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Credere e interpretare. La svolta ermeneutica della teologia (gdt 288)
(Giornale di teologia)EAN 9788839907882
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DETTAGLI DI «Credere e interpretare. La svolta ermeneutica della teologia (gdt 288)»
Tipo
Libro
Titolo
Credere e interpretare. La svolta ermeneutica della teologia (gdt 288)
Autore
Geffré Claude
Traduttore
Crespi P.
Editore
Queriniana Edizioni
EAN
9788839907882
Pagine
208
Data
gennaio 2002
Peso
210 grammi
Altezza
19,5 cm
Larghezza
12,3 cm
Collana
Giornale di teologia
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Recensioni di riviste specialistiche su «Credere e interpretare. La svolta ermeneutica della teologia (gdt 288)»
Recensione di Luigi Sartori della rivista Studia Patavina
Piccolo di mole, ma lavoro densissimo. Potrebbe sembrare una raccolta di articoli, e senza bilancio conclusivo, ma risulta essere piuttosto quasi un ricco riassunto finale di profondi studi e riflessioni che hanno occupato l’intera vita dell’illustre teologo domenicano. I 7 capitoli offrono, ciascuno, una ricca pertinente bibliografia, non solo di testi di autori studiati ma anche di scritti dello stesso Geffré. Nei primi due capitoli si fissa la svolta ermeneutica della teologia in quanto scienza della fede cristiana, che intende adeguarsi al carattere di esperienza storica della stessa fede. Nelle sue radici la fede cristiana, infatti, nasce come risposta a una Parola storica, e come obbedienza di ascolto che chiama ad ‘assumere interpretando’. Siamo tutti dentro una ‘tradizione di esperienza della Parola (di Gesú Cristo Rivelatore)’, nei primi uditori degli apostoli, ma a più forte ragione in coloro che in seguito devono rifarsi a scritti che veicolano la primitiva Parola. Geffré non indugia sul ‘come’ del primitivo momento del dono divino della Parola, e cioè degli originari mediatori profetici (in primis di Gesú, e poi degli apostoli testimoni ‘orali’); che pure sarebbe un problema assai interessante anche se delicato. Parte quasi subito dalla questione della Bibbia e della sua esegesi; soprattutto ponendosi di fronte al fatto della moderna consolidata sua natura ‘critica’ nello studio dei testi sacri. Ma egli insiste soprattutto sul primato del momento della interpretazione anche in quanto impegno ‘continuo’: ogni generazione cristiana deve offrire la sua interpretazione, poiché questa obbliga ad attingere anche dal soggetto e contesto umano, dalla cultura e dalla storia dei credenti, se intende ridare un autentico senso attuale alla Parola. Quindi si esige un perenne ‘re-interpretare’, un ‘recepire’ che diventi ‘ri-recepire’ quasi da capo, tutto, e sempre. Puntuale il 2° capitolo: non solo interpretare la Bibbia, ma anche i Concili (cioè il Magistero e i dogmi); anzi a più forte ragione!, perché essi non sono ‘la’ Parola divina, ma solo una interpretazione umana per quanto autorevole. Ma, ritornando al primo capitolo, Geffré avverte di dover affrontare, da buon domenicano cultore della teologia speculativa, la questione del rapporto dell’ermeneutica con l’ontologia; vi spende solo due pagine (19-21); ma lo fa con estrema densità, ammettendo, sì, che la teologia ha anche un compito speculativo, ma insistendo piuttosto sulla preoccupazione di non esagerare le pretese di questa: anche la speculativa deve non aspirare a prospettive di totalità; deve procedere con modestia, per via di ‘approssimazioni’ successive, ammettere diversità di visioni, e soprattutto (questo lo sottolineo io, e con particolare gioia!) tenendo conto che il mistero di Dio e della sua Parola è trascendente, è ineffabile!
