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Essere responsabili della fede. Una teologia fondamentale (BTC 122)
(Biblioteca di teologia contemporanea)EAN 9788839904225
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DETTAGLI DI «Essere responsabili della fede. Una teologia fondamentale (BTC 122)»
Tipo
Libro
Titolo
Essere responsabili della fede. Una teologia fondamentale (BTC 122)
Autore
Werbick Jürgen
Traduttore
Danna C.
Editore
Queriniana Edizioni
EAN
9788839904225
Pagine
1088
Data
gennaio 2002
Peso
1450 grammi
Altezza
23 cm
Larghezza
16 cm
Collana
Biblioteca di teologia contemporanea
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Recensioni di riviste specialistiche su «Essere responsabili della fede. Una teologia fondamentale (BTC 122)»
Recensione di Andrea Toniolo della rivista Studia Patavina
Il volume di J. Werbick, docente di teologia fondamentale a Münster, si presenta come un lavoro monumentale – nella traduzione italiana della Queriniana supera le mille pagine – che raccoglie i trattati di teologia fondamentale, normalmente svolti come corsi distinti nelle Facoltà teologiche tedesche. Ciò spiega la mole consistente: si tratterebbe di quattro volumi raccolti in uno, e che potrebbero essere letti in maniera autonoma. Questa prima indicazione rappresenta già una chiave di lettura del testo, che non va preso come un blocco unico e compatto, e che presenta riprese, a volte ripetizioni. Nonostante queste limitazioni, inevitabili, si avverte una struttura unitaria e una criteriologia molto precisa che scandisce le quattro parti della pubblicazione: Streitfall Religion, Streitfall Offenbarung, Streitfall Erlösung, Streitfall Kirche (il caso dibattuto della religione, della rivelazione, della redenzione, della chiesa). Come la maggior parte dei trattati di teologia fondamentale in ambito tedesco anche questo non esce dai binari classici delle tre demonstrationes (religiosa, cristiana e cattolica), ma affronta le tematiche con una metodologia nuova (ermeneutica fondamentalmente: ciascuna questione si presenta come uno Streitfall, un tema controverso, dibattuto, che esige di essere esplicitato) e smembra il trattato sulla rivelazione (demonstratio christiana) in due parti: rivelazione e redenzione. La rivelazione in quanto salvezza rappresenta una categoria fortemente contestata nell’epoca moderna: «L’accentuazione soteriologica della problematica cristologica è frutto della valutazione “apologetica”, secondo la quale il cristianesimo sarebbe caduto nella sua drammatica crisi di credibilità a motivo del crollo della concezione tradizionale della redenzione, ma è anche frutto del giudizio teologico-fondamentale, secondo il quale la concezione cristiana della rivelazione potrebbe essere esplicitata in misura sufficiente solo se concepiamo l’autorivelazione di Dio come comunicazione di salvezza», (trad. it., p. 7; originale tedesco, p. XV).
«Entscheidendes Kriterium mu? sein, ob das Unbedingte jeweils als Unbedingte gegeben ist» (originale tedesco, p. 70; tr. it. p. 94): come criterio decisivo ci si chiede se l’incondizionato è dato ogni volta come incondizionato. Nell’esperienza religiosa il rapporto dell’uomo con Dio è tale per cui l’uomo è pienamente se stesso, senza revocare il carattere incondizionato del Dio con cui si pone in relazione, oppure per affermare l’autonomia dell’uomo si deve necessariamente giungere al carattere condizionato di Dio, al suo divenire disposto/disponibile all’uomo? La critica della religione dell’epoca moderna, e la questione della religione in sé, è ricondotta sostanzialmente a tale dibattito.
Nella prima parte, dedicata al dibattito tipicamente moderno sulla religione, l’autore individua quattro modalità con cui può essere percepito l’incondizionato (originale tedesco p. 72 ss.):
a) Il modo elementare è quello della commozione (Betroffensein) improvvisa-immediata, sperimentata come una richiesta a conformarsi a ciò che viene percepito in maniera improvvisa. L’incondizionato è colto come qualcosa di potenzialmente pericoloso. La critica della religione moderna ha cercato di smascherare tale commozione riducendola a produzione collettiva o individuale.
b) La mediazione soggettiva: il soggetto appare come il luogo o il mezzo attraverso cui appare l’incondizionato.
c) La differenza costitutiva tra l’autospiegazione dell’uomo e la spiegazione del suo essere riferito a ciò che lo concerne in maniera incondizionata va identificata con la differenza tra l’incondizionato come condizione e ciò che da questa in maniera irrinunciabile è condizionato. L’incondizionato appare come la condizione di possibilità del poter essere dell’uomo e del poter rimanere umano dell’uomo.
d) L’incondizionato in quanto assoluto non va inteso come l’assolutezza escludente, senza relazione, ma come «l’origine libera, “autooriginaria” e la realtà definitiva di quella potenza di relazione, a partire dalla quale e per la quale la libertà finita è liberata per se stessa» (originale tedesco, p.74; tr. it., p. 98).
Questi quattro modi di darsi dell’incondizionato costituiscono la criteriologia di indagine in ognuno dei quattro trattati presenti nel volume.
