La presenza di Duns Scoto nel pensiero di Edith Stein
-La questione dell'individualità
(Filosofia. Testi e studi)EAN 9788837228439
L’antica questione medievale del principium individuationis – che spesso ha visto contrapposti pensatori in via Thomae e in via Scoti –, è stata ripresa, nel secolo XX, da Edith Stein, poi, nel Carmelo, Theresia Benedicta a Cruce. La pensatrice, allieva di Husserl e fine fenomenologa insieme con la biologa e fenomenologa Edwig Conrad-Martius (alla quale va associata nello studio, come raccomanda Alfieri), valuta le posizioni in merito a tale controversia medievale, espresse dal domenicano Tommaso d’Aquino e dal francescano Giovanni Duns Scoto; come scrive nel bilancio del suo saggio Alfieri, ella «ha elaborato una teoria del tutto “originale”, accostando la tradizione scolastica alla filosofia fenomenologica» (p. 163).
Di qui i diversi profili di questo bel saggio (insieme, di storia della filosofia e teologia medievale, di ecdotica dei testi, di storiografia filosofica medievale e moderno-contemporanea), sul cui valore si pronunciano, senza mezzi termini, sia la prefatrice, Angela Ales Bello, che è stata anche la tutor della tesi dottorale di Alfieri, al punto da poter parlare di «grande abilità critica» (p. 12) di Alfieri; sia Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, la quale segnala «ancora una volta il rigore con il quale» Alfieri «conduce le sue indagini e la qualità scientifica dei risultati ai quali perviene» (p. 7); sia, soprattutto, la lunga Postfazione (un saggio nel saggio!) di Giulio D’Onofrio (Pensiero eidetico e paradigma medievale, pp. 187-227), nella quale si dice di «indagine – analitica e completa – sul ruolo costitutivo che spetta al Doctor Subtilis quale fonte o quale occasione di confronto per la formazione del pensiero di Edith Stein» (p. 191). Com’è noto tra gli studiosi, D’Onofrio denomina “paradigma del pensiero medievale” un peculiare orientamento del pensiero cristiano occidentale, che si svolge temporalmente dall’età apostolica fino alla crisi dell’unità confessionale e alla Riforma. Per esso, la radice paradigmatica, o convinzione di base, riposa sulla certezza che ogni processo conoscitivo e scientifico è compatibile «con il sapere di ordine superiore» (p. 202), ovvero con la posizione di verità fissata dalla fede, con la correlativa «adesione a una teologia esemplaristica» (ivi). Il che può ben essere denominato, continua D’Onofrio, «orientamento esemplaristico-fenomenologico» (p. 201) e può spiegare sia i successivi ritorni medievali di un Mario Vittorino (per il quale il Verbo divino viene innestato «sulla prospettiva neoplatonica del ricongiungimento di ogni verità all’Uno tramite la contemplazione produttiva del nous» [p. 207]), sia di un Anselmo d’Aosta (che resta concorde col fondamento speculativo agostiniano nei suoi quattro procedimenti logici – Monologion – per risalire alla forma originaria e immutabile: p. 208), sia di un Giovanni Scoto Eriugena, nonché di un Riccardo di San Vittore – paradigma della teologia mistica secondo Paradiso X, 130-132 –, il quale ripensa le persone trinitarie «sull’esempio della condivisione della doctrina tra colui che insegna e colui che impara» (p. 209); fino ad approdare a Bonaventura di Bagnoregio, Teodorico di Freiberg, Echart di Hocheim e, in età umanistica, a Niccolò Cusano. È una linea continua che estende «teoreticamente la portata delle conoscenze acquisite dalla ragione per mezzo della rivelazione» (p. 212) e che non si svolge, come avrebbe voluto Cassirer, in un titanico corrispondentismo tra ordine reale e succedersi di cause-effetti, ma tratteggia in un modo armonico i rapporti tra mente e realtà che, questi, sì, co-rispondono all’eterno «atto intellettivo del Dio creatore e provvidente, nel cui pensiero infinito sussistono realmente e sono realmente eterne tutte le cose finite» (p. 217). Tutto ciò spiega il tentativo di Edith Stein di recuperare proprio questa «cifra speculativa del pensiero cristiano […] quale possibile fondamento di quella rilettura del pensiero medievale in chiave fenomenologica» (p. 223).