Il secondo tema (cap. 3°) svela uno dei motivi primari della trattazione qui curata da Geffré; si tratta di rispondere al rifiuto dell’esegesi critica moderna da parte del fondamentalismo. Egli prende di mira soprattutto al fondamentalismo ‘francese’, in quanto questo è sorretto anche da alcuni validi teologi e studiosi di sacra scrittura (un nome: Carmignac; pp. 66-71): questo vuole anticipare la data degli scritti dei Vangeli, per garantirsi (‘ossessione’, egli la chiama, p. 71) il dono di un’immediata prossimità alla tradizione ‘orale’ del Vangelo. Per rispondere a tale sfida Geffré insiste sulle tre ragioni che secondo lui lo motivano: la reazione alla esegesi scientifica, l’esperienza di conversione (in parecchi convertiti prevale la forza di una fede senza problemi e quasi gridata!), e il bisogno psicologico (‘angoscioso’, p. 77) di certezza. E per finire, egli sottolinea la carenza (o la paura) di prestare attenzione al rapporto specifico tra verità e storia, in specie tra storia e Spirito Santo: non basta il riferimento al dato storico (al Gesú narrato dai testi), ma è necessario anche contare effettivamente sull’azione dello Spirito Santo (pp. 88-91): è lo Spirito che dà occhi adeguati e luce sempre nuova, sprigionando questa anche dalla cultura e dalla vicenda storica in cui vive l’interprete, per condurre questi ad una interpretazione che sia veramente attualizzante.
Ma il terzo tema (cap. 4°) è forse quello che rivela il fine cui mira in positivo tutto il lavoro; se il fondamentalismo pare un momento negativo, l’ostacolo da vincere, invece l’ermeneutica si rivela importante soprattutto in ordine a predisporre la fede e la teologia al pluralismo religioso. Questo il contesto che risulta davvero nuovissimo (e che durerà a lungo; per Geffré… fino alla fine della storia). Perciò la teologia ermeneutica deve assumere un nuovo paradigma, e aprirsi a dimensioni planetarie; c’è necessità di un ‘ecumenismo planetario’ (p. 120ss). Qui si situa allora l’interrogativo più delicato che a me solleva la posizione dell’Autore. Ho già accennato sopra all’opinione di Geffré circa la durata della condizione di pluralità di religioni; egli insiste nel ritenere che esso è ‘irriducibile, insormontabile’ (pp. 8; 107; 149…); e, pur facendo spazio al dialogo, pensa che non si potrà arrivare all’unità di una sola fede religiosa in espressioni diverse; e cioè, pur sostenendo che ogni tradizione religiosa è ‘traducibile’ (p. 117; ecco uno dei frutti dell’impostazione ermeneutica), concede che si possa giungere solo ad una prospettiva di unità sul fronte dell’etica (e diritti umani) e su quello della mistica (ma si rammenti l’appello, sopra citato, al mistero inteso come ineffabile); è reticente perfino sulla possibilità di una unità nel momento antropologico previo, ossia quanto al ‘senso religioso’, all’‘apertura e tensione a Dio’ (p. 122). Su questo tema, confesso che mi sento più vicino alla posizione di p. Dupuis S. J. Mentre p. Geffré è teologo domenicano e che ragiona quindi secondo una mentalità speculativa tomistica, p. Dupuis invece è missionario gesuita che per quasi quarant’anni ha respirato il clima culturale e religioso dell’India e pertanto può svolgere un discorso più attento alla concretezza del dialogo e dello scambio mutuo tra religioni. Dupuis sostiene appunto che bisogna tendere anche all’unità di fede, pur nei tempi lunghi che non possiamo a priori determinare. Sembra che, perciò, si possa applicare al dialogo interreligioso l’ideale in atto nell’ambito dell’ecumenismo tra chiese cristiane; ossia quello di una unità ‘nella e dalla diversità’. Certo: dovranno cadere molti pregiudizi anche dottrinali in tutte le religioni, per assestarsi su un fondo comune che sia ‘relativamente massimale anche se minimale quanto a contenuti specifici’; anche Cristo e la grazia (perfino la chiesa e la sacramentalità…) potrebbero trovare spazio un domani, - con teologia purificata e trasfigurata –, almeno in qualche forma, nelle attuali religioni non cristiane (poiché il cristianesimo, nella sua verità genuina e radicale, non è propriamente una religione, ma una fede che si propone come anima e sprone verso un traguardo di perfezione escatologica, e in ordine ad ogni fede e religione).
