L'era dello spirito. Secolarizzazione ed escatologia moderna
(Universale)EAN 9788838240379
Tratto dalla Rivista Il Regno 2008 n. 16
(http://www.ilregno.it)
Questo acuto e profondo saggio di M. Borghesi costituisce una pregevole chiave di accesso alla questione circa il senso della modernità e la determinazione dei suoi percorsi. Non si tratta solo di una problematica a carattere storiografico, sulla quale da alcuni anni, forse grazie soprattutto alle tesi di A. Del Noce, si è aperto un dibattito considerevole, ma, soprattutto, di un punto che decide della contemporaneità; infatti, pare assodato che il modo di intendere la post-modernità sia strettamente dipendente dall’interpretazione del moderno, di modo che l’identità del nostro tempo presente si decide a partire dalla comprensione di quella modernità di cui la post-modernità vuole essere ora il superamento, ora la fine, ora l’alternativa radicale. È altrettanto vero che una chiave interpretativa dell’epoca moderna è rappresentata dalla secolarizzazione al punto che essa è stata definita l’epoca della secolarizzazione e non a caso per la postmodernità si è scritto di “secolarizzazione della secolarizzazione”. La prospettiva storiografica di K. Löwith e della sua interpretazione del moderno come di un cristianesimo secolarizzato, cioè privato della sua matrice teologica ma conservato quanto ai suoi contenuti essenziali speculativamente parlando, è un esempio all’interno di un dibattito sul moderno mai sopito. La tematica della secolarizzazione, oltre ad essere chiave interpretativa dell’epoca moderna richiama anche la questione del significato e della presenza del cristianesimo nella determinazione dei sentieri del moderno. In altre parole, la modernità può essere considerata figlia, legittima o illegittima non importa, della tradizione cristiana? Inoltre, fino a che punto è possibile affermare una totale estraneità tra modernità e cristianesimo? E ancora: a quale cristianesimo occorre riferirsi, a quello riformato o a quello cattolico, alla tradizione ortodossa o a quella gnostica? Infine: se la modernità non si può pensare senza cristianesimo, che ne rimane delle verità cristiane dopo la scomposizione e ricomposizione che ne ha fatto l’epoca moderna? A partire dagli anni Settanta X. Tilliette ha elaborato la cristologia filosofica per mostrare come Cristo sia stato il movente nascosto, il segreto e spesso inconsapevole ispiratore di gran parte della filosofia moderna, pur nella consapevolezza che il Cristo dei filosofi, e soprattutto quell’idea Christi così decisiva per la cristologia filosofica, oscilla tra docetismo e gnosticismo ma raramente coincide con il Cristo della fede. Ebbene il volume di Borghesi si costruisce sullo sfondo di queste problematiche riprendendo la tematica della secolarizzazione che, tuttavia, in quanto pone la presenza del religioso nel moderno, la pone non solo come il passato da cui congedarsi ma anche come l’orizzonte del futuro (cf. p. 9). Infatti la secolarizzazione viene sviluppata a partire dal tema escatologico, da quella teologia della storia che tanto influenza l’epoca moderna e che, secondo l’intuizione di H. de Lubac, è da ricondurre alla dottrina delle tre età della storia di G. da Fiore. L’escatologia occidentale si presenta come la cifra del moderno (secondo J. Taubes) e emerge nella profezia dell’età dello spirito, ricalcata secondo la tipologia di Gioacchino da Fiore, che il Lessing de L’educazione del genere umano riattualizza nell’orizzonte di un razionalismo postcristiano che colloca l’illuminismo all’interno di una teologia della storia ortodossa e proveniente dal Medioevo. Da Lessing proviene poi l’escatologia tedesca dell’Ottocento come pure la filosofia trinitaria della storia di Schelling e Hegel. La prima parte, per certi versi introduttiva, ricostruisce il dibattito attorno alla legittimità e fecondità della categoria della secolarizzazione per la comprensione del moderno. Viene presentata la posizione di J. Taubes, che «rilegge la modernità attraverso la frattura prodotta, nell’ambito della teologia agostiniana della storia che ha orientato il Medioevo, da Gioacchino da Fiore» (p. 24); l’escatologia moderna sorgerebbe da una riattualizzazione, in un contesto non più cristiano, dell’apocalittica ebraica ripresa, indirettamente, dalla teologia gioachimita della storia. Accanto a questo aspetto, come già evidenziato da Balthasar, abbiamo la concezione prometeica dell’uomo volta a sostituire Dio riappropriandosi dei beni “alienati nella sfera religiosa”. Accade così che titanismo e mistica (Titanismus aus Frömmighkeit, sempre secondo Balthasar), «costituiscono il singolare intreccio dell’“anima tedesca”, il percorso apocalittico di una modernità in cui confluiscono escatologia e