Ecco, allora, il senso e la rilevanza dell’impresa di Alfieri che, sulla base degli scritti critici disponibili di Giovanni Duns Scoto, alla cui penna – pur avendo letto i dubbi espressi da Longpré – la Stein ascriveva sia il Tractatus de primo omnium rerum principio, edito criticamente da M. Müller nel 1941 e ritenuto autenticamente scotiano dai medievisti, sia le Quaestiones disputatae de rerum principio, con forti influssi agostiniani (che sarebbero stati poi abbandonati nell’Opus oxoniense a favore dell’aristotelismo). Ecco anche il senso del capitolo primo (pp. 23-63): un puntuale studio della tradizione manoscritta medievale, che permette di concludere che le Quaestiones sono pseudoepigrafe (cf. pp. 36-43) e che, giudice F. Delorme, «le prime sei questioni del de rerum principio sono da attribuire a Vitalis de Furno» (p. 43; biografia alle pp. 60-62), autore che «sviluppa comunque un pensiero molto originale» (p. 60), il quale tuttavia risulta, a sua volta, debitore, alle «Quaestiones disputatae de esse et essentia di Egidio Romano» (p. 46) e, quindi, deve aver redatto le sue questioni non prima del 1290 (ulteriori precisazioni sono proposte da Alfieri alle pp. 58-60). E, tuttavia, la Stein – puntualizza Alfieri – pur utilizzando uno pseudo-epigrafo come autenticamente scotiano, riguardo al tema principale in oggetto, ovvero il dibattito sul principium individuationis, «non fa sua la dottrina di Vitalis de Furno, ma quella di Scoto» (p. 44). Scoto, infatti, rispetto a de Furno, non condivide la tesi «che non vi sia una nozione univoca dell’essere, predicato di Dio e delle creature», né la tesi «della distinzione reale dell’essenza e dell’esistenza», nonché la «teoria tomista che vede nella materia quantificata il principio di individuazione delle cose corporee» (p. 47). Inoltre, de Furno, oltre a essere influenzato dalla condanna di Tempier del 1277 (cf. p. 48), riprende la teoria araba della triplice gradazione della materia, «formulata dagli arabi in materia primo prima, secundo prima e tertio prima» (p. 51), ovvero elemento semplice comune, accomunante ogni materia, al di sotto del quale si trova il nulla; elemento della corporalità, o anche realizzazione dell’idea astratta di “corpo” e sostrato per il cambiamento sostanziale di generazione e corruzione; inoltre, materia tertio prima, «la quale designa il corpo di cui una causa si serve per produrre un nuovo essere: essa è concreta, in quanto costituisce un corpo ben determinato» (p. 51).
L’approdo alla Stein e al suo peculiare modo di ripensare fenomenologicamente alcuni nuclei della dottrina di Scoto ha, tuttavia, bisogno di un ulteriore approfondimento circa il problema del principium individuationis nel Medioevo e, soprattutto, negli scritti autentici del Sottile. Di qui il capitolo secondo di questo volume di Alfieri (pp. 65-97). L’esame sistematico della Ordinatio (di cui, come ci viene opportunamente ricordato nella Bibliografia consultata, pp. 231-246, è edito criticamente il Liber secundus, distinctiones 1-3: cf. p. 232), delle Quaestiones super Libros Metaphysicorum, q. 13 (ed. 1997), non senza confronto con la Lectura in librum secundum Sententiarum, permette ad Alfieri di «ipotizzare una continua riconsiderazione ermeneutica della questione dell’individuazione» (p. 65) da parte di Scoto il quale, quindi, a proposito dell’«indagine sull’elemento costitutivo e fondativo della realtà individuale nelle sostanze sia materiali che spirituali» (ivi), mostra di conoscere le diverse posizioni in campo: una platonizzante, per la quale ci sono due regni separati e incomunicabili, per cui «l’ente generale non diverrà mai individuale» (p. 66); una radicale o nominalistica – principale esponente Goffredo di Fontaines – che assegnava il primato nella realtà al singolare (p. 67); una intermedia, sviluppata dal Sottile, per la quale «l’universale e il singolare» non sono «opposti, ma correlati» (p. 67). E, di conseguenza, occorre decidere se il principium individuationis debba cercarsi nella direzione della indivisibilità, o in quella della distinzione tra gli enti, non senza precisarne la caratteristica ontologica, cioè «l’individualità degli accidenti e di