La prospettiva con cui l’autore sviluppa il confronto con il pensiero moderno attorno alla religione è quella della verità, in tutte le accezioni della tradizione biblica e occidentale: «La riflessione teologico-fondamentale cerca di pensare questa verità di Dio, affinchè la sua pretesa di verità e la promessa in essa insita possano sollecitare il pensiero» (tr. it., p. 104); anzi l’obiettivo della teologia fondamentale è quello di prospettare la relazione con Dio come il luogo possibile della verità.
Nella prima parte del volume Werbick colloca la questione, il “caso controverso” della religione nel contesto culturale moderno e post-moderno e conclude l’itinerario con un capitolo («Zwischenreflexion») sul rapporto tra fede e ragione. La fede di fronte al vaglio della ragione moderna e post-moderna si presenta come un’opzione accanto a tante altre possibili nella “società multiottativa” post-moderna, che moltiplica le opzioni senza orientare la decisione. La fede è senza dubbio un’opzione, ma non un’opzione arbitraria; il compito della ragione è quello di liberare l’esperienza credente dal sospetto dell’arbitrarietà: «La fede è – sotto il profilo gnoseologico – un’opzione; questo è incontestabile. E in una opzione l’optante punta su quello che è per lui desiderabile, quindi sul fatto che questo desiderabile costituisca e determini sempre più la realtà della sua vita. Se la fede va considerata come l’opzione umana fondamentale – come l’ ‘option fondamentale’ - questo significa per il nostro contesto: la fede è un’opzione in ordine al quale il credente vive, in cui egli ‘investe’ se stesso, la posta con la quale egli rischia se stesso nella speranza di guadagnare tutto….Questa opzione della fede non pone la realtà, in favore della quale essa opta; essa si sa piuttosto fondata in tale realtà e da essa sollecitata. Il fatto di essere fondato nella realtà, in favore della quale credendo si opta, non è un autocoscienze fondare se stesso su un ‘fundamentum inconcussum’, bensì – come ha evidenziato Pascal – un rischiare e impegnare se stesso, un aprirsi e un protendersi verso colui che può venire a noi soltanto se noi ci affidiamo allo Spirito mediante cui egli “attira a sé” gli uomini» (tr. it., p. 221).
Rimane comunque sempre il fossato tra un’argomentazione che raccomanda il sì della fede (la forza di persuasione razionale) e la scelta, la «decisione di pronunciare quel sì e di rimanere ad esso fedeli con conseguenze di vitale importanza» (tr. it. 275).
Nella seconda parte il teologo di Münster affronta il tema controverso della rivelazione: la questione della necessità della rivelazione storica, il rapporto tra verità di ragione e verità di rivelazione, il carattere storico, il piano naturale e soprannaturale (lo schema del Vaticano I), il nesso tra immanenza e trascendenza, esperienza e rivelazione (che cosa significa concretamente che «degli uomini incontrano Dio, confidano nell’azione di Dio? Come avviene ciò concretamente? Che si sperimenta in tali circostanze? Tali esperienze sono distinguibili con sicurezza da altre in cui non incontriamo Dio? Oppure sono distinguibili solo per mezzo dell’interpretazione che la comunità di fede ne dà?», tr. it., p. 341), il concetto hegeliano di rivelazione (per Hegel non esiste contrapposizione tra conoscenza razionale e conoscenza storica di Dio in quanto la storia diventa il luogo in cui lo spirito si automanifesta e si comprende).
L’impostazione speculativa hegeliana se da una parte provoca la teologia a superare la forma dogmatica ed estrinsecistica della rivelazione, e a pensare in maniera coerente e seria le verità della fede, dall’altra corre il rischio di ridurre il cristianesimo a una spiegazione logica della realtà: «La coerenza del pensiero di Hegel risolve in fondo l’irrazionalità di quanto accade in una necessità universale della rivelazione, per la quale anche ciò che non sarebbe semplicemente dovuto essere doveva essere e capitare, affinché Dio si manifestasse per mezzo di esso e in esso come l’assoluto. In questo modo l’a posteriori – l’esterno e l’estremo – non è risolto nell’a priori, la storia non è trasposta nella speculazione, lo scandalo del negativo non è illecitamente superato nella teodicea del sistema?» (tr. it., p. 346).
Due questioni in particolare offrono la chiave di lettura dello specifico cristiano: il nesso tra rivelazione “interiore” ed “esteriore” e la rivelazione come sollecitazione e promessa. Se si identifica la parola esteriore con quella interiore si cade nell’ermeneutica psicanalitica (vedi Drewermann: la verità di rivelazione è intesa interamente come verità del cuore); se, per verso contrario, si separa la parola esteriore da quella interiore, la rivelazione si riduce a un evento autoritario esterno, a cui si deve solo l’obbedienza. Come intendere il rapporto tra parola “esteriore” e parola “interiore” senza tali derive? La parola di Dio “contraddice” (tr. it., p. 385) l’uomo, lo provoca ad affidarsi, e in questo modo corrisponde alla sua natura. L’autore rimanda in particolare al pensiero di Kierkegaard, per il quale è la verità che viene all’uomo e lo libera dal cerchio della soggettività, dal peccato; il percorso contrario è impossibile per la condizione di peccato in cui l’uomo si trova.
