La vita umana nella riflessione etica (gdt 269)
(Giornale di teologia)EAN 9788839907691
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DETTAGLI DI «La vita umana nella riflessione etica (gdt 269)»
Tipo
Libro
Titolo
La vita umana nella riflessione etica (gdt 269)
Autore
Zuccaro Cataldo
Editore
Queriniana Edizioni
EAN
9788839907691
Pagine
360
Data
gennaio 2000
Peso
360 grammi
Altezza
19,5 cm
Larghezza
12,3 cm
Collana
Giornale di teologia
COMMENTI DEI LETTORI A «La vita umana nella riflessione etica (gdt 269)»
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Recensioni di riviste specialistiche su «La vita umana nella riflessione etica (gdt 269)»
Recensione di Giuseppe Trentin della rivista Studia Patavina
Dicono i francesi: plus ça change, plus c’est la même chose, più si cambia, più tutto è come prima. A dispetto degli enormi e spesso sconvolgenti cambiamenti verificatisi nell’ambito delle biotecnologie i principi che fondano la riflessione etica sono quelli di sempre: il bene della persona, la responsabilità morale, il valore della vita, la felicità, il benessere, ecc. A partire da questi principi la riflessione etica elabora criteri e norme in base alle quali l’uomo valuta e sceglie un determinato modo di comportarsi, di realizzare il bene. Il bel libro di Zuccaro è un tentativo di riflettere e di elaborare da un punto di vista etico una serie di criteri e norme per la difesa e la realizzazione del valore fondamentale della vita. Un’impresa -diciamolo subito- che non è mai stata facile, e tanto meno lo è oggi, ma è comunque urgente e necessaria. Cresce infatti la consapevolezza che il progresso scientifico e biotecnologico attuale è tale da costituire una sfida quotidiana per la nostra vita. Più si attende, più la distanza tra fatti e valori, interventi biotecnologici e riflessione etica, cresce, aumenta, con grave danno per tutti. Cataldo Zuccaro, ordinario di teologia morale all’Istituto Teologico Leoniano di Anagni e professore invitato presso le Pontifìcie Università Gregoriana e Urbaniana, ha raccolto questa sfida e nel libro che presentiamo ci offre una serie di riflessioni metodologiche e tematiche nelle quali si intrecciano, illuminandosi a vicenda, antropologia, etica e teologia nella prospettiva di un duplice approfondimento: sulla natura dell’etica, in particolare della bioetica, e su alcuni nuovi problemi morali che lo sviluppo della scienza e delle nuove biotecnologie solleva e pone alla coscienza di tutti.
Il volume -quasi un manuale di bioetica- si articola in sei capitoli densi e ben costruiti, che riprendono, in parte, alcune riflessioni e pubblicazioni maturate in tempi e circostanze diverse. Il primo capitolo ha per titolo “Nuove domande sulla vita”(pp.9-48) ed ha un carattere prevalentemente descrittivo. In esso vengono richiamate e illustrate delicate questioni epistemologiche e antropologiche che soggiaciono allo sviluppo più recente della scienza, in particolare delle scienze della vita. Molto opportunanente l’autore le riprende, le esplicita, ne chiarisce i contenuti e le implicazioni, le colloca -da teologo- all’interno di un orizzonte che ha come punti di riferimento, da una parte, il progetto di Dio sulla creazione, dall’altra la vocazione degli uomini chiamati ad essere “sempre responsabili di sé, nell’esercizio delle responsabilità”. Il secondo e terzo capitolo, intitolati rispettivamente “Lo spazio del tempo nell’etica della vita”(pp.49-94) e “Il corpo nell’etica della vita”(pp. 95-144), rielaborano in modo pertinente e molto stimolante alcune intuizioni e considerazioni filosofiche e teologiche che illuminano il rapporto tra tempo, corpo e vita. Gli ultimi tre capitoli affrontano una serie di temi e problemi concreti e attuali che vengono analizzati con attenzione ed encomiabile chiarezza seguendo la linea di sviluppo della vita nelle sue tre fasi o tappe fondamentali. Di qui i titoli dei rispettivi capitoli: “Vita nascente”(pp. 145-205), “Vita, salute e malattia”(pp. 207-262), “La vita del morente”(pp. 263-346). A partire da questi tre ambiti e nuclei fondamentali della riflessione l’autore si addentra progressivamente nella analisi di alcuni tra i problemi più delicati e complessi della bioetica: la diagnosi genetica prenatale, l’aborto, la clonazione umana, il trapianto, l’accanimento terapeutico, l’uso degli analgesici, l’eutanasia, il suicidio. Ogni capitolo si apre con una breve, ma puntuale, descrizione fenomenologica e si conclude con la proposta di una suggestiva icona cristologica. Le note ed i rimandi bibliografici permettono al lettore di verificare la pertinenza delle fonti e di allargare la prospettiva verso nuovi orizzonti di ricerca e di valutazione etico-normativa.
