Destino, provvidenza, predestinazione. Dal mondo antico al Cristianesimo
(Filosofia. Nuova serie)EAN 9788837222673
L’autore presenta una rimeditazione delle idee già espresse nell’Idea del destino nel pensiero antico (1) sul tema del destino dall’antichità pagana all’insorgere del giudaismo, prima, e del pensiero cristiano, poi. La connessione tra paganesimo e cristianesimo è vista attraverso il dibattito avutosi tra le scuole ellenistiche sui temi del determinismo e della predestinazione, a partire dai due massimi esponenti dell’illuminismo greco, Platone e Aristotele. Il primo capitolo, Mito, si apre con un esame etimologico dei nomi delle divinità di area indoeuropea che rinviano ai concetti, collegati tra loro, di destino, nascita e morte. Presso i Romani il destino, fatum, è inteso come qualcosa di «detto», oggetto di vaticinio, piuttosto che di scritto, a differenza dei popoli della Mesopotamia, le cui «Tavole del destino» sono all’origine della rappresentazione ittita delle Gulse (da guloe, «scrivere»).
L’etimologia di Parche da pare?re, «partorire», suggerisce poi un’associazione, che è già presso i Greci, tra destino e nascita. Infatti, le Moire greche, dalla radice indoeuropea (S)MER, «ripartire», «distribuire», sono «coloro che assegnano la sorte», attraverso la metafora della filatura manifesta nel nome di una di loro, Cloto, la «Filatrice». Anche Nemesi, Adrastea e le Erinni, insieme alle Moire, sono riconducibili a una stessa figura di «Grande Dea» che presiede alla generazione, alla prosperità e alla «distribuzione» del nutrimento, esprimendo nella sua caratterizzazione mitica l’ambivalenza tra l’aspetto luminoso della vita e quello oscuro della morte. La môira, come nome comune, indica invece quella «parte», «porzione» di esistenza, assegnata a ciascun individuo alla nascita. Nei poemi omerici la Moira, che non gestisce un solo filo alla volta, bensì un insieme di fili e dunque un tessuto, rappresenta il legame, quasi il lógos, che fa da sfondo alle vicende dei singoli personaggi, finendo così per governare dall’alto l’intreccio narrativo. Ciononostante i personaggi conservano una loro autonomia decisionale (2). Alla concezione omerica del destino come di una forza che risiede nell’intimo sembrano rifarsi le meditazioni di Pavese su questo tema: «La forza del destino è in fondo la nostra stessa [...]. Agiamo sempre nel senso del destino» (3).
Un’analoga concezione bidimensionale del destino si ritrova nella tragedia greca. Dei tre tragici, Eschilo è quello in cui emerge più chiaramente l’ambivalenza etico-religiosa propria della mentalità arcaica: la colpa è contraddittoria in se stessa, poiché si sviluppa autonomamente all’interno del génos, sotto forma di «demone devastatore». Sebbene quindi l’individuo agisca sempre nella piena consapevolezza delle sue scelte, sullo sfondo si staglia la logica divina o fatale delle cose a lui invisibili. Parimenti, i personaggi di Sofocle soffrono per catastrofi immeritate in una totale solitudine: così Edipo insegue una sua verità e viene punito proprio per la sua ostinata volontà di conoscenza. In Euripide, invece, il destino, evocato in tutte le sue accezioni con la massima frequenza, finisce per ridursi al semplice intrigo del caso; subentra, infatti, nell’ultimo grande poeta tragico, una visione rigorosamente antropocentrica che dissolve la bidimensionalità tipica del pensiero arcaico. Con un’acuta riflessione linguistica, dall’etimologia del «vero», in greco alethés, «non-nacosto» e quindi «apparente», Magris postula una parziale equazione tra il concetto greco di verità e la nostra apparenza, salvo che l’apparire è nella mentalità greca qualcosa di progressivo che affonda le proprie radici nel mistero. La verità si delinea quindi nei tragici come qualcosa che emerge, appare, inesorabilmente dal segreto del proprio intimo. Per la filosofia delle origini, che indaga la conoscenza dell’inizio di tutte le cose, la «teologia» si configura come una «teogonia» (4).
