Su Atanasio
(Testi patristici)EAN 9788831182522
Compare per la prima volta in traduzione italiana l’opera di Lucifero di Cagliari De Athanasio o, secondo il titolo completo, Quia absentem nemo debet iudicare nec damnare sive de Athanasio. Questo volume di traduzione, studio e commento è stato curato dal professor Rocco Schembra, docente di Letteratura cristiana antica nello Studio Teologico San Paolo di Catania e di Latino e Greco nei Licei.
Lucifero vescovo di Cagliari, probabilmente di origini sarde, fu una delle personalità del mondo latino a far sentire di più la propria voce durante la crisi ariana che lacerò il tessuto ecclesiale del IV secolo. Della sua vita non si hanno molte notizie: fa, infatti, direttamente il suo ingresso “sulla scena” con la presa di posizione contro l’imperatore Costanzo al Sinodo di Milano del 355, che gli costò l’esilio in Oriente. Morì al rientro nella sua sede episcopale nel 370 circa, come riferisce Girolamo nel De viris illustribus 95, sotto l’imperatore Valentiniano.
Lucifero si schierò con determinazione in difesa di Atanasio distinguendosi all’interno di quella che divenne una vera e propria questione atanasiana. Il vescovo di Alessandria, estremo difensore della fede nicena, aveva visto accanirsi contro di lui, in più occasioni, i seguaci di Ario, coalizzati attorno a Eusebio di Nicomedia, e perciò detti eusebiani. Questi ottennero più volte l’esilio di Atanasio, avvalendosi di alleanze con altri gruppi ostili al vescovo, come i meliziani, che causarono il suo primo esilio al Sinodo di Tiro del 335 e, poi, con pressioni sull’imperatore, dapprima Costantino, cercatore di equilibri, e poi Costanzo, apertamente schierato verso le soluzioni più semplici, certamente non nicene, al problema teologico circa il Figlio di Dio. Soprattutto, però, i nemici di Atanasio sollevarono più volte contro di lui accuse di ogni tipo. Gli si imputarono violente azioni repressive verso sacerdoti e di essere arrivato persino a commettere l’omicidio di un vescovo, Arsenio di Hypselis, poi ritrovato vivo; di sacrilegio durante una celebrazione tenuta da un presunto prete della Mareotide, Ischira, dove avrebbe causato la distruzione di un altare e delle suppellettili sacre; di voler impedire l’approvvigionamento delle città, soprattutto la sede imperiale, bloccando i rifornimenti di frumento che partivano da Alessandria, azione punita dalle autorità con la morte; in ultimo, i meliziani provarono persino a mettere in dubbio la sua ordinazione. Colpire Atanasio diventò sempre più non solo un modo d’indebolire il partito dei niceni, ma soprattutto rinnegare lo stesso credo niceno. Con questa finalità l’imperatore Costanzo, che alla morte dei fratelli aveva riunificato sotto di sé nuovamente tutto l’impero, approfittò del Sinodo di Milano del 355 per costringere i vescovi a condannare Atanasio. Ed è qui che compare per la prima volta Lucifero di Cagliari.
Papa Liberio, dopo il fallimentare Sinodo di Arles del 353, dove i pochi vescovi che erano riusciti a radunarsi avevano ceduto alle pressioni imperiali, ratificando la condanna di Atanasio, compreso il suo legato Vincenzo di Capua, incaricò il vescovo di Cagliari di occuparsi della questione, forse proprio per il suo temperamento irremovibile. Così Lucifero, con il presbitero Pancrazio e il diacono Ilario, costituì l’ambasceria del papa presso l’imperatore perché si affrontasse di nuovo la questione del credo niceno e quella di Atanasio in una nuova riunione, che fu fissata appunto a Milano. Fu qui che Lucifero manifestò la sua forza e impetuosità nell’opporsi alla condanna dell’Alessandrino, innanzitutto perché assente (absens) al sinodo, e poi perché innocente (innocens).
Determinante accanto al Cagliaritano fu l’arrivo al sinodo di Eusebio di Vercelli, anch’egli di origini sarde, che dissuase i presenti che prima ancora della condanna di Atanasio era necessario sottoscrivere il credo niceno. La situazione, che stava volgendo in senso opposto alle aspettative di Costanzo, fece sì che quest’ultimo spostasse il sinodo dalla Basilica Maior all’interno del palazzo. Il sinodo ottenne la condanna di Atanasio, che si rifugiò presso i monaci dell’Egitto, e anche l’esilio dei vescovi fedeli al credo niceno, ossia Dionigi di Milano, Eusebio di Vercelli e Lucifero.
