In prima edizione italiana. Il Libro sul cuore indurito del Faraone, risalente al V secolo d.C., è un trattato attribuito a Pelagio. Si tratta di uno scritto espressione di una dottrina maturata nel Cristianesimo delle origini, il pelagianesimo, secondo la quale la santità è nelle possibilità dell'uomo. L'Autore individua pertanto alcuni brani dell'Antico e Nuovo Testamento che sembrano confermare tale visione contro l'idea contraria secondo la quale Dio sceglie chi salvare e chi no. Diversi sono egli esempi scelti e commentati. Tra questi il testo si sofferma in modo particolare sulla vicenda del Faraone - nella quale il cuore indurito del Faraone lo ha reso ostinato nel proposito di non lasciare andare il popolo di Israele - che ha dato il titolo all'intero trattato. L'ampia introduzione è un ottimo sussidio alla lettura e comprensione del testo.
INTRODUZIONE
Il delicato rapporto tra la grazia divina e la libertà umana è senz'altro uno dei temi centrali della riflessione cristiana; alcune delle principali controversie che hanno turbato la teologia dell'Occidente (si pensi a Pelagio, Gotescalco, Lutero, Calvino e Giansenio) traggono spunto proprio dal ritenere la salvezza un dono completamente gratuito di Dio oppure, in alternativa, il frutto di una faticosa conquista da parte dell'uomo. Il ricorso alla Sacra Scrittura, testo normante della fede cristiana, si rivela in tale contesto problematico, come risulta evidente notando, anche attraverso un cursorio esame, che in essa coesistono due diversi modelli di relazione tra Dio e l'uomo.
Secondo uno, che potrebbe essere definito a partire dal concetto di elezione, è Dio a prendere l'iniziativa nel rapporto con l'uomo e a salvarlo, malgrado i limiti e le deviazioni di questo. Ma vi è anche un altro modello che, seppur non espresso, emerge prepotente soprattutto in relazione alla vasta precettistica morale presentata dalla medesima rivelazione biblica; secondo questo schema l'uomo, pur scelto da Dio, deve meritare la salvezza attraverso la sua buona condotta morale. I due model- lo si comprende bene, possono coesistere conciliati e riconciliati in una riflessione che non li ponga esplicitamente in discussione; qualora però questa discussione si accenda, la questione diventa immediatamente candente, con l'immediato rischio di precipitare in due errori opposti: se troppo si insiste sull'iniziativa di Dio a discapito di quella dell'uomo, si scivola nel predestinazionismo; se invece si pone l'accento sulla condotta dell'uomo come motivo ultimo della salvezza, si cede a quel modo di pensare che comunemente è chiamato pelagianesimo.
Pelagio fu un monaco britannico vissuto a cavallo tra IV e V secolo; anche se egli resta per la posterità l'eponimo del pelagianesimo. quest'ultimo non va pensato come il calante dottrinale di un gruppo (veso, quasi una setta, bensì come un movimento di pensiero dai confini alquanto fluidi, cioè senza rigidi attestati di appartenenza: i pelagiani non volevano affatto creare, e in effetti non crearono, comunità alternative.
All'interno del movimento pelagiano fiorì una vasta letteratura, al fine di sostenere, propagandare e difendere le idee portanti del movimento: purtroppo, non è agevole stabilire volta per volta, chi sia l'autore dei singoli testi; la difficoltà è dovuta alla prassi, comunemente rimproverata ai pelagiani dai loro avversari, di far circolare anonimi un grati numero di scritti. George de Pli n val, lo studioso che più di altri nel corso del XIX secolo, si è occupato della letteratura pelagiana, colto da quella che si potrebbe a ragione definire una libido tribuendi, assegnò a Pelagio una quindicina di testi, alcuni dei quali sono solo genericamente pelagiani: espressione delle idee condivise dal movimento, più che opera del suo eponimo2. Ulteriori studi hanno ribadito la necessità di distinguere con chiarezza ciò che è pelagiano da ciò che invece è, stricto sensu, di Pelagio. Malgrado ciò è innegabile che il movimento pelagiano, pur contando nelle sue fila una varietà di autori con sfumature di pensiero non sempre identiche, si caratterizza per un'ispirazione profondamente unitaria.
Volendo definire il principio unificante del modo di pensare pelagiano, lo si può rinvenire nell'accentuazione del ruolo da assegnare al libero arbitrio dell'uomo e al suo impegno per il conseguimento della salvezza: per Pelagio e i suoi sodali l'uomo, lungi dall'essere strutturalmente condizionato da qualunque inclinazione - al limite invincibile verso il male, resta sempre libero nel porre le sue opzioni morali: se così non fosse, Dio non sarebbe in diritto di punire o premiare nessuno.
L'uomo non è dunque sottoposto a condizionamenti e limiti nell'esercizio della sua libertà, anche se si deve ammettere che la reiterazione di un comportamento peccaminoso produce però l'abitudine. questa ha certo il potere di ottundere nell'uomo la possibilità di optare, che tuttavia non gli viene mai completamente sottratta.
Questa impostazione è stata ampiamente condivisa dai pelagiani; essi trovavano un forte argomento per affermare la libertà dell'uomo nella stessa precettistica morale contenuta nella Sacra Scrittura: se Dio prescrive all'uomo una condotta impeccabile, deve rientrare nelle sue reali possibilità. Nella medesima Scrittura, però, vi sono molti altri testi che, insistendo sul concetto di elezione, sembrano far dipendere, principalmente e talvolta esclusivamente, la salvezza finale dall'iniziativa di Dio. Proprio alla "neutralizzazione" di alcuni di tali testi, cioè a un'interpretazione che non leda in nessun modo la libertà dell'uomo, è volto l'impegno del Liber de induratione.