Il tema del rapporto tra libertà, giustizia e bene in una società che ha da esibire, come suo ultimo risultato, il capitalismo globale e multiculturale, si è imposto anche in Italia da circa un decennio. Tramontato l'interesse per il neo-marxismo, assai vivo nella seconda metà del Novecento, è cominciata anche nella nostra letteratura la ‘conversione' al dibattito già in corso, da almeno un trentennio, nel mondo anglosassone. Cosa aggiungere a questa letteratura divenuta ricca di titoli? Ben poco, si dirà. Non poco, invece, bisognerebbe dire, poiché essa è ancora fondamentalmente prigioniera di una alternativa che, nonostante gli ultimi e variegati sviluppi, potremmo rappresentare ricorrendo alla polemica tra ‘neocomunitari' e ‘neoliberali'. Rispetto a tale disputa, comandata nascostamente dalla tradizione solipsistica della modernità, è ormai necessario andare oltre. Ma progresso teorico si può cominciare a intravedere solo se si mette in questione il presupposto che accomuna i contendenti: ossia l'impossibilità di parlare del bene comune in modo sostantivo. Da un lato i comunitaristi tendono a rifugiarsi nella ‘concretezza' dell'ethos condiviso, incapace, però, di totalizzazione trascendentale; dall'altro i neoliberali rimandano alla ‘universalità' della ragione astratta, ma incapace di determinazione trascendentale. Il risultato molto somiglia a una professione generale di unilateralità, solo a parole negata. Un'altra via è teoricamente possibile, ed è quella variamente perseguita dai saggi presenti in questo libro: la via che guarda al bene, prima che alla giustizia (pure di somma importanza), e poi al bene comune, trascendentalmente determinato in modo sostantivo. Senza affatto dimenticare la fragilità dell'impresa. Che non è la fragilità del bene, ma la nostra fragilità quanto al bene.