Difficile, per non dire impossibile, confrontarsi sui singoli temi e problemi affrontati nel libro. Mi limito pertanto a qualche considerazione su due questioni particolari, più che altro per stimolare il lettore ad ulteriori riflessioni. La prima, di carattere generale e quasi metodologico, riguarda il divieto di uccidere che il nostro autore riafferma con forza e convinzione sulla base di un insegnamento tradizionale, condiviso anche al di fuori della tradizione cattolica, che solitamente viene riformulato in termini normativi precisi e determinati nel modo seguente: non è mai lecito uccidere direttamente un innocente. A partire da tale riformulazione etico-normativa, che costituisce il perno della riflessione etica sulla vita, la tradizione cattolica ha sempre insegnato a valutare diversamente il colpevole dall’innocente, con la conseguenza -non sempre avvertita- che si può arrivare a legittimare troppo facilmente l’uccisione del colpevole. La presunzione invece è che non si deve mai uccidere nessuno, neanche il colpevole, a meno che non si dimostri in modo rigoroso che quello è l’unico mezzo per difendere e promuovere la vita degli altri. L’onere della prova, quindi, spetta non a chi condanna, bensì a chi giustifica l’uccisione del colpevole, per quanto se ne restringa l’ambito di applicazione. Non a caso dopo la pubblicazione del Catechismo della chiesa cattolica sono state sollevate tante obiezioni nei confronti di un pronunciamento che sembrava legittimare, sia pure limitatamente, la pena di morte. Il senso di tali obiezioni era racchiuso nella domanda: come mai la chiesa cattolica è così poco severa e determinata nel combattere la pena di morte, mentre si dimostra tanto decisa e a volte persino intransigente nel difendere la vita nascente? La risposta comunemente data è che non si può stabilire un parallelo tra i due casi: mentre un criminale viene ritenuto colpevole di ciò che ha fatto, altrettanto non si può dire dell’embrione o del feto, che sono innocenti. Non c’è chi non intraveda in questo modo di ragionare un’assunzione della distinzione colpevole-innocente in termini morali. Di qui una certa incongurenza: è certamente vero che un criminale è o può essere ritenuto colpevole di ciò che ha fatto, ma si può dire di un embrione o di un feto che sono moralmente innocenti, dal momento che non sono capaci di moralità?
D’altra parte -ecco una seconda incongruenza- perché non applicare alla pena di morte la stessa dottrina tuzioristica che la chiesa applica alla ricerca sugli embrioni? Secondo tale dottrina, nel dubbio se un embrione sia persona o meno fin dal momento della fecondazione, la via maestra da seguire è il cosiddetto principio tuzioristico, che prescrive di considerare e trattare sempre l’embrione come persona, quantomeno fino a prova contraria. Il motivo che fonda tale principio è abbastanza evidente: quando sono in gioco valori fondamentali -e non vi è dubbio che la vita di un embrione sia un valore fondamentale- la prudenza insegna che è sempre bene seguire la via più sicura, non quella più probabile o soltanto probabile. Di qui una nuova domanda: come mai la chiesa non ha applicato e non applica con altrettanto rigore il principio tuzioristico alla pena di morte? In fondo anche per il condannato a morte può sussistere il dubbio che non sia colpevole, che il giudice commetta un errore, o che un determinato sistema giudiziario non offra sufficienti garanzie di imparzialità. Ancora una volta la risposta comunemente data non sembra del tutto convincente: mentre a livello teorico viene fatta valere la distinzione colpevole-innocente, a livello pratico si rimanda alla confessione di colpevolezza dell’imputato o alla carenza di mezzi e strutture alternative per la difesa dei cittadini. A parte il fatto che nei sistemi giuridici più evoluti la confessione dell’imputato non viene più considerata prova di colpevolezza, è opportuno chiedersi: