Di fronte alla morte
(Quaderni teologici Seminario di Brescia)EAN 9788837223526
I Quaderni Teologici del Seminario di Brescia sono giunti, con la presente pubblicazione, al diciannovesimo numero. Essi sono testi monografici che annualmente i professori del Seminario di Brescia offrono come frutto delle proprie ricerche. Le tematiche, di volta in volta, affrontate rispecchiano le grandi questioni presenti nel dibattito ecclesiale e culturale contemporaneo. Il tema dell’ultimo Quaderno ha per titolo: Di fronte alla morte, e vede la presenza di undici contributi. Nella introduzione, i curatori del volume, Giacomo Canobbio, Flavio Dalla Vecchia e Renato Tononi, sottolineano come «di fatto gli umani hanno sempre tentato di contrastare la morte o almeno di sfuggirvi, benché la percepissero come nemico invincibile» (5). È all’interno di questo schema di riferimento che l’umanità ha elaborato forme diverse per superare il limite della morte: «da quella di relativizzarla, riducendola a momento di passaggio a una vita migliore, libera dalla pesantezza della materia; a quella di anticiparla mediante il suicidio, atto paradossale di potenza di fronte a una vita insopportabile; a quella di accettarla come sommo essere disposti da Dio e quindi come luogo di riconoscimento radicale della propria creaturalità e perciò di affidamento supremo; a quella di dominarla con il pensiero, intendendola come il necessario risvolto negativo di un processo teso al compimento del tutto, cosmo e umanità» (5-6). Se sullo sfondo di questi tentativi stava la consapevolezza che la morte si può eventualmente dominare, ma mai sconfiggere definitivamente, la cultura post-cristiana ha portato ad una rimozione del tema della morte, attraverso la sua o-spedalizzazione, rendendo asettico il momento della morte. Ora la tematica è tornata ad essere di grande attualità, e la riflessione che gli autori propongono tiene conto del contesto odierno, in cui la morte non è più semplicemente rimossa, come avveniva nella coscienza collettiva di qualche anno fa.
Oggi, la morte viene affrontata come una realtà da sconfiggere o per lo meno da dilazionare, rimandandola il più possibile. Tale opportunità la si richiede alla pretesa scientifica di dominare il codice della vita e, quindi, alla possibilità di sconfiggere qualsiasi tipo di malattia. L’«onnipotenza scientifica» ha la suppo-nenza di poter prolungare all’infinito la vita, sconfiggendo l’invecchiamento cellulare; e nel suo delirio di manipolazione del genoma umano, la pretesa di reduplicare, clonandola, una vita all’infinito. Eppure di fronte all’impotenza dell’uomo nel risolvere la malattia, la cultura contemporanea si getta nelle braccia della morte determinandone il momento attraverso le varie forme di eutanasia. E con ciò mette ancora una volta in evidenza la schizofrenia tra ambizione di potenza e constatazione del limite umano. Inserito nel quadro della “rivoluzione antropologica”, anche oggi la questione della morte si pone nell’ottica di un desiderio di vittoria. È cambiata, però, la prospettiva del superamento della morte: «non più nella forma dell’immortalità, bensì in quella della a-mortalità» (7). Di conseguenza, secondo questa visione, non c’è più bisogno di affidarsi ad una potenza trascendente per vincere la morte, basta invece mettere in atto le possibilità che l’umanità si è data con le proprie scoperte scientifiche e tecnolo-giche per sconfiggere la morte. Il vero problema che da questo contesto emerge è quello della finitudine. Come infatti si afferma nell’introduzione «la condizione della finitudine è strut-turale, non dovuta pertanto né a una colpa originaria né a un atto di stupidità ini-ziale né ad una condanna suggerita da gelosia divina. Ed è appunto la finitudine, di cui la morte è l’espressione suprema, che gli umani faticano a integrare imma-ginando di poterne contrastare i segni ancor prima dell’esito ultimo di questi» (7). Proprio questa fatica ad integrare la finitudine evidenzia nell’uomo l’appello a una dimensione infinita.