La rivelazione – la seconda questione da menzionare – non è una comunicazione di sapere, ma giunge come “sollecitazione e promessa”, raggiunge l’uomo nella sua condizione esistenziale, storica, temporale: «La parola di Dio non è semplicemente la conferma “antropologicamente necessaria” e il potenziale stabilizzante dotato di senso, che infonde certezza e consolazione nell’uomo in mezzo a tutti gli attacchi e alle difficoltà della realtà del mondo…Essa è perlomeno altrettanto l’annuncio di una alternativa profondamente irritante e che mette profondamente in discussione le certezze e le consolazioni...La parola di Dio scopre, mentre rivela, come Dio – e lui soltanto – sia il garante della promessa su cui l’uomo può arrischiare la propria vita» (tr. it., p. 407). Tale lettura è comprensibile nel contesto attuale se si mette in rapporto il concetto moderno di storia (il campo della probabilità, della contingenza, della casualità in cui al massimo si può dare un po’ di ordine) e quello biblico-teologico: storia universale, con un senso e un fine.
Nella scienza storica moderna la storia è considerata il campo della contingenza e della probabilità, e perciò viene rifiutato qualsiasi tentativo di visione universale fondata storicamente, in quanto sospettata di autolegittimazione: «La storiografia conosce solo una coerenza di corto respiro e prospettivistica del divenire, una coerenza e una intelligibilità di storie o favole. L’affermazione di una coerenza universale del divenire le riesce sospetta e la induce a vedere in essa l’invenzione di una storia di legittimazione, con il cui aiuto si reclama per sé il possesso di un piano di una storia mondiale e la missione della sua realizzazione. Le ipotesi fondamentali di una storia universale, ricostruita come storia della rivelazione e della provvidenza, sarebbero pertanto il risultato di una estrema negazione della contingenza: l’accaduto non sarebbe più infatti per essa accessibile solo nella elaborazione narrativa della contingenza, bensì andrebbe concepito come la necessaria messa in scena da parte di Dio per amore di un piano salvifico e come la reazione di Dio all’agire contingente degli uomini» (tr. it., p. 420).
Nel giustificare l’universalità della rivelazione storica di Dio va tenuta in debito conto anche la critica della scuola di Francoforte, secondo cui la rivendicazione di universalità è ideologica, cade nella logica moderna della ragione assolutizzante, che degenera in assolutismi. Per questo motivo e non ignorando troppo facilmente tale critica, anche il linguaggio teologico con cui si mostra la credibilità del cristianesimo e con cui si parla della verità di fede dovrebbe mostrare come la rivelazione universale è contraria ad ogni forma di assolutizzazione: «Alla ragione sequestrante ed emarginante il non sequestrabile si oppone colui che realizza la promessa, in essa tradita, dell’universale. Egli si identifica con le vittime che le false assolutizzazioni esigono quando cercano di imporsi sequestrando e selezionando; si mostra come colui che recupera l’eliminato e gli eliminati, come colui che accoglie i caduti fuori e i falliti, li fa comparire e non li dà per perduti. Si mostra come colui che stabilisce relazioni lì dove i rapporti sono caratterizzati dalla separazione, si mostra come colui che conduce verso il futuro lì dove il futuro sembrava precluso e la mortale mancanza di futuro inevitabile. La sua assolutezza, che non conosce più alcun al di fuori, non significa imperialismo, ma salvezza; salvezza nella miseria della caduta fuori e dell’esclusione subita, salvezza dalla miseria della morte, in cui la caduta fuori minaccia di trasformarsi in un destino definitivo irrimediabile» (tr. it., pp. 442-443).
In questo processo argomentativo che coglie l’universalità non assolutizzante, non escludente del cristianesimo, viene collocato anche il rapporto tra cristianesimo e altre religioni. La stessa rivelazione racchiude il criterio per una “terza via” tra il pluralismo religioso irenico, che di fatto annulla la ricchezza e l’identità della religione, e il fondamentalismo, il settarismo: «Una via sulla quale ci si lascia indicare dalla rivelazione biblica il criterio della verità,…ma si tenta precisamente di far sì che questo criterio scopra anche la verità “degli altri” e costringa a prendere seriamente la loro obiezione contro le proprie convinzioni come un contributo irrinunciabile per la scoperta della verità rivelata di Dio» (tr. it., p. 464). In un passaggio successivo l’autore articola in maniera ulteriore la questione: «L’assoluto che uno potrebbe pretendere per sé è l’assoluto falso, sequestrante e sequestrato, anzi terroristico dei fanatici che devono tenere violentemente lontano da sé l’altro nella sua alterità. L’assoluto non è pretendibile, esso è presente nella interpellanza che mi pretende, ma che non può diventare la mia interpellanza. L’interpellanza proviene dall’assoluto….Ma l’interpellato e il sollecitato non può essere il soggetto di questa interpellanza. Questo è un aspetto della questione. Ma questa interpellanza e questa richiesta mi si fanno incontro concretamente; vogliono essere percepite concretamente, ad esse bisogna rispondere concretamente…Senza questa concretezza l’interpellanza incondizionata dell’assoluto e la sua sollecitazione assoluta rimarrebbero vuote. …In questo sta il problema del pluralismo nel campo della religione. Siamo costretti ad accettare questo pluralismo senza poterlo nello stesso tempo lasciare semplicemente sussistere; altrimenti ci sottrarremmo alla sollecitazione dell’assoluto, in quanto relativizzeremo le diverse concretizzazioni fino a renderle indeterminate. Come possiamo accettare il pluralismo e non lasciarlo nello stesso tempo semplicemente sussistere? Evidentemente solo prendendo posizione verso un luogo, verso una determinata concretizzazione della sollecitazione promettente dell’assoluto e cercando di corrispondere al Lògos così come esso è ivi percepito, cercando nello stesso tempo in continuazione di imbattersi in tale sollecitazione anche nell’incontro con altre tradizioni religiose, anzi di percepire proprio nell’incontro con esse in maniera nuova e anche irritantemente diversa quello a cui il Lògos sollecita….Ma l’assoluto – l’autocomunicazione di Dio, la comunicazione della sua verità assoluta – è compreso come tale nel concreto solo nella misura in cui, partendo dal concreto, è possibile trovare una via di accesso a tutte le altre concretizzazioni, in cui gli uomini percepiscono l’interpellanza dell’assoluto…In Gesù Cristo l’assoluto – la verità salutare di Dio stesso – ci si fa incontro nella forma del servo, come “verità servizievole”» (tr. it., pp. 469-471).