ma è proprio vero che non vi sono altri mezzi, meno radicali e crudeli, per difendere efficacemente la sicurezza dei cittadini? A livello teorico, poi, non si potrebbe argomentare in modo più pertinente e convincente se si assumesse la distinzione colpevole-innocente in chiave non esclusivamente morale, ma per così dire tecnica? Già l’etimologia del termine “innocente” ci suggerisce una simile interpretazione: “innocente”, infatti, etimologicamente parlando, è colui che “non nuoce”, non reca danno agli altri; “colpevole”, invece, è “colui che nuoce”, che reca danno o mette in pericolo la vita degli altri. Sulla base di questa interpretazione non morale, ma eticamente rilevante, della distinzione colpevole-innocente la pena di morte può essere argomentata, al pari dell’aborto, non soltanto in forma pratica o prudenziale, ma anche in linea teorica, di principio. Non sarebbe difficile dimostrare infatti che la morte del colpevole non è uno strumento efficace di deterrenza, in quanto il criminale è sempre convinto al momento del realto di poter sfuggire all’arresto; d’altra parte la sicurezza può essere difesa e garantita in modo più rispettoso della vita, ma non per questo meno efficace, con la reclusione, il carcere, o altri sistemi alternativi di deterrenza.
Ciò che attraverso queste brevi esemplificazioni si vuole ribadire non è tanto la analisi o la valutazione di un problema particolare, quanto un principio generale, per cui una più attenta considerazione del divieto di uccidere in riferimento ad un determinato ambito o problema -nella fattispecie l’etica sociale e la pena di morte- può essere di grande aiuto nell’affrontare e chiarire, con argomentazioni più rigorose e fondate, altri ambiti, come la bioetica, o problemi come l’aborto, l’eutanasia, ecc., che solitamente vengono presi in considerazione e analizzati uno ad uno, separatamente, senza riportarli e rapportarli ad una riflessione più coerente e sistematica. L’appello che di tanto in tanto si sente ripetere per un’etica della vita più consistente non ha un significato soltanto pratico, ma anche teoretico, argomentativo. La ricerca di consenso passa certamente attraverso la testimonianza, l’impegno concreto, il movimento per la vita e le strutture che la difendono e la promuovono. Ma passa anche attraverso il dialogo, il confronto, l’argomentazione paziente e tollerante. Nulla di più pratico, in questo senso, di una buona riflessione o teoria etico-normativa all’altezza delle sfide che si pongono nell’attuale contesto scientifico e biotecnologico.
Su questo sfondo vorrei fare qualche ulteriore considerazione su un’altra questione alquanto disattesa dalla riflessione etica attuale. Mi riferisco alla dottrina della legittima difesa, cruciale per diversi motivi, non ultimo per il fatto che costituisce una specie di paradigma-standard nella valutazione di tanti problemi riguardanti la sicurezza, la guerra, la cosidddetta ingerenza umanitaria, eventuali interventi di polizia internazionale. Com’è noto, per sant’Agostino e san Tommaso la legittima difesa costituiva un problema morale solo a livello privato, non pubblico. Alla legittima autorità infatti essi riconoscevano imparzialità, obiettività di giudizio, neutralità. Solo il privato cittadino poteva essere in balia di emozioni, di sentimenti di odio o di vendetta, o prendere decisioni arbitrarie, inconsulte, poco obiettive. Ispirandosi a san Tommaso molti teologi hanno quindi formulato il cosiddetto principio del doppio effetto, in base al quale è lecito difendere se stessi o i propri beni, anche con la forza se necessario, ma sempre per ragioni proporzionatamente gravi e mai fino al punto di uccidere intenzionalmente l’aggressore. Un’eventuale morte dell’aggressore può essere giustificata unicamente come conseguenza prevista, ma non voluta. Solo il boia o il soldato, in nome dell’autorità, potevano uccidere intenzionalmente l’aggressore.
