Il volume inaugura la collana Traditiones diretta da Giulio d'Onofrio dove il testo in lingua italiana è affiancato all'originale latino, ed è corredato da apparato critico, note e originale e ampia introduzione.Nel De Magistro Agostino spiega le contraddizioni e le potenzialità della comunicazione interpersonale orientata a guidare le coscienze a Dio. La nuova edizione critica del testo, alla luce dei più aggiornati studi patristici inquadrano magistralmente l'opera nella riflessione dell'Ipponate e nel pensiero della sua epoca.
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
1. Da Tagaste a Cassiciaco: il racconto delle Confessiones
Sin dalle prime pagine delle Confessiones, Agostino mostra una consapevolezza, a un tempo profonda e tragica, e per certi versi tragica proprio per la sua radicalità e profondità, del bisogno naturale che alberga nell'animo dell'uomo di tendere a una verità che superi la parzialità delle singole percezioni della realtà. Aprendo le Confessiones con un versetto del Salmo 48, Agostino ricorda subito al suo lettore che Dio è «grande e assai degno di lode» («magnus [...] et laudabilis valde»). La grandezza di Dio rende dunque possibile e necessaria una lode (laus), alla quale è lo stesso Dio a chiamare l'uomo che, per natura, è destinato a convivere in modo sofferente con la sua mortalità e a tendere al suo creatore («tu excitas, ut laudare te delectet, quia fecisti nos ad te»).
La particolarità dell'oggetto degno di lode, però, rischia di produrre un profondo fraintendimento: come è infatti possibile affermare la necessità di lodare qualcosa di cui non si ha alcuna conoscenza? Se lo si facesse, si correrebbe il rischio di lodare una cosa sbagliata (aliud pro alio). Il pericolo di tale impasse, che incombe sul percorso personale e intellettuale presentato nelle Con-fessiones sin dalle prime righe, è profondissimo: Dloiodavrae cloiòdacthoe, ma di Dio l'uomo non sa nulla; come Potrà dunque il versetto di un altro Salmo che giunge in soccorso di ignora? È Agostino e del suo lettore: «loderanno Dio quelli che lo cercano» («laudabunt Dominum qui requirunt eum»). Se dunque Dio va lodato e non si può lodare ciò che non si conosce, ma si può lodare Dio cercandolo, ciò significa che il ricercare (quaerere) è il luogo, il modo con il quale l'uomo conosce Dio: «ti cercherò, Signore, chiamandoti dentro di me e ti chiamerò dentro di me credendo in te» («quaeram te, Domine, invocans te et invocem te credens in te»). Agostino descrive dunque la sua condizione di credente come quella del quaerens, colui cioè che è in cerca perché manchevole di qualcosa della cui esistenza è però certo: il quaerere non è infatti il vagare senza meta alcuna; è piuttosto il tentativo di individuare le strade più efficaci per raggiungere la piena conoscenza di un oggetto i cui contorni sono informi ma la cui esistenza non è in dubbio.