Come fa notare Schembra, Lucifero, nelle sue opere e in questa in particolare, ha il pregio di fornire una testimonianza sugli eventi milanesi svoltisi all’interno del palazzo imperiale e di cui altrimenti non si avrebbe notizia. Infatti, l’altra importante fonte costituita dall’Ad Constantium 8 di Ilario di Poitiers si ferma alle discussioni della prima fase, mentre le altre sembrano essere di più problematica lettura.
Dunque, l’importanza di Lucifero va ricercata nel sostegno che egli dette al partito niceno e al vescovo Atanasio, soprattutto in quanto occidentale: sempre poco, infatti, si sottolinea l’apporto dell’Occidente nella crisi ariana.
Momento però non facile del rapporto tra i due vescovi fu quanto accadde tra la morte di Costanzo e l’ascesa di Giuliano, quando i vescovi esiliati riebbero piena libertà. Infatti, Atanasio convocò un sinodo ad Alessandria, nel 362, per riconsolidare la sua posizione, dopo il tempo d’esilio, e per dirimere anche le diatribe teologiche ancora in corso. Mentre Eusebio di Vercelli partecipò al sinodo, Lucifero si recò invece ad Antiochia, inviando in sua vece i due diaconi Erennio e Agapeto.
Divergenti sono le interpretazioni dei critici riguardo a questa decisione. Una prima ipotesi, che s’ispirerebbe a quanto Teodoreto lascerebbe trasparire nella sua Historia, attribuisce la scelta di Lucifero a un dissenso con il vescovo di Alessandria sul comportamento da assumere verso coloro che avevano ceduto alle pressioni imperiali, venendo meno alla fedeltà nicena, soprattutto se avevano sottoscritto la formula del 359 di Rimini-Seleucia. Atanasio avrebbe, infatti, manifestato una certa indulgente accoglienza.
Schembra riporta anche una seconda ipotesi, molto interessante, secondo cui Lucifero, certo dell’esito del Sinodo alessandrino in senso rigorista, proprio per la presidenza di Atanasio che tanto aveva sofferto per la difesa della formula di Nicea, si sarebbe recato ad Antiochia, ritenendo urgente cercare di ricomporre lo scisma in atto nella comunità verso quegli stessi esiti di stretta osservanza nicena, che si aspettava dal sinodo egiziano.
Ma la soluzione dialogante di Atanasio, rivolta proprio alla situazione antiochena, di una fedeltà creativa e più elastica al dettato del Concilio del 325, che chiarendo il lessico dei diversi schieramenti si avviava verso la formula trinitaria di una ousia in tre ipostasi, non dovette soddisfare il Cagliaritano, che però non sconfessò la sottoscrizione dei suoi legati, ma da Antiochia ritornò subito in patria, dopo aver deciso di alterare irrimediabilmente la situazione antiochena.
Nella capitale siriaca, infatti, la comunità cristiana era divisa tra coloro che, fedeli a Nicea, si erano radunati attorno al presbitero Paolino, il quale non aveva accettato né la figura del vescovo di posizioni concilianti vicine a quelle omeusiane, Melezio, né assolutamente il vescovo ariano Euzoio. Lucifero decise di rinunciare a ogni tentativo di dialogo e pacificazione, consacrando vescovo Paolino e decretando una spaccatura ancora più netta. Eusebio di Vercelli, quando giunse in città per portare il tomus del Sinodo alessandrino e apprese la nuova situazione, non poté che abbandonare la città, certamente in disaccordo con la scelta del collega italico. Il nuovo esilio che Giuliano impose ad Atanasio non consentì comunque ulteriori possibilità di confronto.
Sulla questione dello scisma antiocheno il testo dell’introduzione di Schembra, per questioni certamente di sintesi, non riesce bene a far comprendere la differenza tra il partito dei paoliniani e dei meleziani. Sembrerebbe quasi che i due partiti siano solo divisi da un’adesione più o meno rigida al simbolo di Nicea, ossia una divisione interna tra niceni, mentre invece il partito di Melezio era chiaramente legato a posizioni vicine a quelle omeusiane, rispetto a quelle omousiane dei seguaci di Paolino, che ereditando l’impostazione di Eustazio di Antiochia (deposto nel 327), rifiutavano nettamente le tre ipostasi.