La terza parte costituisce una novità rispetto a un percorso teologico-fondamentale classico: il controverso tema della redenzione, la soteriologia (tr. it., pp. 509 ss.). Le questioni da cui muove il discorso sono ben enucleate fin dall’inizio e sono elaborate sempre in rapporto alla credibilità del cristianesimo: la differenza tra salvezza e benessere dell’uomo, la salvezza dalla sofferenza e la salvezza dal peccato, il bisogno di espiazione e sacrificio (il “sangue” di Cristo), la riconciliazione di Dio e la libertà dell’uomo. Una ripresa in chiave fondamentale della soteriologia tiene conto di un duplice sospetto elaborato dalla modernità: quello della critica della religione, «secondo la quale la fede cristiana nella redenzione costringerebbe gli uomini a disprezzarsi – come peccatori – e a far violenza alla loro volontà di vivere per raggiungere alla sequela del Crocifisso la loro salvezza» (tr. it., p. 562); il secondo è un sospetto storico, «secondo il quale la fede nella redenzione non troverebbe alcun sostegno in colui a cui essa si appella come al Redentore; essa sarebbe solo il tentativo di immunizzarsi, mediante interpretazioni di più vasto respiro, contro la catastrofe della morte» (tr. it., p. 563). Come interpretare dunque il motivo biblico dominante del sacrificio di espiazione del Figlio sulla Croce: la morte espiatrice va intesa come simbolo reale dell’amore di Dio che perdona e riconcilia, e dona lo Spirito che è la forza vitale del sangue versato (cf. tr. it., p. 591); la croce è il simbolo reale dell’intera vita di Gesù, vissuta come diaconia, come servizio liberante e riconciliante, non certo come disprezzo del mondo e della vita (secondo l’interpretazione nietzschiana).
Il capitolo sulla redenzione termina con la riflessione “intermedia” (Zwischenreflexion) sulla fede e il senso. Latente nella tematica del senso è il rischio di una riduzione antropologica del cristianesimo, di una giustificazione puramente funzionale al bisogno di senso: «Possiamo supporre che la congiuntura del concetto ‘senso della vita’ indica, a partire dalla fine del secolo XIX e anche nel modo con cui essa si è sedimentata nella teologia, esattamente questa antropologizzazione e soggettivizzazione della trascendenza, ma che così essa favorisce anche, nella scia di Feuerbach, un riduzionismo al “nient’altro che”. Sembra che sia stato effettivamente Feuerbach ad aver introdotto il concetto di ‘senso della vita’ nella sua accezione ancor oggi corrente e ad averlo subito opposto a una “trascendenza radicale” verso un aldilà» (tr. it., p. 760). Werbick, approfondendo la problematica del rapporto tra fede e senso, mette in luce come la fede non è primariamente un dare senso ma un ricevere senso. In questa prospettiva va interpretato l’attribuzione del concetto di senso alla verità di fede, oppure quando si parla di cristianesimo dotato di senso.
Il volume si chiude con una sezione, piuttosto lineare, dedicata alla chiesa (tr. it., pp. 781ss.), richiamando i seguenti temi: la critica moderna rivolta alla chiesa (la sua impossibilità, la sua distanza dal Gesù storico e la falsificazione dell’impulso iniziale), la categoria di popolo di Dio, la questione della fondazione, l’immagine storica della societas perfecta, la metafora paolina del corpo di Cristo, la categoria di sacramento (che dice la “relatività” della chiesa), e in particolare la dimensione della communio/comunicazione, sui cui l’autore si sofferma in maniera più diffusa: per evitare una comunicazione a senso unico (che rende i ricettori puramente passivi) è necessario «riflettere sui processi di comunicazione, in cui la chiesa si realizza concretamente nello Spirito di Gesù Cristo come comunità interpretativa e tramandante, come comunità testimoniale e anche come comunità operante» (tr. it., p. 951). La comunione nella chiesa si attua, si rende visibile attraverso la comunicazione: la martyrìa, la leiturghìa, e la diakonìa sono dimensioni fondamentali della comunicazione ecclesiale.