Non c’è chi non intraveda anche in questo modo di ragionare delle incongruenze, e sempre in riferimento all’assunzione e interpretazione della distinzione colpevole-innocente. A volte chi uccide può essere meno colpevole di chi viene ucciso. Si pensi ad una donna che subisce uno stupro: è più colpevole lei, sotto il profilo morale, o l’aggressore che tenta di stuprarla? Si pensi anche al soldato: sempre da un punto di vista morale è più colpevole lui o il civile che manifesta ed incita alla guerra, magari per sostenere un dittatore o un tiranno crudele? Con ciò non si vuole certo giustificare la donna che uccide in modo indiscriminato lo stupratore. E tanto meno sottacere il fatto che il soldato può uccidere dei civili pacifici e inermi. Si vuole solo richiamare, una volta di più, l’opportunità di ripensare la distinzione colpevole-innocente e il principio in base al quale una maggiore attenzione a un determinato ambito o problema della riflessione etica può aiutare a individuare, in altri ambiti e per altri problemi, argomentazioni più consistenti e rigorose.
A questo punto l’autore potrebbe imputarmi il fatto di aver parlato un po’ a margine dei temi e problemi affrontati nel suo libro. Questo è vero, ma devo dire che l’ho fatto a ragion veduta e per un duplice motivo: anzitutto perché l’impostazione globale della sua riflessione e le conclusioni normative alle quali perviene mi trovano sostanzialmente d’accordo; in secondo luogo mi premeva offrire qualche spunto per ulteriori riflessioni metodologiche e tematiche a partire dal principio della fondamentale unità della vita e della riflessione etica, anche in vista di eventuali nuove edizioni del libro.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2003, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
Il volume -quasi un manuale di bioetica- si articola in sei capitoli densi e ben costruiti, che riprendono, in parte, alcune riflessioni e pubblicazioni maturate in tempi e circostanze diverse. Il primo capitolo ha per titolo “Nuove domande sulla vita”(pp.9-48) ed ha un carattere prevalentemente descrittivo. In esso vengono richiamate e illustrate delicate questioni epistemologiche e antropologiche che soggiaciono allo sviluppo più recente della scienza, in particolare delle scienze della vita. Molto opportunanente l’autore le riprende, le esplicita, ne chiarisce i contenuti e le implicazioni, le colloca -da teologo- all’interno di un orizzonte che ha come punti di riferimento, da una parte, il progetto di Dio sulla creazione, dall’altra la vocazione degli uomini chiamati ad essere “sempre responsabili di sé, nell’esercizio delle responsabilità”. Il secondo e terzo capitolo, intitolati rispettivamente “Lo spazio del tempo nell’etica della vita”(pp.49-94) e “Il corpo nell’etica della vita”(pp. 95-144), rielaborano in modo pertinente e molto stimolante alcune intuizioni e considerazioni filosofiche e teologiche che illuminano il rapporto tra tempo, corpo e vita. Gli ultimi tre capitoli affrontano una serie di temi e problemi concreti e attuali che vengono analizzati con attenzione ed encomiabile chiarezza seguendo la linea di sviluppo della vita nelle sue tre fasi o tappe fondamentali. Di qui i titoli dei rispettivi capitoli: “Vita nascente”(pp. 145-205), “Vita, salute e malattia”(pp. 207-262), “La vita del morente”(pp. 263-346). A partire da questi tre ambiti e nuclei fondamentali della riflessione l’autore si addentra progressivamente nella analisi di alcuni tra i problemi più delicati e complessi della bioetica: la diagnosi genetica prenatale, l’aborto, la clonazione umana, il trapianto, l’accanimento terapeutico, l’uso degli analgesici, l’eutanasia, il suicidio. Ogni capitolo si apre con una breve, ma puntuale, descrizione fenomenologica e si conclude con la proposta di una suggestiva icona cristologica. Le note ed i rimandi bibliografici permettono al lettore di verificare la pertinenza delle fonti e di allargare la prospettiva verso nuovi orizzonti di ricerca e di valutazione etico-normativa.
