Lettura di Habermas
-Filosofia e religione nella società post-secolare
(Giornale di teologia)EAN 9788839908421
Le due parti in cui è diviso il volume rivelano chiaramente le intenzioni dell’A., docente di Filosofia teoretica e di Filosofia del dialogo interreligioso all’Università di Genova: da una parte, «offrire una guida alla lettura e all’approfondimento di un autore (Habermas) non facile da leggere e da capire» (p. 6), presentando in maniera concisa le tappe principali del suo percorso intellettuale, e, dall’altra, approfondire quell’interesse per le tematiche religiose, che «prima sfiorate solo sporadicamente, negli ultimi dieci anni sono diventate sempre più presenti, fino a dare il titolo a diversi dei suoi saggi e persino libri» (p. 9).
Nella prima parte l’A. individua due cesure abbastanza nette nell’itinerario di Habermas. La prima, maturata nel 1956 e generalmente poco considerata, segna il «passaggio dall’ontologia (di segno fondamentalmente heideggeriano) alla teoria critica (di segno marxiano-francofortese)» (p. 18-19). La seconda, realizzatasi agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, introduce alla terza e ultima fase del suo pensiero, di cui l’espressione più significativa è il volume Teoria dell’agire comunicativo (1981), ed è caratterizzata dal tentativo di individuare «le immanenti strutture normative della comunicazione linguistica concepibili come regole dell'intesa interpersonale» (p. 24). Tali strutture, universalmente valide e necessariamente accettate come presupposto da tutti i parlanti, consentono l’elaborazione di un’etica normativa, dal momento che ne offrono i criteri e i principi di fondo, il principio di universalizzazione, il principio del consenso e il principio dell’etica del discorso, che la giustificano e la legittimano in senso razionale, come pure permettono la costruzione di una filosofia del diritto e di una teoria della democrazia.
Se la prima parte appare come un consistente capitolo di una storia della filosofia contemporanea, pregevole per chiarezza didattica, la seconda parte, alla quale sono dedicati circa i due terzi delle pagine complessive, è certamente quella più interessante ed originale, dal momento che mette in evidenza una crescente attenzione verso la religione da parte di un filosofo che pur non cessa di dichiararsi «privo di sensibilità musicale per la religione». L’A. evidenzia come, in un primo momento, a partire dagli anni ’80, Habermas si limiti a riconoscere il debito della sua concezione rispetto all’«etica universalistica della fratellanza» (p. 79) propria della tradizione religiosa ebraico-cristiana, negando tuttavia che tale tradizione risulti ancora necessaria «per il pieno dispiegamento e il mantenimento di strutture razionali resesi ormai autonome» (p. 79).
Successivamente egli non solo ammette la capacità della religione di sopravvivere, di fatto, all’interno di una società secolare, ma addirittura giunge ad auspicare tale sopravvivenza «per sopperire a lacune e incapacità (almeno temporanee) dei linguaggi e delle pratiche puramente razionali» (p. 86), lacune e incapacità che devono essere individuate non tanto negli ambiti cognitivo-morali, nei quali il pensiero post-metafisico è pienamente competente, ma piuttosto in quelli affettivo-esistentivi, quelli che esprimono l’esigenza di «senso» e la richiesta di «salvezza». E tuttavia Habermas ancora auspica che anche tali richieste possano trovare un giorno una loro espressione in un linguaggio non più metafisico-religioso, ma pienamente razionale, come è avvenuto per le questioni etiche e giuridiche.
Negli scritti degli ultimi dieci anni (1999-2008) Habermas si occupa sempre più frequentemente e direttamente di religione sia affrontando la questione del rapporto tra fede e sapere, tra religione e filosofia, sia evidenziando il ruolo significativo che la religione può svolgere all'interno della società secolare (o meglio, post-secolare). Egli riconosce che, se, da una parte, i credenti non possono che partecipare al dibattito pubblico traducendo in un linguaggio argomentativo, comprensibile universalmente, le loro convinzioni e i loro valori etici, i non credenti, da parte loro, devono conservare «una sensibilità per la forza espressiva dei linguaggi religiosi», riconoscendo in essi la presenza di «importanti risorse di senso» (p. 111) di cui la società stessa ha bisogno, soprattutto nei dibattiti etico-normativi, per essere maggiormente in grado «di reggere alla corrosione della sostanza etica che minaccia di disgregare il suo stesso patrimonio normativo» (p. 117). In tal modo Habermas, riconoscendo i limiti insormontabili della razionalità procedurale, ritiene che si possa giungere ad una sorta di «divisione del lavoro tra filosofia e teologia, tra sapere e fede» (p. 114), in quanto ambiti epistemici e atteggiamenti cognitivi profondamente diversi, ma anche intrecciati tra di loro sia di fatto, da un punto di vista storico, sia per la possibilità di principio di una loro interazione. Se in effetti la filosofia ha ormai ereditato dalla religione, traducendole in un linguaggio razionale, delle fondamentali intuizioni morali universali, essa avverte ancora il bisogno delle tradizioni religiose per attingere a quel «di più», a quell’eccedenza rispetto al linguaggio razionale della moralità che le caratterizza. Quel «di più» riguarda sia i valori «etici» sostanziali, condivisi e motivanti, non riducibili ai principi formali dell’«etica del discorso», sia quella questione del senso e del fondamento del tutto, di Dio e del divino, che una filosofia post-metafisica, metodologicamente a-tea, non può affrontare. Solo nelle tradizioni religiose infatti sembra possibile trovare quegli «elementi linguistici che aiutano a far fronte alle ‘situazioni limite’, alle contingenze dolorose estreme, specie quelle che colpiscono alla sprovvista e rendono impotenti e senza parole» (p. 156). Alla filosofia viene riconosciuto dunque il compito di operare una fondazione, in termini rigorosamente procedurali, della morale e del diritto, mentre alla religione e alla fede vengono demandate quelle questioni «solistiche» che eccedono i limiti della razionalità.
Tuttavia è proprio nei confronti di tale rigida divisione del lavoro, che pur esprime una notevole apertura verso la religione rispetto alle posizioni del «primo» Habermas, che si rivolgono le critiche dell’A. Esse possono essere sintetizzate nell’osservazione che manca nel filosofo francofortese un approccio autenticamente filosofico alla religione, dal momento che il rispetto e l’apprezzamento nei suoi confronti non impedisce che venga considerata pur sempre come una realtà estranea ed «opaca» rispetto alla razionalità filosofica, visto che a quest’ultima viene vietata, senza alcuna giustificazione, ogni tematizzazione del problema del «senso». Tale impostazione conduce sì ad un apprezzamento della religione, non però in quanto tale, «ma solo per le sue ricadute etico-politiche valorizzabili in prospettiva sociologica» (p. 165).
Il volume mantiene pienamente le promesse iniziali: in un numero non eccessivo di pagine, dense ma scorrevoli, ci offre una presentazione equilibrata, obiettiva e puntuale del pensiero di Habermas nei confronti della religione, sottolineandone le aperture ma anche evidenziandone gli aspetti problematici e le questioni irrisolte.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2010, nr. 2
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
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