altre caratteristiche delle sostanze» (p. 67). Il Sottile mostra di ben conoscere, altresì, che la condanna delle 219 tesi da parte di Tempier, nel 1277, esprime la preoccupazione che si possa considerare «la materia come principio individuante esclusivo della moltiplicazione delle forme» (p. 68). Da parte sua, lo Scoto – come emerge dall’analisi critica comparata delle fonti scotiane (non dei Reportata parisiensia, risalenti ai primi anni del 1300, in quanto non ancora disponibili in edizione critica) –, presenta alcune soluzioni, che sono così enucleate da Alfieri: «il principio individuante è qualcosa di positivo presente nell’ordine sostanziale» (p. 71), quindi non interno alle forme accidentali, né alla materia, né all’atto di esistenza; la terminologia scotiana per descrivere siffatto principio è, nel commento ad Aristotele, q. 13: «forma individualis, gradus individualis, continentia unitiva e haecceitas» (ivi; più precisamente haecitas: ivi, n. 16), mentre nell’Ordinatio (nella versione rivista, databile al 1301, ovvero agli ultimi anni di vita di Scoto) si legge: «entitas, realitas, ultima realitas formae, ultima realitas entis» (ivi). Si rammenti, con Alfieri, che il termine haecceitas non è utilizzato nell’Ordinatio/Lectura e si trova raramente nelle questioni sulla Metafisica di Aristotele, o anche nei Reportata parisiensia, a riprova che l’espressione «con molta probabilità fu coniata» (p. 95) dai discepoli di Scoto. Il Sottile, in definitiva, avrebbe inteso dimostrare «che esiste negli individui della stessa specie un’unità che non è numerica, ma reale» (p. 75), in quanto «se la sola unitas realis fosse l’unitas numeralis, ogni differenza sarebbe numerica» (p. 76).
Non è la substantia materialis a essere individuale di per sé, dunque. E allora, qual è «la causa singularitatis che contrae la natura comune conferendole la singolarità»? (p. 77). Questa è la domanda, più di tipo logico che ontologico, che riguarda appunto il processo di contrazione della natura comune in un singolo, evidentemente discendendo di genere in specie. Confutando la teoria di una negatio duplex sostenuta da Enrico di Gand, il Sottile, prosegue Aflieri, cerca «qualcosa di positivo e intrinseco (positivum intrinsecum)» (p. 79) all’ente in sé, «per mezzo del quale non è divisibile in parti soggettive, ma è distinto dagli altri oggetti individuali» (ivi), la cui natura, cioè, è quella di «avere in sé la capacità di contrarre la natura comune, impedendo ogni ulteriore divisione in parti soggettive (indivisibilitas)» (p. 80). Bisogna riferirsi ai due momenti o modi dell’essere (esse essentiae ed esse existentiae: terminologia ripresa da Alfieri, che pone qualche problema metafisico in quanto fa supporre che essenza ed esistenza siano due principi, piuttosto che coprincipi, come invece sosteneva più coerentemente Tommaso d’Aquino) per ricercare, ad avviso di Scoto, la causa dell’individuazione. Quindi, egli non va nella direzione dell’existentia («il fatto di esistere non è ciò che individua l’individuo in sé»: p. 81; ovvero l’individuo qui e ora non è un haec, quindi non è in grado «di conferire l’individualità alle sostanze materiali»: ivi), bensì nella direzione dell’essentia. È appunto in questa direzione che, ricercato il senso dell’individualità, che si ritrova una spiegazione in termini sostanziali e non accidentali o materiali. A Goffredo di Fontaines e a Tommaso d’Aquino, Scoto rimprovera, appunto, di aver accentuato la quantità come elemento determinante della substantia materialis. Si potrebbe, in merito, osservare che è la materia signata quantitate, piuttosto che la quantità o determinazione accidentale di una sostanza composta, che, secondo Tommaso, individua qui e ora una sostanza composta singolare rispetto alla natura o essenza. La quantità non è identificabile con le cose, ma è una caratterizzazione delle cose, per la quale esse divengono intellegibili: manifestazione della sostanza dei corpi sul piano dell’accidentalità. Di fatto, lo Scoto pone una oggettiva sfaldatura di una stessa forma in più formalità, fino all’ultima determinazione formale, o ultima realitas entis, che contrae la forma specifica, completandola.
