La teologia politica contemporanea
-Paradigmi, autori, prospettive
(Cultura)EAN 9788838243271
Il libro di Vincenzo Rosito ha il merito di presentare la teologia politica non solo come un paradigma critico-ricostruttivo delle più importanti categorie politiche e giuridiche occidentali; essa appare più che mai viva in quanto dispositivo teorico del mutamento e delle trasformazioni in seno alle istituzioni politiche legate al paradigma della statualità moderna; che va divenendo sempre più post-statualità, in una realtà che alcuni autori definiscono stateless society. Dunque, la teologia politica, agli occhi dell’autore, non è solo quell’ambito specifico della filosofia politica contemporanea, da cui sono scaturite le diverse interpretazioni della modernità o le differenti teorie della secolarizzazione. Pertanto, diventa inevitabile che il “ritorno” del simbolo teologico-politico debba oggi confrontarsi con la genesi e con le trasformazioni delle stesse categorie economico-finanziare, nella misura in cui queste pervadono in maniera sempre più totalizzante gli ambiti e gli spazi tradizionalmente qualificati dalla decisione politica e dalla sua efficacia in seno al dispositivo occidentale della statualità e post-statualità moderna. Il progetto e la prospettiva della teologia politica, qui risiede uno dei tratti più originali dell’analisi di Rosito, vivono e si trasformano negli strumenti, ancora a-venire, di un’eventuale teologia economica.
Un’interessante chiave di lettura del volume di Rosito è la considerazione che la crisi, in quanto “esperienza critica” vissuta da un determinato contesto sociale e in un preciso frangente storico, non rappresenta qualcosa di nuovo per la filosofia occidentale. Pertanto, l’attuale crisi economico-finanziaria che le società occidentali stanno attraversando si offre quasi naturalmente alle analisi della filosofia politica o delle scienze sociali. Filosofia e crisi sono infatti legate da un vincolo stretto e indissolubile, poiché uno dei compiti che da sempre contraddistingue la riflessività occidentale è proprio l’esercizio della critica, l’esercizio cioè del giudizio sull’ora, sull’evento che si offre allo sguardo di chi avverte l’impellenza di interpretarlo. Nella lettura filosofica della crisi è dunque necessario riconoscere la “criticità” di un rapporto, ovvero la criticità del rapporto che per eccellenza contraddistingue la razionalità occidentale: quello tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto.
È possibile sintetizzare il punto di vista dell’Autore nell’affermazione che l’analisi della crisi economico-finanziaria, che ormai da diversi anni incombe a livello planetario, sta lentamente orientando la riflessione filosofico-politica intorno alle modalità con cui la realtà economica determina o condiziona gli universi di senso in cui gli agenti sociali si collocano e agiscono. In pratica, il potere economico non si manifesterebbe soltanto come influenza esercitata dai mercati, dagli istituti bancari o dalle imprese multinazionali sulle sorti della vita politica e sociale.
Per l’Autore, il potere stesso, nella sua generalità, non andrebbe letto esclusivamente come capacità propria di un agente specifico di determinare il comportamento di un altro agente. Tale visione monodirezionale dei rapporti di potere non è più in grado di fornire una lettura adeguata ed efficace del mondo contemporaneo e dell’intera storia sociale dell’umanità.
Per Rosito, il potere è piuttosto uno strumento necessario e onnipervasivo a cui da sempre gli individui socializzati ricorrono per dare forma ai paesaggi istituzionali, politici e sociali in cui vivono; esso rappresenta la sostanza con cui si sono combinati, nel corso dei secoli ruoli, pratiche e saperi ben precisi. Il potere, compreso quello economico, ha sempre una dimensione pluridimensionale, nel senso che è lo strumento principalmente usato per dare forma alla soggettività sia al livello micro delle relazioni interpersonali che al livello più esteso dei rapporti sociali.