Anche le questioni sul magistero, l’autorità, l’infallibilità, la trasmissione fedele, vanno collocate dentro una concezione della verità cristiana che distingue tra definitività e provvisorietà nella conoscenza, tra “la” verità e “le” verità: «Il Lògos di Dio, la sua autocomunicazione in colui che è la via, non è una cosa di cui possiamo disporre, bensì è appunto solo ‘percorribile’, non vuole essere posseduto e definitivamente stabilito, bensì essere compreso, essere scoperto ed essere seguito in continuazione in modo nuovo percorrendo la via della sequela» (tr. it., p. 1030).
Dopo aver percorso l’itinerario ed essere giunti all’ultima pagina (1031 per la versione italiana), in verità si fa un bel respiro di sollievo, come dopo un traguardo a lungo atteso. Il testo racchiude una mole impressionante di riflessioni, approfondimenti, rimandi di autore; anche se in qualche parte prolisso, l’argomentare viene seguito con piacere e facilità. Si tratta quindi di un lavoro prezioso di Werbick, degno successore di Metz alla cattedra di teologia fondamentale a Münster. Mi sia permessa una nota critica, che non toglie nulla alla seria impostazione del lavoro: l’eccedenza della pensiero critico moderno come termine di confronto di svolgimento del discorso, a scapito del contesto contemporaneo o post-moderno, che sembra assente o poco citato: ad esempio, non viene mai citato un filosofo contemporaneo di grande rilievo, considerato uno dei “teorici” del pensiero post-moderno, J. Derrida.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2005, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
«Entscheidendes Kriterium mu? sein, ob das Unbedingte jeweils als Unbedingte gegeben ist» (originale tedesco, p. 70; tr. it. p. 94): come criterio decisivo ci si chiede se l’incondizionato è dato ogni volta come incondizionato. Nell’esperienza religiosa il rapporto dell’uomo con Dio è tale per cui l’uomo è pienamente se stesso, senza revocare il carattere incondizionato del Dio con cui si pone in relazione, oppure per affermare l’autonomia dell’uomo si deve necessariamente giungere al carattere condizionato di Dio, al suo divenire disposto/disponibile all’uomo? La critica della religione dell’epoca moderna, e la questione della religione in sé, è ricondotta sostanzialmente a tale dibattito.
Nella prima parte, dedicata al dibattito tipicamente moderno sulla religione, l’autore individua quattro modalità con cui può essere percepito l’incondizionato (originale tedesco p. 72 ss.):
a) Il modo elementare è quello della commozione (Betroffensein) improvvisa-immediata, sperimentata come una richiesta a conformarsi a ciò che viene percepito in maniera improvvisa. L’incondizionato è colto come qualcosa di potenzialmente pericoloso. La critica della religione moderna ha cercato di smascherare tale commozione riducendola a produzione collettiva o individuale.
b) La mediazione soggettiva: il soggetto appare come il luogo o il mezzo attraverso cui appare l’incondizionato.
c) La differenza costitutiva tra l’autospiegazione dell’uomo e la spiegazione del suo essere riferito a ciò che lo concerne in maniera incondizionata va identificata con la differenza tra l’incondizionato come condizione e ciò che da questa in maniera irrinunciabile è condizionato. L’incondizionato appare come la condizione di possibilità del poter essere dell’uomo e del poter rimanere umano dell’uomo.
d) L’incondizionato in quanto assoluto non va inteso come l’assolutezza escludente, senza relazione, ma come «l’origine libera, “autooriginaria” e la realtà definitiva di quella potenza di relazione, a partire dalla quale e per la quale la libertà finita è liberata per se stessa» (originale tedesco, p.74; tr. it., p. 98).
Questi quattro modi di darsi dell’incondizionato costituiscono la criteriologia di indagine in ognuno dei quattro trattati presenti nel volume.
La prospettiva con cui l’autore sviluppa il confronto con il pensiero moderno attorno alla religione è quella della verità, in tutte le accezioni della tradizione biblica e occidentale: «La riflessione teologico-fondamentale cerca di pensare questa verità di Dio, affinchè la sua pretesa di verità e la promessa in essa insita possano sollecitare il pensiero» (tr. it., p. 104); anzi l’obiettivo della teologia fondamentale è quello di prospettare la relazione con Dio come il luogo possibile della verità.
Nella prima parte del volume Werbick colloca la questione, il “caso controverso” della religione nel contesto culturale moderno e post-moderno e conclude l’itinerario con un capitolo («Zwischenreflexion») sul rapporto tra fede e ragione. La fede di fronte al vaglio della ragione moderna e post-moderna si presenta come un’opzione accanto a tante altre possibili nella “società multiottativa” post-moderna, che moltiplica le opzioni senza orientare la decisione. La fede è senza dubbio un’opzione, ma non un’opzione arbitraria; il compito della ragione è quello di liberare l’esperienza credente dal sospetto dell’arbitrarietà: «La fede è – sotto il profilo gnoseologico – un’opzione; questo è incontestabile. E in una opzione l’optante punta su quello che è per lui desiderabile, quindi sul fatto che questo desiderabile costituisca e determini sempre più la realtà della sua vita. Se la fede va considerata come l’opzione umana fondamentale – come l’ ‘option fondamentale’ - questo significa per il nostro contesto: la fede è un’opzione in ordine al quale il credente vive, in cui egli ‘investe’ se stesso, la posta con la quale egli rischia se stesso nella speranza di guadagnare tutto….Questa opzione della fede non pone la realtà, in favore della quale essa opta; essa si sa piuttosto fondata in tale realtà e da essa sollecitata. Il fatto di essere fondato nella realtà, in favore della quale credendo si opta, non è un autocoscienze fondare se stesso su un ‘fundamentum inconcussum’, bensì – come ha evidenziato Pascal – un rischiare e impegnare se stesso, un aprirsi e un protendersi verso colui che può venire a noi soltanto se noi ci affidiamo allo Spirito mediante cui egli “attira a sé” gli uomini» (tr. it., p. 221).