Difficile, per non dire impossibile, confrontarsi sui singoli temi e problemi affrontati nel libro. Mi limito pertanto a qualche considerazione su due questioni particolari, più che altro per stimolare il lettore ad ulteriori riflessioni. La prima, di carattere generale e quasi metodologico, riguarda il divieto di uccidere che il nostro autore riafferma con forza e convinzione sulla base di un insegnamento tradizionale, condiviso anche al di fuori della tradizione cattolica, che solitamente viene riformulato in termini normativi precisi e determinati nel modo seguente: non è mai lecito uccidere direttamente un innocente. A partire da tale riformulazione etico-normativa, che costituisce il perno della riflessione etica sulla vita, la tradizione cattolica ha sempre insegnato a valutare diversamente il colpevole dall’innocente, con la conseguenza -non sempre avvertita- che si può arrivare a legittimare troppo facilmente l’uccisione del colpevole. La presunzione invece è che non si deve mai uccidere nessuno, neanche il colpevole, a meno che non si dimostri in modo rigoroso che quello è l’unico mezzo per difendere e promuovere la vita degli altri. L’onere della prova, quindi, spetta non a chi condanna, bensì a chi giustifica l’uccisione del colpevole, per quanto se ne restringa l’ambito di applicazione. Non a caso dopo la pubblicazione del Catechismo della chiesa cattolica sono state sollevate tante obiezioni nei confronti di un pronunciamento che sembrava legittimare, sia pure limitatamente, la pena di morte. Il senso di tali obiezioni era racchiuso nella domanda: come mai la chiesa cattolica è così poco severa e determinata nel combattere la pena di morte, mentre si dimostra tanto decisa e a volte persino intransigente nel difendere la vita nascente? La risposta comunemente data è che non si può stabilire un parallelo tra i due casi: mentre un criminale viene ritenuto colpevole di ciò che ha fatto, altrettanto non si può dire dell’embrione o del feto, che sono innocenti. Non c’è chi non intraveda in questo modo di ragionare un’assunzione della distinzione colpevole-innocente in termini morali. Di qui una certa incongurenza: è certamente vero che un criminale è o può essere ritenuto colpevole di ciò che ha fatto, ma si può dire di un embrione o di un feto che sono moralmente innocenti, dal momento che non sono capaci di moralità?
D’altra parte -ecco una seconda incongruenza- perché non applicare alla pena di morte la stessa dottrina tuzioristica che la chiesa applica alla ricerca sugli embrioni? Secondo tale dottrina, nel dubbio se un embrione sia persona o meno fin dal momento della fecondazione, la via maestra da seguire è il cosiddetto principio tuzioristico, che prescrive di considerare e trattare sempre l’embrione come persona, quantomeno fino a prova contraria. Il motivo che fonda tale principio è abbastanza evidente: quando sono in gioco valori fondamentali -e non vi è dubbio che la vita di un embrione sia un valore fondamentale- la prudenza insegna che è sempre bene seguire la via più sicura, non quella più probabile o soltanto probabile. Di qui una nuova domanda: come mai la chiesa non ha applicato e non applica con altrettanto rigore il principio tuzioristico alla pena di morte? In fondo anche per il condannato a morte può sussistere il dubbio che non sia colpevole, che il giudice commetta un errore, o che un determinato sistema giudiziario non offra sufficienti garanzie di imparzialità. Ancora una volta la risposta comunemente data non sembra del tutto convincente: mentre a livello teorico viene fatta valere la distinzione colpevole-innocente, a livello pratico si rimanda alla confessione di colpevolezza dell’imputato o alla carenza di mezzi e strutture alternative per la difesa dei cittadini. A parte il fatto che nei sistemi giuridici più evoluti la confessione dell’imputato non viene più considerata prova di colpevolezza, è opportuno chiedersi: ma è proprio vero che non vi sono altri mezzi, meno radicali e crudeli, per difendere efficacemente la sicurezza dei cittadini? A livello teorico, poi, non si potrebbe argomentare in modo più pertinente e convincente se si assumesse la distinzione colpevole-innocente in chiave non esclusivamente morale, ma per così dire tecnica? Già l’etimologia del termine “innocente” ci suggerisce una simile interpretazione: “innocente”, infatti, etimologicamente parlando, è colui che “non nuoce”, non reca danno agli altri; “colpevole”, invece, è “colui che nuoce”, che reca danno o mette in pericolo la vita degli altri. Sulla base di questa interpretazione non morale, ma eticamente rilevante, della distinzione colpevole-innocente la pena di morte può essere argomentata, al pari dell’aborto, non soltanto in forma pratica o prudenziale, ma anche in linea teorica, di principio. Non sarebbe difficile dimostrare infatti che la morte del colpevole non è uno strumento efficace di deterrenza, in quanto il criminale è sempre convinto al momento del realto di poter sfuggire all’arresto; d’altra parte la sicurezza può essere difesa e garantita in modo più rispettoso della vita, ma non per questo meno efficace, con la reclusione, il carcere, o altri sistemi alternativi di deterrenza.