Rispetto a tali posizioni, Scoto, chiosa Alfieri, non intende esaminare tanto il problema della moltiplicazione degli individui all’interno della medesima specie, bensì analizzare e ricercare «il nucleo dell’“unità individuale” in quanto tale» (p. 83); egli lo vuole ritrovare, in linea con Aristotele, non nella direzione degli accidenti e della materia, ma della sostanza: è conveniente alla sostanza prima, infatti, che essa sia haec «prius naturaliter quam determinetur aliquo accidente» (Ord. II, d. 3, p. 1, q. 4, n. 87: ed. Vat. VII, 431). Se si può dire, con Aristotele, che le cose sono “uno” in numero, o anche se la materia è una, non ne consegue che Scoto stia parlando «dell’individuazione per la sola materia, in quanto egli non parla dell’individuazione, ma dell’“unità” di un insieme continuo individuale» (p. 86, n. 63, che si riferisce giustamente ad Aristoteles latinus, Metaphysica. Libri I-X, XIII-XIV, lib. V c. 6: 1016b 32-33). Il Sottile sembra principalmente preoccupato di definire il rapporto che intercorre tra questo principio individuante – o «“entità positiva” capace di elevare l’individuo al di sopra della specie» (p. 88) – e natura comune ma purtroppo solamente in un passo, esplicita la propria soluzione: “questa entità” non è la materia o la forma o il composto (tali fattori sono la “natura”), bensì «ultima realitas entis quod est materia vel quod est forma vel quod est compositum» (ed. Vat. VII, 483.484). In tal modo, natura comune e entitas individualis «sono distinte formalmente tra di loro attraverso una distinctio formalis ex parte rei, sicché la singolarità dell’individuo e la sua natura comune sono tra loro legate indissolubilmente e ontologicamente inseparabili» (p. 89). In merito, scriveva Pasquale Orlando: «La distinctio formalis a parte rei garantisce dunque una semi-dipendenza ontologica all’haecceitas, pur conservando l’unità intrinseca della forma di cui è ultima realitas» (P. ORLANDO, Filosofia dell’essere finito, Napoli 1995, p. 207). Inutile domandarsi però, chiosa Alfieri, cosa sia in Scoto il principio d’individuazione; esso non è una res aggiunta dall’esterno a una natura ma è un «qualcosa (o meglio un’entitas) di interno e fondativo alla natura stessa dell’essere» (p. 91).
A sua volta, Edith Stein, la quale accetta la soluzione di Scoto, identificherà «questo fondamento interno con la parte “vuota” (termine steiniano) dell’essere, la quale è predisposta a essere “riempita” da tutte le determinazioni soggettive, proprie a ogni individuo» (ivi). Siamo ormai in gado di valutare con Alfieri, sul piano storiografico, lo spessore della «svolta trascendentale data da Scoto alla soluzione dell’individuazione al fine di comprendere come l’individuo, in quanto persona, appartiene a se stesso a partire dal suo momento fondativo» (p. 97) e, per quanto riguarda la fenomenologa e patrona d’Europa, di apprezzare l’originalità di una prospettiva (capitolo terzo, pp. 99-163) che rilegge in chiave fenomenologica la singolarità intangibile dell’essere umano. Questo, appunto, fa evincere l’espressione, già scotiana, di ultima solitudo (Ord. III, d. 2, q. 1, n. 17: espressione ispirata da una formula di Riccardo di San Vittore, De Trinitate IV, 22) che, in Stein, indica l’individuo in quanto «costituito nel suo interno in modo unico e irripetibile» (p. 107); perciò ultima solitudo, non nel senso di chiusura su se stesso, ma di uno stare in sé/profondità del proprio io, che richiama l’ingresso in una comunità di vita con altri soggetti. Com’è stato ben mostrato da Carmela Bianco, sia in uno studio su Scoto (Ultima solitudo. La nascita del concetto moderno di persona in Duns Scoto, FrancoAngeli, Milano 2012: questo testo non è inventariato da Alfieri) che in un altro successivo studio su Riccardo di San Vittore (Incommunicabilis exsistentia. Profili simbolico-politici della persona in Riccardo di San Vittore, Milano 2014), davvero l’espressione scotiana, ripresa dalla Stein, ci mette di fronte a una nozione “moderna” di persona, insieme incomunicabile e irripetibile, ma anche caratterizzata dalla relazionalità e dall’apertura ontologica agli altri; ovvero, come scrive Alfieri, «la caratteristica dell’ultima solitudo è sempre un’“apertura verso” e di conseguenza una “solidarietà” con un altro “tu”» (p. 108). In questo senso, l’apertura di ogni soggettività personale consente «che il tèlos ultimo della persona, con i suoi vissuti individuali, trovi il suo compimento nella costituzione del soggetto comunitario (Gemeinschaft)» (p. 109), permettendo altresì il reperimento delle istanze di solidarietà non per via etica, ma ontologica.
