Il Cristo nelle scuole
(Collationes) [Libro in brossura]EAN 9788831118026
Già dall’Introduzione si percepisce il taglio specialistico dell’argomento: una breve panoramica sugli autori e un excursus storiografico presentano le controversie cristologiche e trinitarie del XII secolo. Si presenta il pensiero dei cinque autori che hanno segnato il periodo a cavallo dei secoli XI e XII: Anselmo d’Aosta, Ruperto di Deutz, Ugo di San Vittore, Abelardo, Gilberto Porreta. È ovvio che nel dibattito, per completezza d’informazioni, pur non trattandone in modo specifico, Pierfrancesco De Feo faccia “entrare” altri “giganti” del pensiero medievale: Severino Boezio, Guglielmo di Champeaux, Bernardo di Chiaravalle, Pietro Lombardo.
Il Capitolo primo tratta della cristologia di Anselmo d’Aosta, il massimo esponente della teologia monastica della seconda metà dell’XI secolo. Nel suo Cur Deus homo intende dimostrare che senza un uomo-Dio la salvezza dell’umanità sarebbe stata impossibile. La rilettura dell’opera è consigliata oggi in quanto l’assunto di Anselmo è riconosciuto «sul piano di una razionalità che parte dalla fede, perché si rivolge a ebrei e musulmani, dunque a credenti in un Dio unico e creatore dell’universo». Presupponendo la fede nell’esistenza di Dio, la ragione non crea la necessità dell’incarnazione, ma la mostra passo dopo passo. L’uomo, asserisce Anselmo, è stato creato per il bene e il sommo bene è Dio. Dunque è giusto che egli sia immortale e che il suo fine intrinseco sia la beatitudine. Questo progetto non può essere compromesso neanche dal peccato, perché se Dio non portasse a compimento la sua opera, sarebbe inutile averla intrapresa. Dio può espiare il peccato dell’uomo, ma solo l’uomo ha il dovere di farlo. Se è necessario portare a compimento la beatitudine umana e ciò non può avvenire che attraverso l’azione simultanea di Dio e dell’uomo, è necessario che colui che è incaricato di compiere la satisfactio sia un uomo-Dio. Con chiarezza De Feo illustra la soteriologia di Anselmo analizzando le categorie di obbedienza, misericordia e giustizia confluenti nell’«unico sacrificio» (Eb 10,14). Il capitolo si chiude col paragrafo di cristologia dogmatica e l’Epistula de incarnatione Verbi nella quale Anselmo approfondisce l’analisi della statuto ontologico di Cristo, chiarendo anzitutto perché il Figlio, tra le persone della Trinità, si è incarnato. Le ragioni soteriologiche e antropologiche si congiungono con la verità dogmatica e conducono alla medesima conclusione: Gesù deve essere Dio e vero uomo perché altrimenti non potrebbe essere il redentore dell’uomo e del cosmo.
Il Capitolo secondo dedicato a Ruperto di Deutz (fine XI e inizio XII secolo), tratta prima della cristologia e poi della soteriologia. La tematica dell’unione delle due nature nell’unità della persona di Cristo viene affrontata analizzando il De sancta Trinitate et opera eius e nei Commentaria in Canticum canticorum. L’arianesimo, il nestorianesimo e l’apollinarismo sono colpiti dagli strali polemici di Ruperto. Sullo sfondo del pensiero è evidente la presenza della regola dialettica del commento boeziano a Porfirio e della metafisica di Boezio. Ciò traspare anche quando affronta la problematica della natura divina del Cristo. L’umanità di Gesù è l’elemento complementare nel quale e per mezzo del quale si compie l’opus proprium del Figlio. Nel ribadire questa verità Ruperto ritorna alla concretezza delle analogie con il mondo creato e in diverse occasioni basa la sua esegesi sul rinvenimento di regole grammaticali e di figure presenti nel testo sacro. Molto bello è il paragrafo dedicato alla «questione eucaristica» (p. 101). Ruperto si occupa dell’eucaristia già quando è monaco a San Lorenzo di Liegi. De Feo riporta il dibattito legato all’eucaristia, eco della polemica del secolo precedente che aveva visto contrapposti Lanfranco di Pavia e Berengario di Tours. Il tema è sviluppato in una trentina di pagine ricche di citazioni e De Feo mirabilmente sintetizza: «La messa è un atto di ringraziamento a Dio Padre attraverso Cristo nello Spirito Santo. Il Cristo che si offre in tale atto di ringraziamento è il Christus totus, capo e membra, cioè il Signore Gesù e coloro che credono in lui». La teologia eucaristica di Ruperto di Deutz rimarca, con la centralità del sacrificio vivente dell’Agnello di Dio, la concretezza dell’incarnazione. Nella storia della teologia Ruperto è stato spesso considerato il primo sostenitore della tesi «dell’incarnazione incondizionale», secondo cui il Verbo di Dio, indipendentemente dal peccato dell’uomo, si sarebbe incarnato. In realtà a Ruperto interesserebbe non tanto la questione della dipendenza dell’incarnazione dal peccato, quanto, come scrive Magrassi citato da Feo: «la necessità di una economia redentiva sacrificale introdotta dal peccato» (p. 131).