secolarizzazione, razionalismo ed enfasi religiosa» (p. 27). Il paradigma della secolarizzazione è stato fortemente criticato da H. Blumenberg che ha definito l’epoca moderna il tempo dell’autoaffermazione dell’uomo, in opposizione dall’assolutismo teologico di fine Medioevo, e del recupero di valore per il mondo che il cristianesimo originario, con al centro l’imminenza della parousia, non può nel modo più assoluto garantire: «il mondo moderno non nasce dalla secolarizzazione della teologia medievale ma dalla compensazione umanistica, dalla reazione ad una assolutizzazione teocentrica» (p. 35). La critica alla secolarizzazione non impedisce a Blumenberg di continuare ad utilizzare tale categoria sebbene in una accezione ben diversa da Löwith. Essa viene intesa come «occupazione del posto lasciato vacante dalla teologia cristiana, la cui soluzione richiede una risposta totalizzante»; così la secolarizzazione «è, da un lato, l’autonomia del mondo in opposizione all’assolutismo teologico, e, dall’altro, il contenuto totalizzante che prende il posto di una dimensione religiosa abbandonata. Il primo è il senso “illuministico” della secolarizzazione, che Blumenberg accetta. Il secondo è il senso “romantico”, letto come deviazione dal significato originale di autoaffermazione» (p. 45). Nella seconda parte viene affrontato il tema dell’età dello spirito; dopo una ricostruzione della posizione di Gioacchino e della sua dottrina delle tre età della storia e del regno dello spirito, si evidenzia come proprio la teologia trinitaria di un antimoderno come Gioacchino sia diventata il luogo concettuale a partire da cui si comprende l’escatologia dell’illuminismo tedesco e della cultura che ne consegue. Se in questa direzione il punto di partenza è sempre Lessing, il polo d’attrazione rimane Hegel e la sua trascrizione speculativa del cristianesimo a partire dal “programma” di Fede e sapere: la traduzione del venerdì santo che fu già storico nel venerdì santo speculativo. A Hegel, alla verifica del peso che il cristianesimo protestante ha nella sua formazione e alla ricostruzione del nesso tra filosofia hegeliana e religione della Riforma è dedicato il cap. IV, il più ampio di tutto il volume, uno dei due capitoli della terza parte (“Idealizzazione di Dio e idealizzazione del mondo”). Se nel periodo giovanile Hegel si mostra molto critico verso il principio della soggettività protestante, a partire dagli anni 1805-06 si consuma la svolta per cui la soggettività lungi dall’essere elemento negativo viene posta a fondamento della società e dello stato moderni in esplicita contrapposizione all’universo classico che non aveva affatto conosciuto tale principio; lo spirito del Nord, in cui la coscienza diventa autocoscienza, appare «il principio mediante cui la cultura e la realtà moderne vengono costituendosi. […] D’ora in poi soggettività germanica, coscienza protestante, sapere filosofico verranno infatti per Hegel sempre più a saldarsi in un unico anello, ultimo di una lunga catena, in cui si chiude e conclude l’epoca moderna» (p. 139). Dove emerge la soggettività si afferma il primato dell’interiore, viene superata la figura “sensibile” del divino e pertanto tramonta l’arte con la sua esteriorità; mentre il cattolicesimo, ancora lontano da un cristianesimo puramente interiore, promuove la rappresentazione esteriore del divino, nel protestantesimo lo spirito religioso non ha più bisogno della mediazione estetica. Questo passaggio dall’esterno all’interno, opera della Riforma, avvia l’età dello spirito in cui il Verbum caro viene idealizzato e superato nei suoi aspetti sensibili; l’“occhio interiore”, non necessitando più delle raffigurazioni storicosensibili dell’idea eterna determina il declino inarrestabile dell’arte. La quarta parte (“Interiorizzazione dell’uomo-Dio e divinizzazione del genere [Gattung]”) analizza il tema della fede e la cristologia filosofica di Hegel, e il destino del cristianesimo nei suoi epigoni tanto di destra quanto di sinistra. Nel periodo francofortese è già maturata la prospettiva di una ricomprensione speculativa del cristianesimo all’interno di una posizione filosofica segnata dall’uni-totalità; Hegel si differenzia «dal deismo illuminista così come dalla fede ebraica, contrassegnati da una medesima concezione del divino come “Altro”, infinitamente distante dall’uomo. La duplice critica porta l’autore al ritrovamento di una posizione gnostica – segnatamente marcionita – all’interno di un panteismo postspinoziano» (p. 194). Lo schema marcionita viene applicato da Hegel ne Lo spirito del cristianesimo e il suo destino per delineare il rapporto fra fede ebraica e fede cristiana. Al Dio ebraico estraneo, il cristianesimo oppone il Dio puramente divino, una nuova unità tra umano e divino