Strumento utile e punto di merito di questo volume è offrire, a chi si approccia per la prima volta al Cagliaritano, una breve presentazione delle sue opere, che Schembra premette alla più accurata presentazione del De Athanasio, oggetto del volume.
Nella lettura apparirà immediatamente come nelle opere di Lucifero di Cagliari abbondino citazioni della Scrittura di notevole dimensione. Lo studioso, a buona ragione, fa notare che più che a una mancanza di originalità, queste citazioni bibliche troppo lunghe, per la sensibilità di un lettore moderno, andrebbero ricondotte al ruolo fondamentale che Lucifero attribuisce alla Scrittura. Egli sembra immedesimarsi talmente tanto con il testo biblico da far diventare una cosa sola quanto sta vivendo storicamente con ciò che legge. Soprattutto questo si evince nella polemica con l’imperatore Costanzo, filo-rosso che attraversa tutte le sue opere. Le sue invettive contro l’imperatore ariano sono spesso accompagnate da citazioni notevoli, come a voler dimostrare che è la Scrittura a condannare il princeps e non un’opinione qualsiasi di un uomo.
Asse portante delle opere di Lucifero non può che essere la polemica antiariana. Il tema del rapporto tra il Padre e il Figlio è sempre emergente in tutte le opere, ma al contempo il vescovo non lasciò da parte la questione sullo Spirito Santo. In questo Lucifero si mostrò al passo con i tempi, poiché la disputa con gli pneumatomachi cominciò apertamente nel 360 circa (cf. De Athanasio 2,11; 1,16.40).
Questi elementi sono tutti rintracciabili, anche in maniera emblematica, nel De Athanasio. Quest’opera è da considerarsi con molta probabilità anteriore all’autunno del 358, rispetto a datazioni più tarde, per il mancato riferimento alla deposizione di Giorgio il cappadoce dal soglio di Alessandria (ottobre 358) e ai Sinodi di Rimini e Seleucia (359). Tra le opere di Lucifero, inoltre, essa è la più lunga e l’unica divisa in due libri.
In alcuni punti maggiormente si evince lo spessore teologico del vescovo di Cagliari, così come appare da questo testo: «Che cos’altro, infatti, professa la fede della beata chiesa se non che crede in Dio Padre ingenerato e nell’unigenito suo Figlio, generato dal Padre vero e ingenerato, e nello Spirito Santo Paraclito? Che cos’altro professa la fede della Chiesa cattolica se non che esiste una perfetta Trinità e una sola natura divina comune al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo? Che cos’altro professa la fede della beata chiesa se non che a incarnarsi non fu né il Padre né lo Spirito Santo Paraclito, ma l’unigenito Figlio di Dio? […]. La santa chiesa ha creduto che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo hanno un solo potere e un’unica signoria» (De Athanasio 1,40: CTP 252, 136).
Per quanto l’atteggiamento polemico abbia la preminenza in queste opere, non è da sottovalutare la capacità teologica di Lucifero, come ben evidenzia Schembra: «Si può realmente argomentare che Lucifero non fosse soltanto un violento pamphlettista, desideroso di mettere all’indice o alla berlina il suo antagonista Costanzo. Egli presenta una ben definita linea di pensiero teologico, ma tuttavia non bisogna cercare nelle sue opere, e quindi neanche nel De Athanasio, un’elaborazione complessa e sistematica della teologia cristiana, perché non era la finalità verso cui tendevano» (CTP 252, 32). Questo volume di Schembra permette più agevolmente di entrare nella questione ariana attraverso gli occhi, o meglio le parole, di uno dei protagonisti più particolari della vicenda che segnò il IV secolo. Consente, inoltre, di conoscere maggiormente la figura del vescovo di Cagliari e la forza della sua irriducibile difesa della genuinità di Nicea: «Nel concilio di Nicea, all’epoca in cui si delineò la fede non solo contro la vostra blasfemia, ma anche contro tutte le eresie» (De Athanasio 1,27: CTP 252, 105). Lucifero, infatti, rischia sempre di essere considerato una personalità marginale, nonostante l’amicizia con Atanasio ed Eusebio di Vercelli e il ruolo giocato all’interno dello scisma antiocheno. La traduzione del De Athanasio contribuisce, infine, a far percepire la grandezza di questi autori, che fermi nelle loro posizioni di fede, osarono opporsi anche al potere più forte, come quello imperiale, e non temettero neppure di perdere il prestigio o la vita stessa.
Tratto dalla rivista "Aprenas" n. 1-2/2018
(http://www.pftim.it)