Il Capitolo terzo s’interessa della cristologia di Ugo di San Vittore. Guglielmo di Champeaux nel 1108 fonda la Scuola di San Vittore a Parigi, il cui più significativo maestro, Ugo, riprenderà nelle originali categorie del suo pensiero la cristologia anselmiana. Vista l’enorme produzione letteraria di Ugo di San Vittore, De Feo sceglie di analizzare prima le opere esegetiche, poi le opere dogmatiche monografiche e infine le opere dogmatico-sistematiche. Nel De arca Noe morali e nel De arca Noe mystica, opera mistico-allegorica, il simbolo cristologico principale è la colonna che sostiene l’intera struttura dell’arca: essa è l’albero della vita piantato nel mezzo del Paradiso. I due lati della colonna rappresentano lo stretto legame che Ugo evidenzia tra le due nature di Cristo. La divinità, infatti, inabita in Cristo in modo così reale che si può giungere ad affermare che l’uomo è Dio. L’anima di Cristo, però, risulta essere soggetto di azioni che scaturiscono dalla perfezione degli attributi divini: per questo è onnisciente, pur restando l’anima di un uomo. L’indipendenza dell’anima non è in contrasto con l’unicità dell’individuo Gesù: l’anima umana di Gesù è la stessa persona del Verbo. Ugo espone le sue teorie in merito, nel De sapientia animae Christi e nel De sacramentis. Ulteriori elementi di dimostrazione sono forniti dalla seconda collatio del piccolo trattato De Verbo incarnato. Nel paragrafo «la questione eucaristica», alla luce delle opere già trattate, si presenta la chiesa come luogo privilegiato della presenza del Signore che dona il suo corpo, che però a nulla giova se la ricezione materiale non è accompagnata da quella spirituale. L’ottava parte del II libro del De sacramentis è dedicata alla dottrina eucaristica e alla dimostrazione di questa necessaria connessione tra i due aspetti della ricezione sacramentale. La soteriologia del maestro di San Vittore, nella sua fedeltà al Cur Deus homo di Anselmo, propone il Cristo quale modello della coincidenza in Dio di giustizia e misericordia, operata su una base di libertà.
Il Capitolo quarto è dedicato alla figura “drammatica” di Abelardo che agli inizi del XII secolo scrive le sue opere teologiche più note. Il grande maestro di logica, rinomato per la sua sfortunata storia d’amore con Eloisa, nell’esposizione del suo pensiero si scontra con Guglielmo di Saint-Thierry e Bernardo di Chiaravalle. De Feo, anche qui sceglie un metodo di suddivisione tra opere teologico-sistematiche (Theologia christiana e Theologia scholarium), opere liturgico-omiletiche (la raccolta dei Sermones e l’Expositio symboli) e Apologia. Dalla principale opera a carattere esegetico di Abelardo, i Commentaria in Epistolam Pauli ad Romanos, è possibile desumere la controversa dottrina soteriologica di Abelardo. La concezione abelardiana dell’unione ipostatica è costantemente segnata dal tema dell’immutabilità del divino, da cui consegue l’impossibilità di intendere l’incarnazione come un moto locale del Verbo nel grembo della Vergine: Dio è in ogni luogo, per cui non gli è possibile un moto locale. Abelardo non individua una categoria concettuale adatta a esprimere l’unione ipostatica, tuttavia ricorre a una similitudine tratta dal mondo naturale, per esempio una casa è composta di legna e pietre, che rimangono distinte nelle proprietà che ne caratterizzano le rispettive peculiarità. L’analogia conferma però l’estrinsecismo dell’unione, in quanto l’unità della casa non è presupposta, ma conseguente all’unione delle parti: la metafisica di Ugo dell’unitas viene disattesa. Difatti, Abelardo è condizionato dal suo rigidismo ontologico per cui non esistono opere concernenti l’eucaristia. Nei Commentaria Abelardo sembra voler andare oltre una lettura estrinsecista dell’evento salvifico: Cristo è venuto non soltanto per liberarci dalla servitù del peccato, ma anche per donarci la vera libertà dei figli, che non obbediscono, come i servi, per timore, ma per amore. La Scrittura afferma che Dio liberamente redime i peccatori perché li ama. L’amore esercita un tale primato sulle altre virtù teologali, che alla fede e alla speranza, in questo contesto dell’opera abelardiana, è riservato soltanto un accenno: solo sull’amore si basa ogni remissione dei peccati.
Il Capitolo quinto è dedicato alla cristologia di Gilberto Porreta che la espone nel suo commento al Contra Eutychen et Nestorium di Boezio. Un libro di Sententiae fornisce spunti sulla dottrina eucaristica, mentre si possono rinvenire i tratti della sua soteriologia nell’Epistola ai Romani. Prima di analizzare il rapporto tra la persona e le nature di Cristo, Gilberto, sulla scia di Boezio, si sofferma a lungo sui termini natura e persona. Per Gilberto l’errore di Nestorio deriva proprio da una confusa e incerta acquisizione del significato di tali termini. Nella confutazione all’eutichianesimo la distinzione tra unità e assunzione è la coerente conseguenza della metafisica cristologica gilbertina: le due nature possono unirsi, ma l’una non può assumere l’altra; la persona del Figlio non può unirsi a un uomo concreto, ma può assumerlo. Il Figlio di Dio, in quanto Figlio, consente l’unione tra la sua divinità e l’umanità assunta. De Feo propone un ampio e interessante confronto tra Gilberto e i suoi predecessori: possiamo concludere che la soluzione di Gilberto, vicino alla prospettiva di Abelardo, da una parte presenta il vantaggio di eliminare le spinose problematiche relative alla comunicazione degli idiomi, affrontate sia da Ruperto che da Ugo, ma dall’altra ripropone il rischio di sottoporre in modo eccessivo l’agire divino alle leggi metafisiche, giungendo a negare che la natura divina abbia potuto assumere la natura umana. Un’attenta bibliografia, distinta per capitoli, completa quest’opera che illumina il rapporto tra fede e ragione in età medievale.
Tratto dalla rivista "Aprenas" n. 1-4/2014
(http://www.pftim.it)
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