Portandosi un po’ oltre gli studi di Patrizia Manganaro, che pure segnalava come la comunità non elida mai la diversità (cf. pp. 110-112), Alfieri trova, nella ultima solitudo, il limite ontologico dell’essere individuale, che è anche il motivo «per il quale gli individui si uniscono al “mondo della comunità”. Liberando, pertanto, la solitudine naturale» (p. 112). In tal modo, in Stein, «l’indagine fenomenologica e lo studio della filosofia medievale […] consentono di fondare una nuova antropologia» (p. 114), che comporta un vero mutamento di sguardo, verso una percezione interiore, senza però infeudarsi alle scienze della natura. Un percorso fenomenologico contemporaneo – ecco la tesi di fondo di questo saggio di Alfieri – che «si riallaccia […] alla filosofia di Duns Scoto, alla quale Edith Stein si riferisce più di una volta» (p. 117), avvicinandosi molto «alla posizione assunta da Duns Scoto nell’Ordinatio» (p. 119), «nel momento in cui l’individuazione viene ricercata sul piano dell’esse essentiae» (p. 120).
Tratto dalla rivista "Aprenas" n. 1-4/2016
(http://www.pftim.it)
Nel settembre del 1932 Edith Stein prende parte, su invito della Société Thomiste, a una giornata di studio a Juvisy, nei pressi di Parigi e in questa occasione rivede Alexandre Koyré. Il titolo del pionieristico lavoro di padre Francesco Alfieri, “La presenza di Duns Scoto nel pensiero di Edith Stein”, richiama per me alla mente il dialogo di questi due autori, entrambi allievi di Edmund Husserl – entrambi studenti a Gottinga – proprio perché si trattò di un dialogo riguardante il pensiero medievale e, in particolare, un dialogo, uno scambio, di due allievi del padre della fenomenologia su due tra i pensatori di spicco della filosofia del Medioevo: Tommaso d’Aquino e John Duns Scoto. La presenza di Duns Scoto nel pensiero di Edith Stein (Morcelliana, Brescia 2014) costituisce il primo studio sulla ricezione del pensiero di John Duns Scoto nella riflessione di Edith Stein. Il sottotitolo, La questione dell’individualità, indica quello che è il nucleo del tema centrale del lavoro di Alfieri. Come scrive l’Autore nella sua Introduzione, «Edith Stein e Hedwig Conrad-Martius intraprendono, nel 1921, la traduzione a quattro mani dall’originale francese dell’Essai sur l’idée de Dieu et les preuves de son existence chez Descartes di Alexandre Koyré, rinvenendo alcune Quaestiones – che la Stein riprenderà in Endliches und ewiges Sein – del famoso pseudo-epigrafo, per molto tempo attribuito al Doctor Subtilis, dal titolo Quaestiones disputatae de rerum principio» (p. 18). Il merito dell’Autore è quello di avere condotto un’analisi oltremodo approfondita della conoscenza che Edith Stein ebbe di John Duns Scoto, attraverso uno studio storico-critico delle fonti “scotiste” utilizzate da Edith Stein (capitolo primo), una disamina degli scritti del Doctor Subtilis che riguardano la questione del principio di individuazione (capitolo secondo), che padre Francesco Alfieri ha considerato essere estremamente importanti per potere, nel suo studio, impostare il discorso sulle convergenze del pensiero di Edith Stein verso i temi scotisti. Il tema centrale del libro è la ricostruzione dell’opera di Edith Stein sulla base della tematica dell’individuazione (capitolo terzo). La postfazione del professor Giulio D’Onofrio e un completo apparato bibliografico rendono questo libro di Francesco Alfieri un unicum nella letteratura critica sul pensiero di Edith Stein.
Tratto dalla Rivista di Vita Spirituale n. 3/2015
(http://www.vitaspirituale.it)
-
-
-
-
-
-
-
67,00 €→ 63,65 €
-
18,00 €
-
18,00 €→ 17,10 € -
35,00 €→ 33,25 €