Teodoreto di Cirro inizia la grande serie dei commenti ai profeti dell'Antico Testamento con il Commento a Daniele, composto con ogni probabitità negli anni 432-434, nel periodo di calma che intercorre tra le decisioni del concilio di Efeso e il cosiddetto Atto d'unione. Uno dei motivi della composizione del commentario è il rifiuto giudaico di annoverare il Libro di Daniele tra quelli profetici, oltre al desiderio di confutare le esegesi giudaizzanti dei Padri antiocheni, che inclinavano pericolosamente al riconoscimento della deuterocanonicità di Daniele. Teodoreto conduce la propria esegesi con un metodo fondato sul letteralismo, senza trascurare la contestualizzazione storica degli eventi profetizzati, ma esplicitando fin da principio il ricorso alla lettura secondo il senso figurato, che praticherà soprattutto in relazione alle visioni che Daniele riceve dal capitolo 7 in poi.
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
Il libro veterotestamentario di Daniele narra in dodici capitoli le storie di un prigioniero giudeo, Daniele appunto, alla corte di Nabucodonosor e dei suoi successori: i primi sei sono infatti dedicati alle peripezie di Daniele e dei suoi compagni a Babilonia, mentre i restanti descrivono le visioni avute da Daniele, e interpretate con l'ausilio di angeli. Il testo ci è stato trasmesso in almeno tre redazioni differenti: quella masoretica, che ha la particolarità sorprendente di passare dal tardoebraico al tardoaramaico in Dn 2, 4 per ritornare all'ebraico in Dn 8, 1; quella dei Settanta in lingua greca e, infine, la recensione detta di Teodozione, anch'essa in greco. Il contenuto, inoltre, attinge a materiale profetico, sapienziale e apocalittico, la cui compresenza ha fatto sì che, per usare le parole di Pierre Grelot, «il libro manifestasse chiaramente la sua importanza nello sviluppo della teologia della storia e della teologia della speranza, alla fine dell'Antico Testamento. È Daniele che. al di là dei profeti antichi di cui completa il messaggio, ha fissato i caratteri della speranza nel giudaismo contemporaneo al N uoteri generali della Testamento».
L'intrinseca complessità di tale testo ha dunque fornito l'occasione per tentativi esegetici, critiche, indagini d'ogni sorta fin dalla sua ricezione del mondo ellenistico e, nel corso dei secoli, quest'interesse non sembra aver conosciuto mai sosta, coinvolgendo ogni uomo colto che s'avvicinasse, con le motivazioni più disparate, alle Sacre Scritture.
Ci sembra, perciò, opportuno offrire qui una sintetica rassegna, che non ha alcuna pretesa di completezza, sulla tradizione esegetica cristiana del Libro di Daniele dal I secolo d. C. fino all'operazione ermeneutica di Teodoreto di Cirro. Nel cristianesimo del I-II secolo d. C., Daniele è stato oggetto d'indagine relativamente a una selezione abbastanza ridotta di passi, che rivelano un peculiare utilizzo escatologico del testo, nella convinzione che la seconda Parousia di Cristo fosse imminente e che le predizioni sul crollo del quarto regno indicassero senz'altro la fine di Roma per le sue vessazioni contro i fedeli in Gesù Cristo.
Nel I secolo d.C., inoltre, utilizzò come fonte il racconto profetico di Daniele Giuseppe Flavio, un giudeo di eminente famiglia la cui vita e le cui azioni sono inscindibilmente legate alla rivolta giudaica sedata da Vespasiano e dal figlio Tito. Dopo una lunga e controversa serie di peripezie, infatti, Giuseppe si stabilì a Roma nel 71 d. C. e lì attese alla composizione di diversi scritti, tra cui le Antichità giudaiche, che lo impegnarono fino al 94-95 d.C.: con quest'opera storiografica egli voleva far conoscere al mondo romano la nascita e l'evoluzione della civiltà ebraica, di cui i recenti padroni del mondo possedevano notizie confuse e approssimative. Le Antichità sono in venti libri e, sul fondamento dell'Antico Testamento e di altra, copiosa, documentazione raccolta dallo stonriografo, presentano la storia del popolo ebraico dalla creazione di Adamo alla guerra con i Romani del 66 d.C.: nel X libro si seguono le vicende dei Giudei deportati a Babilonia e viene descritto, con accenti di autentica ammirazione per le sue capacità profetiche, il personaggio di Daniele, cui si riconosce il potere di predire gli eventi futuri, in particolare il regno di Antioco IV Epifane.
Un ampliamento dei temi sottoposti al vaglio degli uomini di Chiesa interviene allorché la prospettiva escatologica s'allontana nel tempo, a partire dalla metà del II secolo d.C.. - ne sono testimonianza, ad esempio, le proposte interpretative di Clemente d'Alessandria e di Tertulliano. Il primo commentario continuo del Libro di Daniele risale, però, soltanto al principio del III secolo d.C.: fu composto da Ippolito, che in un certo senso può essere considerato l'auctor del genere letterario esegetico.