che supera la scissione antica. La riconciliazione è opera di Gesù che trasforma la concezione ebraica della fede: non più dipendenza ma il riconoscimento da parte dello spirito della propria essenza divina: «la rivelazione di Cristo è rivelazione dell’uomo a se stesso, comunicazione dell’essenza divina immanente. La funzione di Gesù è, agnosticamente, quella di destare e di provocare la coscienza umana a ritrovare la sua vera natura, la divinità latente che emerge nello sviluppo dello spirito» (p. 199). Tanto Gesù è necessario come mediatore, tanto deve morire come persona singolare perché sia raggiunto lo scopo. Se nel periodo francofortese il divino è colto nella forma adeguata dell’assoluto nel “religioso”, nel periodo berlinese matura definitivamente la cristologia hegeliana. Mentre a Francoforte e a Jena mancava la negazione della negazione – cioè il momento affermativo per cui l’intelletto superatosi nella ragione pone luogo all’attuazione dell’assoluto come pensiero di pensiero, libertà realizzata – ora lo Spirito è il risultato della duplice negazione del Padre e del Figlio, «l’Uni-totalità in cui l’identità finale si autocomprende, grazie alla mediazione di sé con sé, come lo sviluppo dialettico del principio iniziale. Lo Spirito è il risultato di un processo ideale. Non è solo il “terzo”, la terza Persona della Trinità come vuole la teologia cristiana. È il terzo che ricomprende il primo e il secondo come “momenti” del proprio autosviluppo. La “Trinità” filosofica non è la Trinità teologica» (p. 207). Proprio nella Trinità teologica l’Assoluto giunge all’acme della sua rappresentazione; affinché ciò accada occorre il mediatore tra finito e infinito, Cristo, la cui comprensione deve esulare dalla determinazione storica: il Cristo storico non è il Cristo della fede, ma l’universalizzazione idealizzata dell’individuale che si realizza nello Spirito attraverso il toglimento della mediazione. Tale universalizzazione è compiuta dalla morte di Gesù che genera il passaggio dalla fede esterna a quella interna, speculativa; è la morte, non la risurrezione, l’evento della mediazione e così, paradossalmente, la fede autentica viene a fondarsi su un’assenza anziché su una presenza; la risurrezione, infatti, non è storica ma è prodotta dalla fede: «invertendo la prospettiva realistica, per cui l’evento storico è condizione di possibilità per la fede, l’idealismo afferma la fede come condizione di possibilità dell’evento. Un evento più immaginato e pensato che “visto”. La risurrezione è pensata perché obbedisce alla logica dialettica che muove la vita dello spirito. Alla negazione di Gesù segue, infatti, la negazione della negazione, la risurrezione nella quale Cristo diviene l’uomo-Dio, il punto di riconciliazione tra umano e divino» (pp. 213-214). La prospettiva idealistica si rivela così essere per il cristianesimo ben più deleteria di quella illuminista; se, infatti, presso l’illuminismo la controversia si giocava ancora sul piano della storicità della fede, nell’idealismo il toglimento della carne del Verbo e la riduzione della sua persona a simbolo del processo dello spirito mette in discussione il senso costitutivo del cristianesimo: il sacrificio dell’individualità storica di Gesù come coincidenza di rivelazione e rivelatore significa il sacrificio e la dissoluzione del cristianesimo stesso, che in tanto ha senso in quanto viene riconosciuta la perfetta identità fra Gesù della storia e Cristo della fede nella mediazione mai superabile della sua persona (non dell’idea). È forse in quanto manca la distinzione personale propria del dogma della Trinità che Hegel inevitabilmente finisce in una sorta di “sabellianesimo” in cui il monismo della sostanza trasforma la distinzione delle persone in meri momenti dal processo assoluto mediante i quali lo Spirito, nel calvario delle sue forme, diventa compiuta coscienza di sé, cioè autocoscienza, come tale bisognosa dell’alterità quale mezzo necessario ma sempre da oltrepassare in vista della realizzazione dello scopo. Che la cristologia hegeliana rappresenti un traduzione che tradisce il senso della fede cristiana lo si evince dalla storia degli effetti ricostruita nel cap. VII: la cristologia che diventa antropologia nella sinistra hegeliana. Quelli indicati sono solo alcuni tra i numerosi aspetti che manifestano il valore di questo libro le cui tematiche, del resto, sono oggetto di riflessione dell’autore da ormai diversi anni. Il volume aiuta a comprendere un filone importante dell’identità moderna e dunque anche a entrare nella contemporaneità per interpretarne con adeguatezza e rigore (cosa piuttosto rara oggi) i molteplici sentieri.
Tratto dalla rivista Lateranum n. 2/2009
(http://www.pul.it)
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