Ciò che attraverso queste brevi esemplificazioni si vuole ribadire non è tanto la analisi o la valutazione di un problema particolare, quanto un principio generale, per cui una più attenta considerazione del divieto di uccidere in riferimento ad un determinato ambito o problema -nella fattispecie l’etica sociale e la pena di morte- può essere di grande aiuto nell’affrontare e chiarire, con argomentazioni più rigorose e fondate, altri ambiti, come la bioetica, o problemi come l’aborto, l’eutanasia, ecc., che solitamente vengono presi in considerazione e analizzati uno ad uno, separatamente, senza riportarli e rapportarli ad una riflessione più coerente e sistematica. L’appello che di tanto in tanto si sente ripetere per un’etica della vita più consistente non ha un significato soltanto pratico, ma anche teoretico, argomentativo. La ricerca di consenso passa certamente attraverso la testimonianza, l’impegno concreto, il movimento per la vita e le strutture che la difendono e la promuovono. Ma passa anche attraverso il dialogo, il confronto, l’argomentazione paziente e tollerante. Nulla di più pratico, in questo senso, di una buona riflessione o teoria etico-normativa all’altezza delle sfide che si pongono nell’attuale contesto scientifico e biotecnologico.
Su questo sfondo vorrei fare qualche ulteriore considerazione su un’altra questione alquanto disattesa dalla riflessione etica attuale. Mi riferisco alla dottrina della legittima difesa, cruciale per diversi motivi, non ultimo per il fatto che costituisce una specie di paradigma-standard nella valutazione di tanti problemi riguardanti la sicurezza, la guerra, la cosidddetta ingerenza umanitaria, eventuali interventi di polizia internazionale. Com’è noto, per sant’Agostino e san Tommaso la legittima difesa costituiva un problema morale solo a livello privato, non pubblico. Alla legittima autorità infatti essi riconoscevano imparzialità, obiettività di giudizio, neutralità. Solo il privato cittadino poteva essere in balia di emozioni, di sentimenti di odio o di vendetta, o prendere decisioni arbitrarie, inconsulte, poco obiettive. Ispirandosi a san Tommaso molti teologi hanno quindi formulato il cosiddetto principio del doppio effetto, in base al quale è lecito difendere se stessi o i propri beni, anche con la forza se necessario, ma sempre per ragioni proporzionatamente gravi e mai fino al punto di uccidere intenzionalmente l’aggressore. Un’eventuale morte dell’aggressore può essere giustificata unicamente come conseguenza prevista, ma non voluta. Solo il boia o il soldato, in nome dell’autorità, potevano uccidere intenzionalmente l’aggressore.
Non c’è chi non intraveda anche in questo modo di ragionare delle incongruenze, e sempre in riferimento all’assunzione e interpretazione della distinzione colpevole-innocente. A volte chi uccide può essere meno colpevole di chi viene ucciso. Si pensi ad una donna che subisce uno stupro: è più colpevole lei, sotto il profilo morale, o l’aggressore che tenta di stuprarla? Si pensi anche al soldato: sempre da un punto di vista morale è più colpevole lui o il civile che manifesta ed incita alla guerra, magari per sostenere un dittatore o un tiranno crudele? Con ciò non si vuole certo giustificare la donna che uccide in modo indiscriminato lo stupratore. E tanto meno sottacere il fatto che il soldato può uccidere dei civili pacifici e inermi. Si vuole solo richiamare, una volta di più, l’opportunità di ripensare la distinzione colpevole-innocente e il principio in base al quale una maggiore attenzione a un determinato ambito o problema della riflessione etica può aiutare a individuare, in altri ambiti e per altri problemi, argomentazioni più consistenti e rigorose.
A questo punto l’autore potrebbe imputarmi il fatto di aver parlato un po’ a margine dei temi e problemi affrontati nel suo libro. Questo è vero, ma devo dire che l’ho fatto a ragion veduta e per un duplice motivo: anzitutto perché l’impostazione globale della sua riflessione e le conclusioni normative alle quali perviene mi trovano sostanzialmente d’accordo; in secondo luogo mi premeva offrire qualche spunto per ulteriori riflessioni metodologiche e tematiche a partire dal principio della fondamentale unità della vita e della riflessione etica, anche in vista di eventuali nuove edizioni del libro.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2003, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
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