Ebbene, il dispositivo della teologia politica per l’Autore farebbe leva proprio su questo presupposto: sondare il rapporto esistente tra sapere teologico e potere, non essendo quest’ultimo sinonimo di dominio, ma di organizzazione di un campo simbolico e pratico di rapporti. La teologia, essendo a sua volta discorso razionale e riflessivo sul rapporto tra un Dio personale e creatore e un essere libero e creato, ricorre alla configurazione di un sapere specifico oltre che a categorie capaci di determinare assetti relazionali e dunque specifiche strutture sociali. Di qui, per il nostro Autore, il rapporto tra sapere teologico e discorso filosofico sul potere è alla base della specificità della teologia politica la quale in maniera del tutto particolare si presenta come disciplina che più di ogni altra ha una matrice al contempo teologica e filosofica. «L’ambito della riflessione teologico-politica è essenzialmente il luogo teorico in cui tanto la filosofia quanto la teologia sono chiamate ad analizzare e a valutare criticamente le implicazioni di quella che può essere definita l’analogia primaria. Con questa espressione, già evidenziata in epoca moderna da Leibniz, si intende un esteso ma circoscritto orizzonte epistemologico in cui è possibile rilevare una sorta di omologia strutturale tra l’ambito del sapere teologico e quello dei significati o delle istituzioni politico-giuridiche. Ritengo che tale analogia primaria non debba riferirsi in prima istanza alle specifiche corrispondenze teologico-politiche della civiltà occidentale, come ad esempio quella intercorrente tra l’ordine teologico della trascendenza di Dio e l’ordine politico-istituzionale della trascendenza del potere o della sovranità. Sussiste infatti un’analogia ben più profonda e radicata secondo cui tanto il sapere teologico del cristianesimo, quanto la riflessione filosofico-politica occidentale nascono e si sviluppano attorno a una pretesa di inclusività, pretendono cioè di scaturire da questioni e problematiche condivise all’interno di un determinato contesto sociale o di rendere comprensibili e dunque condivisibili i propri contenuti e la proprie leggi all’interno di una totalità organica e definita di individui» (9).
A questo punto della riflessione, l’Autore precisa che la teologia politica non può essere confusa né con la politica della teologia, né con la teologia della politica. Se la prima rimanda a un concreto assetto del potere politico assoggettato all’ingerenza e al dominio del potere religioso, la seconda descrive la posizione di quest’ultimo quando è strumentalmente impiegato nel rafforzamento della coesione comunitaria di un dato contesto sociale e politico. Pertanto la teologia politica non coincide con lo studio dei rapporti storicamente dati tra la sfera del politico e quella del religioso, ma indugia piuttosto sui processi collettivi di produzione di alcuni significati sociali, ovvero sull’interazione epistemica tra il sapere teologico e quello filosofico.
Per Rosito chi avrebbe contribuito più di ogni altro a elaborare lo statuto contemporaneo della teologia politica è stato Carl Schmitt. Il presupposto di questa disciplina è che la teologia cristiana implica inevitabilmente un’immaginazione produttiva del potere politico. Questo assunto, per il nostro, sarebbe in grado di fondare la tesi secondo cui la costruzione teorica della sovranità, che ha caratterizzato la storia politica e istituzionale della modernità, trova il suo fondamento nella riflessione teologica sull’unicità trascendente di Dio.
Secondo Schmitt, afferma Rosito, il paradigma del potere politico statuale viene a costituirsi in relazione a un processo di secolarizzazione delle categorie teologiche. In realtà, precisa l’Autore, più che sulla circolarità ermeneutica tra l’ambito teologico e quello filosofico-politico, la riflessione di Schmitt si concentra sulla dinamica storica della secolarizzazione, ovvero su quella struttura epistemica che rappresenta l’alveo in cui i concetti politici moderni sono stati generati. Più che una genealogia storica delle categorie politiche, sottolinea Rosito, il giurista tedesco offre una teoria del potere in relazione alla dinamica storica e sociale della secolarizzazione, essendo la sua principalmente una sociologia dei concetti giuridici. Schmitt, dunque, secondo il nostro Autore, sarebbe interessato a quell’ambito specifico dell’organizzazione moderna e occidentale del potere politico che viene identificato con il paradigma della sovranità e al rapporto di questa con la produzione normativa. In definitiva, egli guarda al mondo delle relazioni politiche dalla prospettiva dell’autorità statuale; l’ambito del politico sembra così esaurirsi nei dispositivi teologici con cui i soggetti politici occidentali hanno immaginato e implementato l’idea di autorità la quale rappresenta, a sua volta, il momento concettuale intorno a cui il mondo delle istituzioni e dei poteri si è strutturato nella forma di una potestà decisionale fondata e regolamentata dagli usi specifici della norma giuridica.
