Hermeneutica. Annuario di filosofia e teologia (2009). Karl Barth in prospettiva ecumenica
(Hermeneutica)EAN 9788837223441
Rileggere Karl Barth in prospettiva ecumenica a poco più di quarant’anni dalla scomparsa non è un’operazione di tipo archeologico. Anche se la distanza temporale è ampia, è indubbio che dopo Lutero e Schleiermacher Barth si è confermato il pensatore che maggiormente ha inciso sulla teologia evangelica, dando origine a una corrente che è stata egemone per tutta la prima metà del Novecento ed è proseguita nell’opera di autori ancora viventi, tra i quali spiccano E. Jüngel in area europea e G.A. Lindbeck in area statunitense. È vastamente conosciuta la sua netta opposizione a tutte le forme antropocentriche della religione (come il sentimento o l’esperienza individuale) per affermare senza equivoci la logica autonoma della religione stessa a partire dalla parola di Dio, storicamente e pubblicamente rivelata, dogma ed evento fondatore, comandamento che si fa appello diretto e sollecita la responsabilità di ciascuno, suscitatrice di comunità animate dalla forza dello Spirito. Come scrive nella Dogmatik: «La realtà della parola di Dio in tutte le sue tre forme si fonda solo su se stessa.
Così la conoscenza che l’uomo ne ha si basa unicamente sul suo riconoscimento e questo riconoscimento non può divenire reale, essere reso comprensibile, che attraverso essa stessa» (Dogmatik 1/1, 94). Per realizzare il compito teologico in cui l’uomo non può non parlare di Dio sfuggendo al rischio di mettere al suo posto degli idoli (idoli sono le immagini di Dio prodotte dalla riflessione dei filosofi), si deve invocare che Dio parli laddove si parla di lui. Per questa ragione Barth ha rinnovato profondamente il linguaggio teologico (nella linea dell’incoordinabilità, della paradossalità, della rottura, della differenza), contribuendo a creare una koinè espressiva che porta con sé anche la convergenza su temi e idee con teologi cattolici come Henri Bouillard, Hans Urs von Balthasar, Hans Küng (o con teologi ortodossi come Evdokimov), tanto che taluno ha accusato Barth, in maniera sommaria e impropria, di criptocattolicesimo, anche come conseguenza dell’attenzione da lui portata al concilio Vaticano II (1962-1965), al quale fu invitato come osservatore.
Malandato di salute, poté recarsi «pellegrino a Roma» solo un anno dopo la conclusione della grande assise ecumenica per documentarsi di persona sull’evento. Tornò a Basilea convinto che il campo cattolico, in ambito teologico, fosse in pieno movimento e che non fosse casuale il posto centrale attribuito, tra le costituzioni conciliari, alla Dei verbum, cui volle dedicare il seminario invernale 1966-1967. Senza che tutto questo comportasse un appiattimento sulle posizioni cattoliche, poiché rimanevano a suo parere punti decisivi di dissenso, per cui poteva dire d’aver lasciato Roma «pieno di speranza, ma insieme tenacemente evangelico così com’ero arrivato». Prendeva atto delle differenze e indicava un orizzonte di unità per cui lottare, tenendo ben fermo un principio capace di orientare la rotta: «Partire da ciò che unisce, discutere di ciò che separa, in vista di ciò che unisce». La negazione di ogni forma d’innatismo e di spontaneismo religioso, la rottura dell’umano con il teologico, l’enfasi sulla differenza lo avevano posto in rotta di collisione con le pretese di totalizzazione romantica di Schleiermacher, della quale – secondo Barth – Feuerbach era stato il demolitore più efficace, poiché ne aveva riconosciuta la riducibilità ad antropologia. Questo faceva preferire a Barth la cultura di natura illuministica, riluttante a ogni confusione tra il mondo dell’uomo e Dio.
E tuttavia nel primo volume di Teologia protestante del XX secolo i lunghi saggi dedicati ai maggiori rappresentanti di tale movimento mostrano come la volontà assolutistica dell’uomo dell’Illuminismo, «la volontà di forma » che investiva totalmente la vita e i suoi aspetti, sia sostanzialmente fallita nella pretesa di «significare un sistema fondato sul presupposto fideistico dell’onnipotenza delle facoltà umane». Così come è fallita l’accentuazione, nel tema religioso, del momento attivistico-morale, secondo l’assioma di Kant che nella religione tutto dipende dal fare in vista della rivitalizzazione del cristianesimo come potenza benefica attraverso la prassi. Per cui da parte di Kant si affermava che la vera adorazione di Dio consiste nel miglioramento della vita, nella soppressione dell’eteronomia clericale, nella lotta contro l’irrazionalità e contro il vizio, nella pratica fedele dei doveri e delle virtù cristiane. L’intransigente surrealismo teologico di Barth ha suscitato molte reazioni e dibattiti, anche tra i pensatori della teologia liberale, suoi maestri, a cominciare da Rudolf Harnack, il quale lo accusò di essere un barbaro in preda a un orgoglioso dualismo gnostico e in definitiva un ateo, per non aver voluto riconoscere quanto d’impronta teologica ci fosse in Kant o in Goethe o negli altri ingegni che hanno modellato la civiltà europea.
