INTRODUZIONE
Subito si noterà che Gregorio in questo secondo libro delle sue Omelie su Ezechiele, dal capitolo 4 salta al capitolo 40. Perché questo salto? Trovandosi nell'impossibilità di commentare l'intero libro del profeta, il popolo gli aveva espresso il desiderio che spiegasse almeno l'ultima visione, la più oscura. Poteva egli non tenere conto di tale desiderio? Ma due motivi lo trattenevano: l'oscurità della visione e la notizia che Agilulfo re dei Longobardi, passato ormai il Po, a grandi passi si avvicinava a Roma per cingerla d'assedio. Tuttavia Gregorio sa che non gli mancherà l'assistenza della grazia divina, e se le sue preoccupazioni tendono a deprimerlo, i desideri del suo popolo lo innalzano come ali. Oscura è la profezia che vuole commentare, ancor più oscura è l'ora che vive, perciò egli si accinge ad intraprendere un viaggio notturno avanzando a tentoni.
1. L'intelligenza spirituale
La profezia è una luce nelle tenebre. Dio si serve del tempo per gettare le radici della sua parola nel cuore degli uomini: è da queste radici che germogliano i frutti spirituali. Ritorna qui l'immagine della «radice» e quella del «frutto» che già notammo all'inizio del I libro. Ma là l'insistenza era sul valore della radice, qui sulla necessità di cogliere il frutto. Dal senso letterale è necessario passare subito a quello spirituale. «Nella Sacra Scrittura, di solito, anche le cose che si possono prendere alla lettera vanno intese in senso spirituale. di modo che si ha la fede nella verità storica e si coglie l'intelligenza spirituale dalle figure allegoriche. (...) Se dunque, quando alla storia manca qualcosa, siamo costretti a ricorrere all'interpretazione allegorica, tanto più si devono prendere in senso spirituale quei fatti che presi alla lettera, non hanno alcun fondamento storico».
Verso la fine, nell'ultima omelia, vien fuori una immagine potente e suggestiva.Gregorio paragona la Scrittura alla pietra in cui è nascosto il fuoco. La pietra focaia, finché si tiene fredda ma percossa con un ferro sprizza scintille. Così le parole della Scrittura, finché ci si limita al senso letterale, rimangono _fredde, ma se uno le percuote - con intelligenza profonda e ispirato da Dio - sprizzano scintille capaci d'incendiare il cuore.
2. Lettura personale e comunitaria
Quella frase indimenticabile che Gregorio scrisse al medico Teodoro, suo amico: «Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio». era frutto di una lunga esperienza. Come monaco la sua occupazione principale era la meditazione della parola di Dio, che lo aveva condotto all'esperienza di Dio come amore. Dio rivolge la sua parola all'uomo perché lo ama, perché lo considera un amico al quale aprire il proprio cuore. Dio è il primo a rivolgere la parola perché è il primo ad amare. Come risposta alla sua parola, nasce quel dialogo personale e intimo che è la preghiera.
Gregorio nelle Omelie su Ezechiele confida ai fedeli la sua esperienza di Dio legata all'assidua lettura personale della Bibbia: «Spesso però, per grazia di Dio onnipotente, certi passi del testo sacro si comprendono meglio quando si legge la parola di Dio segretamente. L'animo allora, consapevole delle sue colpe, mentre riconosce ciò che ha ascoltato, è colpito con la freccia del dolore e trafitto con la spada della compunzione, cosi che non prova altro gusto che piangere e lavare i peccati con fiumi di lacrime. E un frammento autobiografico che ci consente di cogliere I azione profonda che la parola di Dio svolge in un'anima. La parola che è rivolta a tutti, rivolta a ciascuno, come se fosse unico, suscitando una risposta inconfondibile. La parola di Dio è rivolta a ciascuno, cosi come e rivolta a tutta la Chiesa, e dice a ciascuno «ciò che interessa la sua vita» - pro vita tua, scrive Gregorio a Teodoro nella lettera appena citata. Dio ha parlato una volta sola, e tuttavia la sua parola rimane attualissima e non cessa di raggiungerci nella sua pienezza: essa è interamente per ciascuno di noi, anche se non si esaurisce in nessuno di noi e da nessuno di noi può essere compresa in tutta la sua ricchezza.
Accanto a questa esperienza personale della Parola, c'è l'esperienza comunitaria, o meglio ecclesiale, che Gregorio si preoccupa di mettere in risalto. Questa esperienza risale all'epoca di Costantinopoli, quando i suoi monaci e Leandro di Siviglia gli chiesero con insistenza di spiegare il libro di Giobbe. In un primo momento egli rimase spaventato di fronte alle enormi difficoltà che il testo presentava, ma la certezza che «quanto esigeva l'affetto di cuori fraterni non poteva essere impossibile», vinse in lui ogni esitazione. Quella fu la prima esperienza di una lettura meditata coram fratribus, considerata come una ricerca comune, un bussare insieme alla porta del Signore.
Un atteggiamento simile a quello di Agostino, il quale, salendo in cattedra per insegnare come vescovo, si considerava sempre «condiscepolo» insieme con i suoi fedeli, sotto l'unico Maestro e nella medesima scuola. In seno alla comunità dei fratelli viene alla luce ciò che nella meditazione solitaria rimaneva oscuro: «So infatti - confida Gregorio papa - che per lo più molte cose della sacra Scrittura, che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli. (...) Ne consegue, per dono di Dio, che il senso cresce e l'orgoglio diminuisce, quando per voi imparo ciò che in mezzo a voi insegno; perché - è la verità - per lo più ascolto con voi ciò che dico». E confessa che, per un dono di Dio, mentre aumenta in lui la comprensione della parola di Dio, diminuisce la presunzione; poiché risulta evidente che quanto gli viene donato, gli è donato a vantaggio di coloro che cercano insieme con lui; egli quindi non può considerare un possesso privato ciò che gli vien dato ad utilità comune 8.