Eppure il cap. 5° (Salvezza in Gesú Cristo e missione della chiesa) è proprio quello in cui p. Geffré rimanda a p. Dupuis (pp. 147-150). Sì, anch’egli insiste sulla testimonianza esplicita del Vangelo, e poi sul dialogo, per l’offerta del dono di Cristo; ma ‘il compimento escatologico’, secondo lui, non riguarda il cristianesimo in quanto ‘religione storica’, bensì solo il Mistero di Cri-sto in pienezza. Gli ultimi due capitoli (6° e 7°) applicano la teoria di Geffré (irriducibilità del pluralismo religioso fino alla fine della storia) al rapporto col Giudaismo e con l’Islam. Nonostante il dialogo, resteremo in un dinamismo (però fecondo!) di ‘contestazione reciproca’ sino alla fine della storia. Geffrè parla di un pluralismo ‘di principio’ e non solo ‘di fatto’, in senso più assoluto che p. Dupuis. Come si vede, con ciò cambia radicalmente tutto l’orizzonte teologico tradizionale della missione. Non mi fermo su altri punti particolari del libro, anche se sarebbe interessante farlo. Mi pare che la novità più decisiva rimanga quell’opinione (o teoria) che mi sono permesso di discutere; e che dà sapore a tutta l’opera. Anche per tale motivo, anzi proprio per questo, lo addito come testo originale e assolutamente benefico per una teologia che voglia davvero ‘pensare e sempre ripensare’, per ridare vita alla propria tradizione.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2005, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
Il secondo tema (cap. 3°) svela uno dei motivi primari della trattazione qui curata da Geffré; si tratta di rispondere al rifiuto dell’esegesi critica moderna da parte del fondamentalismo. Egli prende di mira soprattutto al fondamentalismo ‘francese’, in quanto questo è sorretto anche da alcuni validi teologi e studiosi di sacra scrittura (un nome: Carmignac; pp. 66-71): questo vuole anticipare la data degli scritti dei Vangeli, per garantirsi (‘ossessione’, egli la chiama, p. 71) il dono di un’immediata prossimità alla tradizione ‘orale’ del Vangelo. Per rispondere a tale sfida Geffré insiste sulle tre ragioni che secondo lui lo motivano: la reazione alla esegesi scientifica, l’esperienza di conversione (in parecchi convertiti prevale la forza di una fede senza problemi e quasi gridata!), e il bisogno psicologico (‘angoscioso’, p. 77) di certezza. E per finire, egli sottolinea la carenza (o la paura) di prestare attenzione al rapporto specifico tra verità e storia, in specie tra storia e Spirito Santo: non basta il riferimento al dato storico (al Gesú narrato dai testi), ma è necessario anche contare effettivamente sull’azione dello Spirito Santo (pp. 88-91): è lo Spirito che dà occhi adeguati e luce sempre nuova, sprigionando questa anche dalla cultura e dalla vicenda storica in cui vive l’interprete, per condurre questi ad una interpretazione che sia veramente attualizzante.