Rimane comunque sempre il fossato tra un’argomentazione che raccomanda il sì della fede (la forza di persuasione razionale) e la scelta, la «decisione di pronunciare quel sì e di rimanere ad esso fedeli con conseguenze di vitale importanza» (tr. it. 275).
Nella seconda parte il teologo di Münster affronta il tema controverso della rivelazione: la questione della necessità della rivelazione storica, il rapporto tra verità di ragione e verità di rivelazione, il carattere storico, il piano naturale e soprannaturale (lo schema del Vaticano I), il nesso tra immanenza e trascendenza, esperienza e rivelazione (che cosa significa concretamente che «degli uomini incontrano Dio, confidano nell’azione di Dio? Come avviene ciò concretamente? Che si sperimenta in tali circostanze? Tali esperienze sono distinguibili con sicurezza da altre in cui non incontriamo Dio? Oppure sono distinguibili solo per mezzo dell’interpretazione che la comunità di fede ne dà?», tr. it., p. 341), il concetto hegeliano di rivelazione (per Hegel non esiste contrapposizione tra conoscenza razionale e conoscenza storica di Dio in quanto la storia diventa il luogo in cui lo spirito si automanifesta e si comprende).
L’impostazione speculativa hegeliana se da una parte provoca la teologia a superare la forma dogmatica ed estrinsecistica della rivelazione, e a pensare in maniera coerente e seria le verità della fede, dall’altra corre il rischio di ridurre il cristianesimo a una spiegazione logica della realtà: «La coerenza del pensiero di Hegel risolve in fondo l’irrazionalità di quanto accade in una necessità universale della rivelazione, per la quale anche ciò che non sarebbe semplicemente dovuto essere doveva essere e capitare, affinché Dio si manifestasse per mezzo di esso e in esso come l’assoluto. In questo modo l’a posteriori – l’esterno e l’estremo – non è risolto nell’a priori, la storia non è trasposta nella speculazione, lo scandalo del negativo non è illecitamente superato nella teodicea del sistema?» (tr. it., p. 346).
Due questioni in particolare offrono la chiave di lettura dello specifico cristiano: il nesso tra rivelazione “interiore” ed “esteriore” e la rivelazione come sollecitazione e promessa. Se si identifica la parola esteriore con quella interiore si cade nell’ermeneutica psicanalitica (vedi Drewermann: la verità di rivelazione è intesa interamente come verità del cuore); se, per verso contrario, si separa la parola esteriore da quella interiore, la rivelazione si riduce a un evento autoritario esterno, a cui si deve solo l’obbedienza. Come intendere il rapporto tra parola “esteriore” e parola “interiore” senza tali derive? La parola di Dio “contraddice” (tr. it., p. 385) l’uomo, lo provoca ad affidarsi, e in questo modo corrisponde alla sua natura. L’autore rimanda in particolare al pensiero di Kierkegaard, per il quale è la verità che viene all’uomo e lo libera dal cerchio della soggettività, dal peccato; il percorso contrario è impossibile per la condizione di peccato in cui l’uomo si trova.
La rivelazione – la seconda questione da menzionare – non è una comunicazione di sapere, ma giunge come “sollecitazione e promessa”, raggiunge l’uomo nella sua condizione esistenziale, storica, temporale: «La parola di Dio non è semplicemente la conferma “antropologicamente necessaria” e il potenziale stabilizzante dotato di senso, che infonde certezza e consolazione nell’uomo in mezzo a tutti gli attacchi e alle difficoltà della realtà del mondo…Essa è perlomeno altrettanto l’annuncio di una alternativa profondamente irritante e che mette profondamente in discussione le certezze e le consolazioni...La parola di Dio scopre, mentre rivela, come Dio – e lui soltanto – sia il garante della promessa su cui l’uomo può arrischiare la propria vita» (tr. it., p. 407). Tale lettura è comprensibile nel contesto attuale se si mette in rapporto il concetto moderno di storia (il campo della probabilità, della contingenza, della casualità in cui al massimo si può dare un po’ di ordine) e quello biblico-teologico: storia universale, con un senso e un fine.
Nella scienza storica moderna la storia è considerata il campo della contingenza e della probabilità, e perciò viene rifiutato qualsiasi tentativo di visione universale fondata storicamente, in quanto sospettata di autolegittimazione: «La storiografia conosce solo una coerenza di corto respiro e prospettivistica del divenire, una coerenza e una intelligibilità di storie o favole. L’affermazione di una coerenza universale del divenire le riesce sospetta e la induce a vedere in essa l’invenzione di una storia di legittimazione, con il cui aiuto si reclama per sé il possesso di un piano di una storia mondiale e la missione della sua realizzazione. Le ipotesi fondamentali di una storia universale, ricostruita come storia della rivelazione e della provvidenza, sarebbero pertanto il risultato di una estrema negazione della contingenza: l’accaduto non sarebbe più infatti per essa accessibile solo nella elaborazione narrativa della contingenza, bensì andrebbe concepito come la necessaria messa in scena da parte di Dio per amore di un piano salvifico e come la reazione di Dio all’agire contingente degli uomini» (tr. it., p. 420).
