I Padri costituiscono ancora oggi un indispensabile punto di riferimento per l'esperienza cristiana. Autorevolmente è stato detto che «i Padri sono una struttura stabile della Chiesa» (Giovanni Paolo II) e che «il ritorno ai Padri della Chiesa fa parte di quella risalita alle origini cristiane, senza la quale non sarebbe possibile attuare il rinnovamento biblico, la riforma liturgica e la nuova ricerca teologica auspicabile dal Concilio Ecumenico Vaticano II» (Paolo VI). Testimoni profondi e autorevoli della più immediata tradizione apostolica, per la partecipazione diretta alla vita della comunità cristiana, in loro la tematica pastorale è ricchissima, lo sviluppo del dogma illuminato da un particolare carisma, la comprensione delle Scritture guidata dallo Spirito. La penetrazione del messaggio cristiano nel contesto socio-culturale della loro epoca, imponendo la trattazione di problemi i più vari e scottanti, porta in loro alla indicazione di soluzioni che si rivelano per noi straordinariamente attuali. Di qui, il «ritorno ai Padri», con una iniziativa editoriale che cogliesse le esigenze più vive, e talvolta anche più dolorose, in cui si dibatte la comunità cristiana di oggi, illuminandole alla luce delle prospettive e delle soluzioni che i Padri offrirono alle loro comunità. Il che può, oltretutto, costituire un criterio di certezza, in un momento in cui forme di malinteso pluralismo possono ingenerare dubbi e incertezze nell'affrontare vitali problemi.
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
1. Ezechiele nell'esegesi origeniana
« Un tempo ero pieno di ammirazione per Isaia, prima di confrontarlo con Ezechiele e mi stupivo di queste parole: "Udite la parola del Signore, principi di Sodoma; porgi le orecchie alla legge del Signore, popolo di Gomorra" (Is. 1, 10)... Diceva infatti queste cose pur potendo scegliere tra il parlare e il tacere... Che cosa insomma fa sì che io ammiri Ezechiele? Il fatto che essendogli stato comandato di rivelare e far conoscere a Gerusalemme le sue abominazioni, non considerò il pericolo che avrebbe corso in seguito alla stia predicazione, ma ebbe gli occhi fissi solo all'osservanza dei comandi di Dio » (Om. VI, 1).
Una così preziosa confidenza di Origene sembrerebbe non trovare riscontro nel numero di omelie — appena quattordici — dedicate a questo profeta, come frutto della sua predicazione a Cesarea dopo la partenza definitiva da Alessandria nel 232, ma composte solo tra il 244 e il 245. [...]
Anche Ezechiele seguì la sorte degli esuli. Tra i Oriente, suoi sfortunati compatrioti egli svolse per oltre vent'anni la sua missione profetica, con lo scopo di far riflettere la sua gente sul castigo di Dio, inflitto ad essa per le colpe dei padri, e di avviarla alla conversione del cuore cioè alla pratica dei precetti del Signore come,condizione di un patto nuovo tra Jahvè e i dispersi, divenuti «il resto d'Israele» salvato.
Ma poiché egli era stato costituito « sentinella della casa d'Israele » (Ez. 3, 16; 33, 7), la sua missione doveva aver sempre l'occhio rivolto, come la faccia degli esuli, ai Giudei rimasti in patria e alla città di Gerusalemme dove si giocava il destino di tutto un popolo. Colà infatti si erano diffuse alcune false concezioni religiose, alimentate per giunta da pseudoprofeti che la voce di Geremia cercava invano di dissipare. Si ammetteva la schiavitù come un castigo di Dio, ma temporaneo, per le colpe dei padri: scontate queste con gli anni di cattività, doveva quanto prima essere ristabilita l'unità d'Israele. Inoltre, nell'osservanza cultuale si erano infiltrate le divinità del vicino Egitto, considerato come un possibile alleato in vista d'una futura ribellione. Questa alla fine scoppiò, ma Nabucodonosor sconfisse gli Egiziani, assediò per diciotto mesi Gerusalemme finché essa nel 587 cadde, il tempio fu distrutto, il debole re Sedecia seguì in esilio quasi tutta la sua gente, che si unì a quanti si trovavano già da dieci anni sulle rive dell'Eufrate.
Siffatta catastrofe storica veniva a confermare la profezia di Ezechiele costantemente basata sulla denuncia delle colpe commesse da Israele in un'assurda progressione, sulla inevitabilità del castigo divino come atto di giustizia e non di vendetta, e sulla responsabilità delle classi dirigenti sia politiche che religiose.
Ancorandosi a questo quadro storico e ai capisaldi della teologia ezechieliana, sorgeva spontanea per Origene la necessità di sviluppare nella sua predicazione tutta la dinamica del peccato e, spiritualizzando gli eventi, mostrare l'Incarnazione come l'attuazione della misericordia di Dio che ricostruisce nell'uomo peccatore, a guisa di nuovo tempio, la sua immagine con il dono rinnovato della grazia. Infine, come Ezechiele annunziava la restaurazione messianica ed escatologica, così Origene delinea contemporaneamente la costruzione ideale d'una Chiesa nei suoi presupposti temporali e spirituali.
Nel capitolo 16, così focale, del libro di Ezechiele, il profeta ricapitola le tappe dell'amore di Jahvè per la sua sposa, Gerusalemme; un amore inalterato nonostante le sempre più gravi colpe e l'ostinazione nel peccare, per contrapporre la fedeltà all'infedeltà, la bontà alla malizia, la divina economia di salvezza ai meschini piani umani e, in ultima analisi, Dio all'antico avversario: Satana, la causa prima della rovina d'ogni anima. Tutto ciò perché Israele riconosca il suo Signore di sempre.
Si direbbe che l'esegesi di Origene, con l'analisi quasi anatomica del peccato, sia l'immagine speculare, se pur tutta sua, dell'icastico quadro ezechieliano.
Lo sguardo prediletto di Dio su quella neonata nuda e abbandonata (Ez. 16, 4-7) è figura del battesimo che ha rigenerato l'anima umana imprimendole l'immagine del Creatore: «L'anima che risorge dal peccato e come prima cosa è generata nel battesimo, viene avvolta in fasce » (Om. VI, 6).