Dall’indagine teogonica, i fisiologi passano a un’indagine degli elementi che implica il concetto di ápeiron, una sorta di sfondo, un orizzonte mai raggiungibile: la necessità, nella visione pitagorica, circonda il mondo e lo governa, mentre il tempo è la misura dei movimenti (5). La conflittualità degli elementi diventa in Eraclito armonia dei contrari, ma il lógos del mondo, la sua apparenza, sono visibili solo al filosofo. È Eraclito il primo a utilizzare l’aggettivo heimarménos, ma il destino non è per lui un’istanza di carattere morale, bensì un principio cosmico. A Parmenide, d’altro canto, Magris riconosce un contributo fondamentale al tema del destino: secondo questo filosofo, infatti, ciò che è appare progressivamente benché sia suo destino l’essere come è; in altre parole, come già in Sofocle, il vero non si inventa ma si scopre. È infine da attribuire a Democrito la fondazione di un determinismo filosofico basato sul principio di causalità, laddove ogni aitía, quasi in senso giuridico, è intesa come una causa particolare che sta alla base di un singolo fatto. Al determinismo «pluralistico » di Democrito si oppone quello «monistico» degli stoici, la cui filosofia è imperniata su una finalità di tipo morale. Questa etica soggettiva per cui ciò che ha valore è la virtù (kalón, honestum) da raggiungere in modo razionale, si colloca però in un quadro universale, dove il lógos corrisponde a «Dio». Tale principio, môira o destino, è dunque un’istanza superiore rispetto al conflitto tra libertà e necessità.
L’illuminismo greco si caratterizza, come quello moderno, nel collocare al centro l’intelligenza, il noûs dell’uomo: è in tal senso che l’autore lo definisce un pensiero della finitezza. Il vero è ciò che appare all’uomo, il resto rimane nascosto (ádelon); di conseguenza la môira omerica viene sostituita dalla «fortuna», týche. In questa prospettiva assume la massima importanza la téchne, che facilita la strada al progresso umano. Nasce in quest’epoca la figura del sofista specializzato nell’arte della parola. Secondo la lettura di Magris, anche la filosofia platonica, permeata dal concetto politico dell’interesse collettivo, è radicata nell’illuminismo greco (6). Parimenti l’etica di Aristotele per il quale solo l’abitudine alla virtù consente all’uomo di non cadere nel vizio, prevede una pluralità di fattori: la natura, la necessità, il caso, l’intelligenza dell’uomo, in conformità al principio illuministico per cui la realtà è prodotta da istanze indifferenziate (anánke, téchne e týche) fondamentalmente indipendenti tra loro. Lo stesso concetto di provvidenza, in greco prónoia, «prevedere» e «provvedere», è ritenuto illuministico dall’autore, in quanto mette in rilievo una funzione tipica dell’intelletto umano (noûs). Nei capitoli centrali Magris prende in esame le controversie sorte in seno alle «scuole» filosofiche di età ellenistica (IV-I secolo a.C.) che si dedicarono in gran parte, sull’esempio dei sofisti, alla contestazione delle dottrine altrui e utilizzarono a questo fine la dialettica. È riconducibile a tali dibattiti il ragionamento, intitolato l’«Argomento dominatore», che confutava il concetto aristotelico di «possibile».