Nel giustificare l’universalità della rivelazione storica di Dio va tenuta in debito conto anche la critica della scuola di Francoforte, secondo cui la rivendicazione di universalità è ideologica, cade nella logica moderna della ragione assolutizzante, che degenera in assolutismi. Per questo motivo e non ignorando troppo facilmente tale critica, anche il linguaggio teologico con cui si mostra la credibilità del cristianesimo e con cui si parla della verità di fede dovrebbe mostrare come la rivelazione universale è contraria ad ogni forma di assolutizzazione: «Alla ragione sequestrante ed emarginante il non sequestrabile si oppone colui che realizza la promessa, in essa tradita, dell’universale. Egli si identifica con le vittime che le false assolutizzazioni esigono quando cercano di imporsi sequestrando e selezionando; si mostra come colui che recupera l’eliminato e gli eliminati, come colui che accoglie i caduti fuori e i falliti, li fa comparire e non li dà per perduti. Si mostra come colui che stabilisce relazioni lì dove i rapporti sono caratterizzati dalla separazione, si mostra come colui che conduce verso il futuro lì dove il futuro sembrava precluso e la mortale mancanza di futuro inevitabile. La sua assolutezza, che non conosce più alcun al di fuori, non significa imperialismo, ma salvezza; salvezza nella miseria della caduta fuori e dell’esclusione subita, salvezza dalla miseria della morte, in cui la caduta fuori minaccia di trasformarsi in un destino definitivo irrimediabile» (tr. it., pp. 442-443).
In questo processo argomentativo che coglie l’universalità non assolutizzante, non escludente del cristianesimo, viene collocato anche il rapporto tra cristianesimo e altre religioni. La stessa rivelazione racchiude il criterio per una “terza via” tra il pluralismo religioso irenico, che di fatto annulla la ricchezza e l’identità della religione, e il fondamentalismo, il settarismo: «Una via sulla quale ci si lascia indicare dalla rivelazione biblica il criterio della verità,…ma si tenta precisamente di far sì che questo criterio scopra anche la verità “degli altri” e costringa a prendere seriamente la loro obiezione contro le proprie convinzioni come un contributo irrinunciabile per la scoperta della verità rivelata di Dio» (tr. it., p. 464). In un passaggio successivo l’autore articola in maniera ulteriore la questione: «L’assoluto che uno potrebbe pretendere per sé è l’assoluto falso, sequestrante e sequestrato, anzi terroristico dei fanatici che devono tenere violentemente lontano da sé l’altro nella sua alterità. L’assoluto non è pretendibile, esso è presente nella interpellanza che mi pretende, ma che non può diventare la mia interpellanza. L’interpellanza proviene dall’assoluto….Ma l’interpellato e il sollecitato non può essere il soggetto di questa interpellanza. Questo è un aspetto della questione. Ma questa interpellanza e questa richiesta mi si fanno incontro concretamente; vogliono essere percepite concretamente, ad esse bisogna rispondere concretamente…Senza questa concretezza l’interpellanza incondizionata dell’assoluto e la sua sollecitazione assoluta rimarrebbero vuote. …In questo sta il problema del pluralismo nel campo della religione. Siamo costretti ad accettare questo pluralismo senza poterlo nello stesso tempo lasciare semplicemente sussistere; altrimenti ci sottrarremmo alla sollecitazione dell’assoluto, in quanto relativizzeremo le diverse concretizzazioni fino a renderle indeterminate. Come possiamo accettare il pluralismo e non lasciarlo nello stesso tempo semplicemente sussistere? Evidentemente solo prendendo posizione verso un luogo, verso una determinata concretizzazione della sollecitazione promettente dell’assoluto e cercando di corrispondere al Lògos così come esso è ivi percepito, cercando nello stesso tempo in continuazione di imbattersi in tale sollecitazione anche nell’incontro con altre tradizioni religiose, anzi di percepire proprio nell’incontro con esse in maniera nuova e anche irritantemente diversa quello a cui il Lògos sollecita….Ma l’assoluto – l’autocomunicazione di Dio, la comunicazione della sua verità assoluta – è compreso come tale nel concreto solo nella misura in cui, partendo dal concreto, è possibile trovare una via di accesso a tutte le altre concretizzazioni, in cui gli uomini percepiscono l’interpellanza dell’assoluto…In Gesù Cristo l’assoluto – la verità salutare di Dio stesso – ci si fa incontro nella forma del servo, come “verità servizievole”» (tr. it., pp. 469-471).