Tale aspirazione trova risposta solo nell’ottica cristo-logica, prospettiva che muove la fatica degli autori. Infatti, «la grandezza degli esseri umani, anche di fronte alla morte, si manifesta non in un atto di potenza, bensì nel consegnarsi a Colui che è più grande di tutti, anche della morte. In que-sta luce prepararsi alla morte diventa imparare ad affidarsi, poiché, secondo la figura biblica, la fede è stare saldi anche quando acque impetuose sembrerebbero tutto travolgere» (9). Il volume non dà una valutazione esaustiva delle problematiche legate al te-ma della morte e del morire, intende piuttosto «illustrare da molteplici prospetti-ve come ci si possa porre di fronte alla morte» (9). Quattro prospettive, ci sembra, muovono l’impianto della colletanea, diver-samente dalla sequenza proposta dal Quaderno. Una prima prospettiva è quella teo-antropologica attraverso lo studio di RAFFAELE MAIOLINI: Il tema teologico-fondamentale del morire di Gesù come motivo di credibilità. Considerazioni a partire da un confronto con la soteriologia «drammatica» di Raymund Schwager (1935-2004), (49-105). In esso l’autore, dopo aver criticato la equivoca attenzio-ne posta al tema della morte di Gesù sia nella manualistica, sia nella recente ricerca di teologia fondamentale, presenta la riflessione del gesuita svizzero R. Schwager. Il punto di partenza è posto nel meccanismo vittimario descritto da René Girard e fatto proprio da Schwager. Maiolini, però, critica sia la prospettiva di Girard sia quella di Schwager come letture appiattite su un meccanismo antro-pologico universale. Egli, invece sostiene che «è la “logica del Regno” che, es-sendo la chiave interpretativa del vivere di Gesù, lo è anche del suo morire» (97). Segue poi quella biblico-magisteriale attraverso i contributi di LUCIANO MONARI: Liberati dalla paura della morte.
Una lettura di Eb 2, 14-15 (11-20); FLAVIO DALLA VECCHIA: Dio non ha fatto la morte (Sap 1, 13) (133-152); RENATO TONONI: Il «mistero» della morte nella Gaudium et spes (21-48). Il saggio di Dalla Vecchia si sofferma sui percorsi veterotestamentari riferiti alla morte. Egli coglie, in modo particolare, gli elementi che emergono dalla letteratura sapien-ziale che determinano l’esito diverso della vita del giusto e quella dell’empio. Per cui è alla luce della fede nella creazione e nell’agire divino nella storia che, la speranza del giusto trova esito positivo nella decisione divina di condurre l’uomo all’immortalità. Commentando il passo della lettera agli Ebrei, poi, Mo-nari sottolinea come solo in Cristo si adempie la speranza dell’uomo. Cristo, in-fatti, non ha liberato l’uomo «esonerandolo dalla necessità di morire, così come Lui stesso non si è sottratto al destino mortale dell’uomo. La liberazione è avvenuta trasformando la morte in vita, cioè in comunione con Dio, amicizia e obbedienza a Lui» (19). Infine, Tononi ricostruisce l’itinerario conciliare, attraverso i vari schemi presentati e gli interventi degli stessi padri conciliari sull’argomento, del tema della morte nella Gaudium et spes. Questo se trova sempre più spazio nella Costituzione Pastorale lascia però inesplorati alcuni aspetto quali il rappor-to tra anelito naturale alla vita e salvezza cristiana, tra immortalità dell’anima e risurrezione in Cristo. A tal proposito, però, è sempre opportuno ricordare che un documento conciliare non è un trattato di teologia entro cui trovare tutte le rispo-ste ai quesiti teologici. Piuttosto è necessario cogliere le aperture indicate dal do-cumento e percorrerle. Un altro approccio è quello patristico-liturgico con i contributi di ANDREA GAZZOLI: «De excessu fratris»: S. Ambrogio di fronte al mistero della morte (153-168); OVIDIO VEZZOLI: Ad postulandam gratiam bene moriendi. Un formulario liturgico insolito (217-247); ALBERTO DONINI: Morte e aldilà nelle missae pro defunctis gregoriane (249-283). Lo studio di Gazzoli coglie un passaggio fondamentale nella letteratura di Ambrogio circa la cristianizzazione dell’evento morte. Questo non è visto come una tragedia senza via d’uscita, ma egli «intravede la speranza in un Dio provvidente e nel suo piano di salvezza: anche nell’ora della morte Dio ha voluto rendersi presente accanto all’uomo mediante il suo Figlio e questi, con la sua morte e risurrezione, diviene garanzia di immorta-lità dell’uomo con Dio» (167). Sul versante liturgico Vezzosi si sofferma a commentare l’eucologia della Messa Per chiedere la grazia della buona morte riportata nel Messale Romano promulgato da Paolo VI.
