel modo più bello, che è il servizio a Lui e agli altri. L’autore è certo che la presenza attiva e responsabile dei giovani nelle comunità cristiana, come nella società civile, potrà arricchire tutti del desiderio di sognare insieme e spingerà a realizzare il sogno di Dio nella sequela del suo figlio Gesù in cui l’amore eterno ha preso carne tra noi. Nella lettera ai sacerdoti giovani l’autore sottolinea le cinque sfide che si presentano nella vita di un presbitero. La prima sfida è la solitudine che, per colui che ha conosciuto Gesù, non è assenza di altri, ma è essere stato rapito dalla luce del volto di Dio sempre cercato col desiderio di stare con Lui e di lasciarsi lavorare da Lui. Così, la si vive come momento di grazia e di autentica generosità e libertà. La seconda sfida è lo scoraggiamento e la frustrazione di fronte agli scarsi risultati e fallimenti del ministero. Per questa sfida l’arcivescovo esorta i sacerdoti a confidare sempre nel Signore perché solo lui conosce i frutti del ministero e a volte fa scoprire i segni dopo lungo tempo, al di là di ogni calcolo e attesa. La terza sfida sta nel rapporto con quelli che gli sono affidati. A volte alcune persone sono proprio insopportabili, ma l’importante è imparare a guardarle con lo sguardo amorevole, come un padre che ama i propri figli, a prescindere dai loro meriti o dalla loro effettiva amabilità. La quarta consiste nella comunione col vescovo e con il presbiterio. Qui l’arcivescovo insiste sull’amore fraterno, invitando i sacerdoti ad avere a cuore il bene gli uni per gli altri. L’ultima sfida è quella dei rapporti familiari, delle amicizie e degli affetti. Ci sono tanti esempi belli di relazioni umane autentiche, ma ci sono anche parimenti rischi e atteggiamenti sbagliati. Occorre, allora, essere tanto umani e insieme tanto veri nell’appartenenza esclusiva a Gesù. Nessun affetto deve separare il sacerdote da lui.
Questo testo è davvero un’opera di un pastore che tiene a cuore le anime a lui affidate dal Signore. La sua opera è un valido aiuto per i tanti pastori che hanno il compito di scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del vangelo. L’analisi contenuta nel testo sveglia la mente e lancia un appello che coinvolge tanto la comunità ecclesiale, che la società civile: a nessuno è lecito chiudere gli occhi o tirarsi indietro rispetto alla sfida educativa e al sostegno e all’accompagnamento da offrire a chi incarna il futuro di tutti. I giovani sono esploratori delle grandi questioni sociali e culturali. Essi percepiscono la fatica ecclesiale di fronte ai cambiamenti e sembrano non trovare nella fede il sostegno necessario per affrontare le sfide del nostro tempo. Chiedono concretamente un maggiore dialogo e un confronto aperto su tutte le grandi questioni etiche, sociali e culturali che segnano la nostra epoca. In effetti la fede, come ripete con insistenza papa Francesco, non è l’incontro con un’idea, ma con una Persona, con Gesù Cristo. Dunque se la fede può cambiare la vita non è tanto perché abbiamo acquisito una conoscenza più approfondita di alcuni verità o perché abbiamo aderito ad alcuni valori, ma è piuttosto perché abbiamo incontrato il Signore. Quindi, è necessario aiutare i giovani a uscire da se stessi. Bisogna essere educatori capaci di far emergere dai giovani il bene, le risorse e i carismi che essi custodiscono e che devono essere considerati in un contesto di educazione alla fede. Bisogna credere e scommettere sui giovani, con sincera fiducia nell’azione dello Spirito Santo che agisce in loro. L’educazione e l’evangelizzazione dei giovani è oggi una delle sfide fondamentali e uno tra compiti più urgenti per la chiesa. È necessaria, allora, una collaborazione tra le persone di buona volontà per salvare e ravvivare la fede dei nostri ragazzi. Si deve avere uno sguardo profondo per scrutare l’animo giovanile e scorgervi dietro le apparenze tesori di interiorità e un’inedita attesa di Dio.
Tratto dalla rivista "Aprenas" n. 1-2/2018
(http://www.pftim.it)
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Salvatore Multinu il 25 ottobre 2018 alle 18:59 ha scritto:
Un bel testo per chi deve confrontarsi con il mondo giovanile, più rivolto agli educatori che ai giovani stessi. Il continuo confronto con brani del Vecchio e del Nuovo Testamento lo rende anche un bel testo di spiritualità.