Altrettanto acceso fu il dibattito sul tema della divinazione (mantiké), una pratica istituzionale a cui si aggiunse fra III e II secolo a.C. l’astrologia, scienza di origine mesopotamica secondo la quale erano i pianeti e le costellazioni a determinare inesorabilmente gli eventi umani; restava comunque la speranza che la týche potesse in qualche modo favorire l’individuo. Molti pensatori contrastarono questa visione fatalistica a causa delle sue conseguenze devastanti sul piano etico. D’altra parte, l’intervento della divinità in favore del mondo e degli uomini, negato dai continuatori dell’epicureismo, venne sostenuto dagli stoici, che elaborarono una vera e propria «teodicea» volta a scagionare Dio per la presenza del male nel mondo. Nell’ultimo capitolo, l’autore affronta il problema del destino e della predestinazione dalla religione ebraica al cristianesimo, attraverso l’influsso della filosofia greca. Né la Bibbia ebraica né il Nuovo Testamento danno particolare rilievo all’idea di predestinazione, mettendo l’accento sulla libera scelta dell’uomo veicolata dalla fede. In ragione della forte connotazione etica del Dio della Bibbia, il piano divino vi appare come un progetto aperto e flessibile, suscettibile di essere modificato in base al comportamento degli uomini; è invece la «scelta» del Dio, talvolta irrevocabile, a costituire il concetto più simile a quello di predestinazione. La «chiamata» di un profeta è altresì da intendersi come l’affermazione del posto che questi ha ricevuto da sempre nel piano divino.
Il passaggio dal giudaismo al primo cristianesimo è affrontato da Magris a partire dalla dicotomia tra la rigida obbedienza alla Torà propugnata dai Farisei e la visione esoterica del destino che animava la setta ascetica degli esseni. D’altra parte, la setta giudaica Yàhad, testimoniata dai manoscritti di Qumran, riconosceva in Dio il soggetto del sapere, in quanto Dio della conoscenza, elaborando una «teologia della storia» in cui trova ampio spazio il concetto di predestinazione. Completamente nuova, rispetto ai presupposti del giudaismo, appare la concezione che san Paolo ha della fede, basata sul convincimento che la grazia è concessa da Dio (7). Riprendendo il pensiero di Paolo, Agostino elabora una dottrina dei concetti di grazia e predestinazione sostenendo che nessuno si salva da sé, ma solo colui che è stato preventivamente «liberato» dalla grazia del Signore può assolvere ai suoi compiti di cristiano. Con ciò Agostino non negava la libertà dell’iniziativa umana, operava bensì una sintesi, sul piano ontologico, tra la dimensione dell’agire umano e quella logica immutabile che è da sempre preposta ai fatti del mondo.
Tratto dalla rivista Humanitas 64 (6/2009) 979-982
(http://www.morcelliana.it/ita/MENU/Le_Riviste/Humanitas)
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(1) Del Bianco, Udine 1984-85.
(2) La morte di Patroclo, ad esempio, è causata dal suo desiderio di mettere in fuga i Troiani, mentre quella di Achille viene più volte prospettata nel poema come una conseguenza del desiderio di gloria dell’eroe.
(3) C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1952, p. 285.
(4) Sia nella Teogonia di Esiodo (VII secolo a.C.), sia nelle teorie orfiche, sviluppatesi a partire dal VI-V secolo a.C., il campo-divinità che presiede alla generazione del mondo è Eros. Subentra tuttavia nell’orfismo l’idea del tempo (Chrónos) che impone un ordine prestabilito dei fatti.
(5) Una diversa concezione del destino distingue tuttavia gli orfici dai pitagorici: mentre gli orfici tentano di sottrarsi alla necessità della palingenesia, per i pitagorici la circolarità (kýklos) è positiva in quanto esprime la natura stessa dell’anima immortale (psyché), come identità dell’inizio con la fine.
(6) Verte essenzialmente sul problema della libertà di scelta il «mito di Er» che chiude la Repubblica di Platone: a differenza dell’orfismo, qui le anime sono chiamate a scegliere in chi incarnarsi. Il messaggio appare sostanzialmente moralistico: siamo noi a scegliere il nostro destino, mentre il caso e la necessità sono fattori solo secondari.
(7) È quindi possibile parlare, secondo Paolo, di una doppia predestinazione, volta comunque al bene dell’uomo: se Dio ha respinto Israele, lo ha fatto perché il Cristianesimo diventasse una religione universale.
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