La terza parte costituisce una novità rispetto a un percorso teologico-fondamentale classico: il controverso tema della redenzione, la soteriologia (tr. it., pp. 509 ss.). Le questioni da cui muove il discorso sono ben enucleate fin dall’inizio e sono elaborate sempre in rapporto alla credibilità del cristianesimo: la differenza tra salvezza e benessere dell’uomo, la salvezza dalla sofferenza e la salvezza dal peccato, il bisogno di espiazione e sacrificio (il “sangue” di Cristo), la riconciliazione di Dio e la libertà dell’uomo. Una ripresa in chiave fondamentale della soteriologia tiene conto di un duplice sospetto elaborato dalla modernità: quello della critica della religione, «secondo la quale la fede cristiana nella redenzione costringerebbe gli uomini a disprezzarsi – come peccatori – e a far violenza alla loro volontà di vivere per raggiungere alla sequela del Crocifisso la loro salvezza» (tr. it., p. 562); il secondo è un sospetto storico, «secondo il quale la fede nella redenzione non troverebbe alcun sostegno in colui a cui essa si appella come al Redentore; essa sarebbe solo il tentativo di immunizzarsi, mediante interpretazioni di più vasto respiro, contro la catastrofe della morte» (tr. it., p. 563). Come interpretare dunque il motivo biblico dominante del sacrificio di espiazione del Figlio sulla Croce: la morte espiatrice va intesa come simbolo reale dell’amore di Dio che perdona e riconcilia, e dona lo Spirito che è la forza vitale del sangue versato (cf. tr. it., p. 591); la croce è il simbolo reale dell’intera vita di Gesù, vissuta come diaconia, come servizio liberante e riconciliante, non certo come disprezzo del mondo e della vita (secondo l’interpretazione nietzschiana).
Il capitolo sulla redenzione termina con la riflessione “intermedia” (Zwischenreflexion) sulla fede e il senso. Latente nella tematica del senso è il rischio di una riduzione antropologica del cristianesimo, di una giustificazione puramente funzionale al bisogno di senso: «Possiamo supporre che la congiuntura del concetto ‘senso della vita’ indica, a partire dalla fine del secolo XIX e anche nel modo con cui essa si è sedimentata nella teologia, esattamente questa antropologizzazione e soggettivizzazione della trascendenza, ma che così essa favorisce anche, nella scia di Feuerbach, un riduzionismo al “nient’altro che”. Sembra che sia stato effettivamente Feuerbach ad aver introdotto il concetto di ‘senso della vita’ nella sua accezione ancor oggi corrente e ad averlo subito opposto a una “trascendenza radicale” verso un aldilà» (tr. it., p. 760). Werbick, approfondendo la problematica del rapporto tra fede e senso, mette in luce come la fede non è primariamente un dare senso ma un ricevere senso. In questa prospettiva va interpretato l’attribuzione del concetto di senso alla verità di fede, oppure quando si parla di cristianesimo dotato di senso.
Il volume si chiude con una sezione, piuttosto lineare, dedicata alla chiesa (tr. it., pp. 781ss.), richiamando i seguenti temi: la critica moderna rivolta alla chiesa (la sua impossibilità, la sua distanza dal Gesù storico e la falsificazione dell’impulso iniziale), la categoria di popolo di Dio, la questione della fondazione, l’immagine storica della societas perfecta, la metafora paolina del corpo di Cristo, la categoria di sacramento (che dice la “relatività” della chiesa), e in particolare la dimensione della communio/comunicazione, sui cui l’autore si sofferma in maniera più diffusa: per evitare una comunicazione a senso unico (che rende i ricettori puramente passivi) è necessario «riflettere sui processi di comunicazione, in cui la chiesa si realizza concretamente nello Spirito di Gesù Cristo come comunità interpretativa e tramandante, come comunità testimoniale e anche come comunità operante» (tr. it., p. 951). La comunione nella chiesa si attua, si rende visibile attraverso la comunicazione: la martyrìa, la leiturghìa, e la diakonìa sono dimensioni fondamentali della comunicazione ecclesiale.
Anche le questioni sul magistero, l’autorità, l’infallibilità, la trasmissione fedele, vanno collocate dentro una concezione della verità cristiana che distingue tra definitività e provvisorietà nella conoscenza, tra “la” verità e “le” verità: «Il Lògos di Dio, la sua autocomunicazione in colui che è la via, non è una cosa di cui possiamo disporre, bensì è appunto solo ‘percorribile’, non vuole essere posseduto e definitivamente stabilito, bensì essere compreso, essere scoperto ed essere seguito in continuazione in modo nuovo percorrendo la via della sequela» (tr. it., p. 1030).
Dopo aver percorso l’itinerario ed essere giunti all’ultima pagina (1031 per la versione italiana), in verità si fa un bel respiro di sollievo, come dopo un traguardo a lungo atteso. Il testo racchiude una mole impressionante di riflessioni, approfondimenti, rimandi di autore; anche se in qualche parte prolisso, l’argomentare viene seguito con piacere e facilità. Si tratta quindi di un lavoro prezioso di Werbick, degno successore di Metz alla cattedra di teologia fondamentale a Münster. Mi sia permessa una nota critica, che non toglie nulla alla seria impostazione del lavoro: l’eccedenza della pensiero critico moderno come termine di confronto di svolgimento del discorso, a scapito del contesto contemporaneo o post-moderno, che sembra assente o poco citato: ad esempio, non viene mai citato un filosofo contemporaneo di grande rilievo, considerato uno dei “teorici” del pensiero post-moderno, J. Derrida.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2005, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
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