Ma il terzo tema (cap. 4°) è forse quello che rivela il fine cui mira in positivo tutto il lavoro; se il fondamentalismo pare un momento negativo, l’ostacolo da vincere, invece l’ermeneutica si rivela importante soprattutto in ordine a predisporre la fede e la teologia al pluralismo religioso. Questo il contesto che risulta davvero nuovissimo (e che durerà a lungo; per Geffré… fino alla fine della storia). Perciò la teologia ermeneutica deve assumere un nuovo paradigma, e aprirsi a dimensioni planetarie; c’è necessità di un ‘ecumenismo planetario’ (p. 120ss). Qui si situa allora l’interrogativo più delicato che a me solleva la posizione dell’Autore. Ho già accennato sopra all’opinione di Geffré circa la durata della condizione di pluralità di religioni; egli insiste nel ritenere che esso è ‘irriducibile, insormontabile’ (pp. 8; 107; 149…); e, pur facendo spazio al dialogo, pensa che non si potrà arrivare all’unità di una sola fede religiosa in espressioni diverse; e cioè, pur sostenendo che ogni tradizione religiosa è ‘traducibile’ (p. 117; ecco uno dei frutti dell’impostazione ermeneutica), concede che si possa giungere solo ad una prospettiva di unità sul fronte dell’etica (e diritti umani) e su quello della mistica (ma si rammenti l’appello, sopra citato, al mistero inteso come ineffabile); è reticente perfino sulla possibilità di una unità nel momento antropologico previo, ossia quanto al ‘senso religioso’, all’‘apertura e tensione a Dio’ (p. 122). Su questo tema, confesso che mi sento più vicino alla posizione di p. Dupuis S. J. Mentre p. Geffré è teologo domenicano e che ragiona quindi secondo una mentalità speculativa tomistica, p. Dupuis invece è missionario gesuita che per quasi quarant’anni ha respirato il clima culturale e religioso dell’India e pertanto può svolgere un discorso più attento alla concretezza del dialogo e dello scambio mutuo tra religioni. Dupuis sostiene appunto che bisogna tendere anche all’unità di fede, pur nei tempi lunghi che non possiamo a priori determinare. Sembra che, perciò, si possa applicare al dialogo interreligioso l’ideale in atto nell’ambito dell’ecumenismo tra chiese cristiane; ossia quello di una unità ‘nella e dalla diversità’. Certo: dovranno cadere molti pregiudizi anche dottrinali in tutte le religioni, per assestarsi su un fondo comune che sia ‘relativamente massimale anche se minimale quanto a contenuti specifici’; anche Cristo e la grazia (perfino la chiesa e la sacramentalità…) potrebbero trovare spazio un domani, - con teologia purificata e trasfigurata –, almeno in qualche forma, nelle attuali religioni non cristiane (poiché il cristianesimo, nella sua verità genuina e radicale, non è propriamente una religione, ma una fede che si propone come anima e sprone verso un traguardo di perfezione escatologica, e in ordine ad ogni fede e religione).
Eppure il cap. 5° (Salvezza in Gesú Cristo e missione della chiesa) è proprio quello in cui p. Geffré rimanda a p. Dupuis (pp. 147-150). Sì, anch’egli insiste sulla testimonianza esplicita del Vangelo, e poi sul dialogo, per l’offerta del dono di Cristo; ma ‘il compimento escatologico’, secondo lui, non riguarda il cristianesimo in quanto ‘religione storica’, bensì solo il Mistero di Cri-sto in pienezza. Gli ultimi due capitoli (6° e 7°) applicano la teoria di Geffré (irriducibilità del pluralismo religioso fino alla fine della storia) al rapporto col Giudaismo e con l’Islam. Nonostante il dialogo, resteremo in un dinamismo (però fecondo!) di ‘contestazione reciproca’ sino alla fine della storia. Geffrè parla di un pluralismo ‘di principio’ e non solo ‘di fatto’, in senso più assoluto che p. Dupuis. Come si vede, con ciò cambia radicalmente tutto l’orizzonte teologico tradizionale della missione. Non mi fermo su altri punti particolari del libro, anche se sarebbe interessante farlo. Mi pare che la novità più decisiva rimanga quell’opinione (o teoria) che mi sono permesso di discutere; e che dà sapore a tutta l’opera. Anche per tale motivo, anzi proprio per questo, lo addito come testo originale e assolutamente benefico per una teologia che voglia davvero ‘pensare e sempre ripensare’, per ridare vita alla propria tradizione.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2005, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
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