L’analisi di Rosito evidenzia come nella prospettiva schmittiana è quasi del tutto assente l’idea che la teologia politica sia soltanto uno dei paradigmi scaturiti dalle trasformazioni storiche dei concetti teologici. Accanto a essa, infatti, si dovrebbe collocare un secondo paradigma identificabile con la teologia economica. Quest’ulteriore ambito disciplinare, secondo Rosito, allargherebbe la prospettiva tanto della filosofia quanto della teologia sull’analisi del potere, configurato non solo in una chiave politico-statuale ma anche amministrativa e governativa.
In tal senso, afferma l’Autore, accanto alla dimensione politica e istituzionalizzata del potere sovrano, immaginato come un movimento discendente e gerarchico da cui sono scaturite le istituzioni politiche e giuridiche occidentali, andrebbe pensata una dimensione economica del governo del mondo e dell’amministrazione dell’oikos, in quanto spazio orizzontale e immanente dei rapporti di scambio effettuati a un livello domestico e sociale piuttosto che politico.
A tal proposito, precisa l’Autore, è opportuno considerare che le categorie fondamentali della teologia politica ricorrerebbero al lessico teologico della trascendenza divina e ai modi con cui questa si rende effettivamente esperibile nel suo intervento efficace sul mondo, in quanto signoria che ordina il mondo.
Diversamente, l’orizzonte terminologico della teologia economica si estenderebbero sul piano immanente del governo delle realtà mondane in quanto realtà da gestire e da amministrare. Dunque, conclude Rosito, se nell’ambito della teologia politica l’immagine di riferimento era principalmente quella di un Dio trascendente e personale in grado di strutturare, mediante ordini di potere, il mondo degli uomini, nel paradigma della teologia economica Dio sarebbe piuttosto estraneo se non addirittura indifferente alla realtà delle cose del mondo. Per Rosito, l’ambito dell’oikonomia verrebbe fondato proprio da questa concezione teologica di Dio, dalla quale scaturirebbe l’idea di un mondo che è il regno immanente degli atti con cui gli uomini amministrano l’ordinaria fruizione di beni e di ricchezze. La sfera economica nascerebbe dunque in relazione a una specifica concezione del mondo degli uomini in quanto spazio da governare. La realtà immanente dell’uomo, la sua oikia, afferma l’Autore, si compone infatti di beni che devono essere gestiti da bravi amministratori i quali sono stati delegati da un padrone momentaneamente lontano, ma che non tarderà a venire.
«Cosa resta del simbolo teologico-politico in un tempo in cui il paradigma della sovranità statuale si riduce progressivamente a mera forza resistenziale? È ancora possibile “immaginare” il potere o l’autorità alla luce dei processi di trasformazione delle categorie teologiche cristiane? In che modo la riflessione teologica contemporanea è in grado di instaurare rapporti comunicativi con le sfere pluralistiche di potere nel contesto del mondo globalizzato?» (154). Sono queste le domande che l’Autore pone come ideale programma per la disciplina. A queste domande risponde lo stesso Autore sottolineando come sia più che mai necessario ricorrere a un doppio paradigma in grado di effettuare una ricerca critico-genealogica intorno alla categoria della crisi. Il dispositivo teologico-politico dovrebbe essere affiancato dall’autonomo paradigma della teologia economica. In quest’ultimo ambito sarebbe fondamentale il ruolo ricoperto dal modello trinitario con cui la teologia cristiana ha espresso la comunicatività costitutiva di Dio. Tale modello, secondo il nostro Autore, rappresenterebbe un luogo imprescindibile per le genealogie di concetti teologico-economici quali, ad esempio, l’idea di commercio (commercium) e di interesse (inter-esse) o di concetti teologico-sociali come quello di comunione (koinonia). Sarebbero queste, infatti, specifiche categorie teologiche che nel corso dei secoli hanno espresso prima di tutto i rapporti di mediazione interna e di interazione tra le persone della comunità trinitaria. «In quanto paradigma di una comunità espropriativa, la koinonia può assurgere a riferimento ermeneutico privilegiato di una riflessione teologico-politica sensibile alle istanze pneumatologiche, attenta cioè ai saperi che immaginano, allestiscono e strutturano la scena dei ritagli comunitari tanto su scala quanto locale e quanto a livello globale. Urge un’attenta riconfigurazione del lessico teologico e politico dell’inclusione, serve un’analisi puntuale sulle forme con cui i soggetti avvertono e gestiscono la loro adesione a un’impresa sociale comune, occorre una sensibilità particolare verso le forme latenti, represse o difficilmente espresse di partecipazione sociale e politica» (190).
Tratto dalla rivista Lateranum n.3/2015
(http://www.pul.it)
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