Eppure il Novecento ha visto filosofi come Pietro Martinetti, Karl Jaspers, Luigi Pareyson, Italo Mancini, solo per fare qualche nome, che hanno voluto fare i conti sino in fondo con tale pensiero, ritenuto da Paul Ricoeur una forma di teologia che, rinunciando alla totalizzazione sistematica, si è impegnata a pensare il male e la salvezza nella loro radicalità. A Martinetti le tesi del primo Barth sembrano derivare dalle falde della mistica apofatica e dualistica, da cui non poteva giungere in maniera corretta la giustificazione, mentre Jaspers – collega di Barth per tanti anni a Basilea – gli contrappone la fede filosofica, con il linguaggio delle cifre, considerato in grado di cogliere l’infinita realtà della trascendenza poiché la custodisce nella sua infinita apertura e pluralità di sensi senza irrigidirla nell’involucro dogmatico. Al contrario, Luigi Pareyson che ha incontrato tramite Jaspers il pensiero di Kierkegaard e nell’indagine sulla Kierkegaard Renaissance si è imbattuto nel Römerbrief (destinato a lasciare tracce indelebili nella sua lunga riflessione), dichiara di avervi trovato la chiave per capire tutto il mondo da cui era sorto l’esistenzialismo tedesco.
Italo Mancini infine, autore dell’Introduzione (una vera monografia) all’edizione italiana, presso l’editrice Il Mulino, dell’antologia di testi tratti dalla Dogmatica ecclesiale curata da Helmut Gollwitzer, fa proprio, nella sua elaborata Filosofia della religione, un concetto di religione che s’identifica con la rivelazione, con un apriori divino inteso in senso logico e ontologico: da Dio viene l’origine della conoscenza religiosa come grazia pubblicamente data e da Dio viene la sua forza di liberazione. Non segue però Barth nella sua radicale negazione di qualsiasi ruolo per la filosofia: nella struttura ermeneutica la rivelazione, il kerygma diventa oggetto di un discorso filosofico che fa sì che essa passi dal dato al significato per noi, pur mantenendo la propria originalità e specificità. Nel tentativo di stilare un bilancio di quello che ha significato Barth nel Novecento, non si può dimenticare l’apporto dato alla vita politica: dalla Confessione di Barmen del 1934, il manifesto della Chiesa confessante contro il nazismo, agli scritti che incitavano alla resistenza (Eine Schweizer Stimme, 1938-1945), ai saggi sulla corresponsabilità politica della Chiesa, e poi, nel secondo dopoguerra, al teso e aspro dibattito sulla questione tedesca, sulla bomba atomica, sulla dubbia qualità di certo anticomunismo...
Un entrare nel vivo delle questioni storiche, a dimostrazione del fatto che l’aver accentuato il motivo teologico, nello spazio liberato dall’innalzamento di Dio, gli aveva posto come ineludibile e urgente il compito dell’azione offrendogli una maggiore libertà per rielaborare e vivere un’etica come invenzione, «tagliata sulla misura della storia». Quella politica è stata la dimensione più incompresa – e ancora in parte da esplorare – nella biografia di Barth. Un fatto da lui ampiamente previsto: in un bilancio della sua vita nel decennio 1948- 1958, apparso sul The Christian Century di Chicago nel gennaio del 1960 con il titolo «Recapitulation Number Three» anticipava, infatti, con la visione il giorno in cui sarebbero apparsi i necrologi. In essi – scriveva – «si dirà di me sbrigativamente che ho reso certi servizi per il rinnovamento della teologia durante la lotta della Chiesa in Germania, ma che riguardo alla politica sono stato un fuoco fatuo sospetto».
Eppure, le prese di posizione di Barth, tanto discusse, discendevano dalla sua fatica di liberare Dio dalla caduta idolatrica, misuravano la sua concezione della dogmatica con il compito politico e, in tal modo, restituivano la terra al proprio spessore laico, senza nulla concedere agli assolutismi terreni, lontane dal rischio sempre incombente di creare quei «cortocircuiti» che bruciavano a un tempo e il sostantivo teologico e quello umano. Ha scritto Henri Bouillard che il dialogo ecumenico della Chiesa cattolica con le Chiese evangeliche è certamente proceduto con Barth oltre Barth, ma che resta tuttavia perennemente orientatore il suo assillante avvertimento a «restare fedeli alla parola di Dio, attestata nella Bibbia e predicata nella Chiesa, senza dissolverla nelle ideologie del nostro tempo». I documentati contributi di noti specialisti e la pubblicazione di rari inediti in lingua italiana cercano di dar ragione in questo fascicolo di Hermeneutica, di un’originale e compiuta esistenza teologica e di una produzione teologica imponente, la cui Wirkungsgeschichte (storia degli effetti; ndr) è ben lungi dall’essersi esaurita.
(Dall'introduzione di Piergiorgio Grassi)
Tratto dalla rivista Il Regno n. 4/2010
(http://www.ilregno.it)