Prima di indirizzare la sua ricerca a Dio, dunque, Agostino aveva già intrapreso il suo cercare, orientando però la sua indagine al mondo che lo circondava, ricevendone in cambio solo delusioni, come lui stesso dichiara a conclusione del primo libro delle Confessiones; Agostino cerca piaceri, primati, verità, ma in se stesso e nelle creature, e ne ottiene solo dolori, confusione, errori. Legata al corpo, al mondo, la ricerca umana rimane sterile, anzi, morta: «cosa cercava il mio animo», si chiede Agostino ricordando l'episodio del furto delle pere, se non l'annientarsi («defectum meum»), perché, chiosa, «ho desiderato morire»6? Se ci si interroga, continua Agostino («quaero quid me in furto delectaverit») su cosa ci fosse di attraente in quel furto, non è possibile ignorare che lì, in quella azione, non vi era alcuna bellezza, alcuna forma («species nulla est»)', perché l'uomo che cerca al di fuori di Dio («quaerit extra te») si condanna a non trovare mai cose pure nella loro assolutezza formale. L'uomo sembra così destinato suo malgrado a una sorta di ricerca permanente, che vaga, sterile, tra amori peccaminosi («veni Carthaginem et circumstrepebat me undique sartago flagitiosorum amorum») e che Agostino, al principio del terzo libro delle Confessiones, descrive con titanica angoscia («quaerebam quid amarem, amans amare») quasi a sottolineare un'esigenza assoluta, un desiderio che, nella sua energia non focalizzata su un punto, su una meta, si consuma nel suo disperdersi infruttuoso, condannandosi alla ricerca quasi consapevole del dolore: «ma io allora, misero, amavo soffrire, e cercavo qualcosa che mi facesse soffrire» («at ego tunc miser dolere amabam, et quaerebam ut esset quod dolerem»). Se il desiderio, l'amor che Agostino avverte dentro, sin dall'adolescenza, lo spinge al quaerere, tale quaerere si qualifica, vale a dire si esalta o si mortifica a seconda dell'oggetto cui si rivolge; se unico è il movente, dunque, non unica è la strada né tutte le strade possibili sono egualmente valide.
Agostino lo sperimenta direttamente, nella quasi contemporaneità di due esperienze. Il senso del suo quaerere appare infatti esaltato sopra ogni altra bassezza nella lettura dell'Hortensius di Cicerone e, più in generale, nel coltivare l'amor sapientiae che con nomen graecum viene detto 'filosofia'; lì Agostino avverte la possibilità di amare, cercare (quaerere), seguire e infine possedere la vera sapienza. Poco dopo, però, quello stesso amor lo spinge verso le fabulae manichee, di nuovo, colpevolmente legato alla carne («secundum sensum camis quaerere»). Gli stessi manichei, infatti, pur impe_ gnati nel quaerere, lo rivolgono alle indagini sui fenomeni celesti e, più in generale, sembrano deliberatamente ignorare il principio e il fine della loro ricerca: «non cercano in modo devoto da dove provenga loro l'ingegno, con il quale cercano» («non religiose quaerunt, unde habeant ingenium, quo ista quaerunt»)u. Se infatti essi riescono ad affermare, sul creato, molte cose vere, la loro ricerca (quaerere) non procede secondo la giusta devozione e dunque manca loro il risultato più importante: la verità'.
Agostino avrebbe abbandonato dopo diversi anni la fede manichea ma non la consapevolezza della identità perennemente bipartita delle pulsioni interiori che a essa lo avevano condotto, delle forze che lo dilaniavano perché tese al contempo al rifiuto e al diletto del mondo". La carne, la corporeità, íl saeculum: il legame con il sensibile continua ad angosciare Agostino e a orientarne negativamente il quaerere. Pur libero infatti dalle pastoie della metafisica 'sensista' manichea, pur convinto che Dio sia incorruttibile, Agostino ricorda, nella ricostruzione ex post del suo percorso contenuta nelle pagine delle Confessiones, che in quegli anni di dubbi tormentosi non era arrivato, con la sua ricerca, a concludere con certezza che Dio non fosse qualcosa di corporeo (corporeum aliquid) che, per essere pensato, avesse bisogno di una sua non meglio identificata estensione"; per questo, la domanda sull'origine del male, che lo aveva prima legato ai Manichei e poi definitivamente allontanato, non sembra abbandonarlo: come è possibile non accusare Dio di aver prodotto (o lasciato essere) il male senza prima superare l'idea che egli sia corporeo e, dunque, corruttibile? («quaerebam unde malum, et male quaerebam et in ipsa inquisizione mea non videbam malum»).
Agostino sembra dunque comprendere che, tanto personalmente quanto speculativamente, l'ostacolo che mortifica l'ultima, definitiva promozione del suo quaerere è l'incapacità di svincolarsi dal sensibile per giungere a quella intuizione del vero che può realizzarsi solo quando l'occhio riesce a sollevarsi dall'orizzonte dell'immanenza.