INTRODUZIONE
1. L'autore
Venanzio Fortunato è uno scrittore di origine italiana (nacque nel 535 circa, nell'odierna Valdobbiadene) il quale, dopo aver compiuto gli studi ad Aquileia prima e a Ravenna poi, si recò nella Gallia merovingica per sciogliere un voto fatto a san Martino, che lo aveva guarito da una fastidiosa malattia agli occhi. Dopo essere stato a pregare sulla tomba del santo, a Tours, nel viaggio di ritorno verso la patria, si fermò a Poitiers, attrattovi dalla presenza di Radegonda, già regina dei Franchi, che viveva colà in un monastero — il monastero di Santa Croce — da lei fondato.
Legatosi di viva amicizia sia con lei che con la figlia spirituale di lei, Agnese, che era la badessa di quel monastero, si stabili nella città, dalla quale non si mosse più, rimanendovi fino alla morte. Divenuto presbitero negli ultimi anni della sua vita, fu poi elevato a vescovo di Poitiers, qualche anno prima della morte. Gli scritti. Fra gli scrittori del suo secolo, Venanzio Fortunato è forse quello che ha più familiarità con la lingua latina e ce lo dimostra nelle sue opere, scritte tutte dopo la partenza dall'Italia.
Cominciò a far conoscere la sua facilità a comporre versi durante il viaggio in Gallia: ospite di re e di personalità delle regioni che andava attraversando durante il viaggio, i quali erano lieti di averlo come invitato di riguardo, egli si sdebitava con loro a mezzo dei suoi carmi, per lo più di carattere adulatorio per i suoi ospiti.
Come esempio di questi carmi si può leggere l'epitalamio scritto per le nozze del re Sigeberto con Brunichilde (Misc., VI, 2), nel quale Fortunato fa anche sfoggio della sua cultura classica; sono Venere e Cupido che sovrintendono alle nozze, mentre la primavera tutt'intorno, col suo risveglio dopo la stasi invernale e lo sbocciare dei fiori, rallegra la festa. I suoi carmi di questo periodo nascono dalla sua estemporaneità e facilità nel far dei buoni versi, come risposta affrettata a chi gli scrive da ogni parte della Gallia e dalla sua propensione all'improvvisare per una qualsiasi occasione, come ad esempio per un convito; la sua, quindi, è spesso una poesia nata da circostanze varie.
Uno dei generi letterari di cui Fortunato ci ha lasciato numerosi esempi è l'epitaffio, che egli adopera a fine esortatorio; egli ha scritto epitaffi per diverse persone, di solito vescovi o gente di alto rango. Un esempio di epitaffio, fra i migliori che egli ha scritto, è quello di Vilitute, moglie di un Dagaulfo nato da nobilissima progenie, la quale morì di parto a diciassette anni. La figura di lei ci ricorda, anche se da lontano, quella di Radegonda; tutte e due di origine barbara, a contatto con la società gallo-romana ne accolsero la cultura: «Generata nella città di Parigi, da sangue di nobili, fu romana per lo studio, barbara per la stirpe».
Fortunato è anche scrittore di carmi religiosi: sono sicuramente suoi gli inni Vexilla regis e Pange lingua, per i quali rimando a quanto si dirà infra a p. 32. Altri inni gli sono stati attribuiti, ma per gli studiosi essi sono spuri.
Un carme a carattere religioso è il poemetto De Virginitate (Misc., VIII, 6), scritto per la badessa Agnese, nel quale le è portata ad esempio Radegonda, la cui virtù le avrebbe dovuto servire come un modello da imitare. Vi si fanno le lodi della castità e vi si annunziano le ricompense che il cielo darà alle vergini; si fa il confronto tra lo stato della donna sposata e quello della vergine, la cui condizione è da preferire, sia per i meriti ad essa propri, sia a causa delle tribolazioni e delle pene che si accompagnano al matrimonio.
A proposito della sua poesia religiosa è stato scritto che «noi siamo qui in presenza della sola parte di Fortunato che sia veramente rimasta... Credente vero, anima pia, egli non ha scritto per scrivere, per far piacere, per ringraziare o per domandare.- egli ha scritto per manifestare qualcosa che sentiva veramente».