In esso «ci troviamo di fronte ad una insistenza particolare sul noi ecclesiale che, davanti alla propria morte, evidenzia tre atteggiamenti fondamentali: l’esperienza del passaggio; la testimonianza di Gesù, modello di preghiera e di consegna nell’obbedienza della fede al Padre; l’umile implorazione davanti a Dio perché renda la Chiesa parteci-pe della gloria del Figlio risorto dai morti» (244). Donini, invece, rileva come, attraverso il dato sonoro, gli antichi testi liturgici trasmettono una visione lumi-nosa della morte e dell’aldilà. Egli mette in evidenza, giustamente, come non ba-sti una semplice analisi letteraria dei brani; piuttosto, contenuti e significati sono percepibili attraverso la forma musicale. È per questo che alle p. 274-283 sono riportate le notazioni musicali di 13 canti gregoriani, che andrebbero ascoltati non tanto come pezzi di una musica colta, ma nel loro contesto liturgico, per ca-pirne appieno il valore simbolico e celebrativo. Gli ultimi 4 lavori ci introducono nella prospettiva morale-spirituale. Sono i saggi di SERGIO PASSERI: Quale autonomia di fronte alla morte? (107-131); CARLO BRESCIANI: Il recente dibattito su “disponibilità-indisponibilità” della vita (319-345); ANGELO MAFFEIS: «Bene vivat, qui bene mori desiderat». La vita cristiana nell’orizzonte della morte nel De arte bene moriendi di Roberto Bellarmino (169-215); GIACOMO CANOBBIO: Di fronte alla morte o alle morti? (285-318). Passeri partendo dal concetto di «autonomia» che plasma, a partire da Kant, la cultura dell’uomo contemporaneo si interroga su cosa è in gioco nell’idea di autodeterminazione quando si prende in considerazione il limite e-stremo della morte. Egli conclude dicendo che «il credere, conferendo un senso al morire umano, permette di dischiudere un senso rinnovato alla stessa autono-mia: la possibilità cioè di vivere da responsabili il tempo del morire» (129).
Quasi in continuità sul tema del vivere responsabilmente la propria morte si pone il saggio di Bresciani. Questi coglie l’asprezza del dibattito in atto circa la disponi-bilità-indisponibilità della vita, sottolineando il cambio prospettico avvenuto at-torno al tema dell’eutanasia, dove si è passati dall’argomento della sofferenza insopprimibile e insopportabile al diritto a decidere della propria vita. L’autore delinea le principali questioni teoretiche che sottostanno alla posizione bioetica dell’indisponibilità della vita, prestando attenzione soprattutto alle giustificazioni che vengono portate a suo sostegno, sia di natura religiosa sia di natura razionale. Egli mette in evidenza, soprattutto, come l’inconciliabilità delle diverse posizioni in campo deriva dalla diversa considerazione della vita umana. Questa quando viene letta da un punto di vista individualistico porta ad una estrema solitudine, invece è nella prospettiva relazionale-comunionale che la vita trova il suo senso pieno. Vengono, così, presentati i nodi centrali della comprensione relazionale-comunionale della vita al fine di far emergere oltre alla sua ragionevolezza, anche la sua necessità. Maffeis apre una finestra sull’ars moriendi. Egli partendo dallo scritto di Roberto Bellarmino sulla preparazione alla morte, coglie alcuni aspetti provenienti dalla cultura umanistica che, superando l’accentuazione medievale dell’ultimo momento della vita, coglie tutta l’esperienza cristiana vissuta come cammino di fede quale preparazione a vincere la paura della morte. E così in Bellarmino «il momento della morte subisce una doppia relativizzazione. Su un primo versante, essa perde in larga misura il suo carattere drammatico perché è la vita il luogo decisivo in cui si deve apprendere l’arte di ben morire e l’ultimo momento rap-presenta solo la ratifica finale del modo in cui la persona ha vissuto. Su un altro versante, ciò che è decisivo dal punto di vista teologico per Bellarmino è il conseguimento del fine al quale Dio chiama la creatura umana, fine che è posto oltre la morte, nell’eternità di Dio.
Proprio in rapporto al fine si comprende l’importanza di apprendere l’arte di morire bene – ridefinita come arte di vivere bene – perché dall’apprendimento di quest’arte dipende la possibilità di accedere alla beatitudine eterna o la dannazione senza fine» (213). Infine il saggio di Ca-nobbio dopo aver rilevato la retorica che circonda la morte, compie un itinerario attraverso la Scrittura per cogliere alcuni modelli di comprensione della morte. Egli parte dalla morte come evento “naturale”, passa poi a considerare la morte come una interruzione indebita della esistenza terrena, quindi rileva il modello della morte come liberazione da una vita difficile e piena di difficoltà. Un ulte-riore modello è quello della morte come “giustiziera”; egli poi passa a considera-re la morte come “attesa” e come “sconfitta”. In questa varietà di situazioni Canobbio si chiede se sia possibile prepararsi alla morte secondo la tradizione consegnataci dai diversi trattati spirituali o dalle diverse forme ritualizzate, si chiede cioè se tali forme non siano inficiate da una grave omissione: la risurrezione. È per questo che egli sostiene che «prepararsi alla morte non coincide con il vivere pensando continuamente alla morte come una minaccia che incombe. Vuol dire piuttosto accettare la finitudine (di cui la morte è l’espressione estrema) e quindi ricondursi alla creaturalità, che comporta aprirsi alla consegna al fondamento “perenne” della vita» (316).
Tratto dalla Rivista di Scienze Religiose n. 2/2009
(http://www.facoltateologica.it/rivistadiscienzereligiose.html)
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