La preghiera cristiana per eccellenza, nell'ormai classico commento del grande scrittore alessandrino. L'alessandrino Origene è uno dei più originali Padri della Chiesa di lingua greca. Tra i suoi numerosissimi scritti figura anche il celebre Commento al Padre Nostro, nel quel l'Autore si propone di "considerare quanta potenza racchiuda la preghiera suggerita dal Signore", come egli stesso dichiara programmaticamente nell'incipit. Un testo nel quale Origene dispiega tutta la sua finissima sapienza esegetica e manifesta il suo pensiero. In particolare trova piena espressione il suo ottimismo pastorale che prevede la salvezza finale di tutti: "Il peccatore, infatti, dovunque si trovi, è terra in cui in qualche modo si trasformerà se non si pente; chi invece fa la volontà di Dio e non trasgredisce le spirituali leggi di salvezza, è cielo".
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
L'ESEGESI ORIGENIANA DEL PATER
Nell'accingersi al commento, petizione dopo petizione, della preghiera del Signore, Origene compie un excursus di carattere filologico sul contesto delle due diverse redazioni del Pater, quella di Matteo più esplicita e quella più sintetica di Luca, per concludere trattarsi di due preghiere diverse aventi «alcune parti in comune» (cap. I, 3). Subito dopo analizza il contesto immediatamente precedente alla versione di Matteo che egli sceglie per la sua esegesi; è un'occasione per sottolineare anche come non bisogna pregare, mostrando che esiste la preghiera dell'esibizionista, quella del dilettante e quella del logorroico, mentre la vera preghiera è di chi «ama la preghiera» (cap. III, 1).
Ciò che caratterizza il cristiano è la libertà — la paolina parrhesía — di rivolgersi a Dio chiamandolo Padre, in virtù della figliolanza donata in Cristo Gesù. E lo Spirito, che si è ricevuto, di figli adottivi fa sì che ci si astenga dal peccato e non si abbia più nessuna comunione con Satana. Come si vede, Ori-gene scende subito nel campo esclusivo della morale, manifestando la sua piena attenzione per l'anima dell'uomo. Ed interpretando i «cieli» del «Padre nostro» come un luogo metafisico e spirituale, cioè lo stato di grazia dei santi, scrive: «Chiunque pecca si nasconde a Dio e sfugge alla sua ricerca e si allontana dalla sua presenza» (cap. VI, 4).
Parimenti, chiedendosi il significato dell'invocazione: sia santificato il tuo nome, dice: «Esalta inoltre Dio colui che dedica un'abitazione in se stesso» (cap. VII, 4).
Così, l'atteso regno di Dio è un regno tutto interiore: «E credo si intenda per regno di Dio una condizione di beatitudine dell'anima superiore e l'ordine dei saggi pensieri, e per regno di Cristo si intendano i discorsi a salvezza di chi li ascolta e le perfette opere di giustizia e delle altre virtù» (cap. VIII, 1). Donde l'accento parenetico così frequente nelle omelie di Origene: «Se dunque vogliamo essere sudditi di Dio "non regni affatto il peccato nel nostro corpo mortale" (Rm 6, 12), né prestiamo ascolto agli inviti del peccato che chiama la nostra anima alle opere della carne e alle cose non di Dio; ma facendo morire "le membra che sono sulla terra" (Col 3, 5), portiamo i frutti dello Spirito» (cap. VIII, 3).
Operando, infine, delle modulazioni bibliche sui termini «cielo» e «terra» in riferimento al compiersi della volontà di Dio, Origene afferma che l'uomo santo possiede già il cielo mentre ancora si trova sulla terra: «Colui che sta ancora sulla terra, ma ha la cittadinanza nel cielo e lassù ammassa tesori poiché ivi ha il suo cuore esorta l'immagine del Celeste, non per il posto che occupa egli non è più sulla terra, ma per le sue disposizioni interiori; e non appartiene al mondo di quaggiù, ma del cielo e di un mondo celeste migliore di quello» (cap. IX, 5). All'opposto, il peccatore è terra che può diventare cielo; Origene lo dice col suo ottimismo pastorale che prevede la salvezza di tutti: «Il peccatore, infatti, dovunque si trovi, è terra in cui — data questa affinità — in qualche modo si trasformerà se non si pente; chi invece fa la volontà di Dio e non trasgredisce le spirituali leggi di salvezza, è cielo. Sia che quindi siamo ancora terra a motivo del peccato, preghiamo che anche su di noi si estenda così la volontà di Dio disposta ad emendarci, come toccò a quelli che prima di noi furono fatti cielo o sono cielo; e se agli occhi di Dio noi non siamo più considerati terra, ma cielo, chiediamo perché, a somiglianza del cielo, anche sulla terra — cioè sui cattivi — si compia la volontà di Dio in ordine a quel permutarsi della terra in cielo, per cui non esista più terra ma tutto diventi cielo» (cap. IX, 6).
Venendo ora alla petizione centrale del Pater, con cui l'orante chiede per sé il pane supersostanziale costatiamo come, secondo Origene, si debba escludere ogni richiesta a Dio di beni materiali: ciò fanno solo «i pagani che non hanno l'idea delle cose grandi e celesti da domandare» (cap. IV, 1). È significativo innanzitutto che Cristo stesso comandi di chiedere un pane diverso da quello comune ed utile soltanto al corpo: «Poiché certuni pensano che noi siamo invitati a chiedere il pane per il corpo, è giusto che, rimossa subito la loro erronea opinione, stabiliamo la verità sul pane sostanziale. Bisogna rispondere a costoro perché mai Colui che dice di chiedere cose celesti e grandi — non essendo celeste il pane che ci viene dato per la nostra carne né grande preghiera è quella di chiederlo — ordini di elevare al Padre la supplica per quello che è terreno e piccolo, come se Dio secondo loro si fosse dimenticato dei suoi insegnamenti» (cap. X, 1).
Inoltre il pane per il nutrimento corporale non è il vero pane: «E il pane vero è quello che ciba l'uomo vero, fatto a immagine di Dio, e chi se ne nutre diventa persino simile al Creatore. Per l'anima, che cosa c'è di più nutritivo del Verbo? Per la mente che la riceve, che cosa di più prezioso della sapienza di Dio? Che cosa ha maggior affinità con la natura razionale, se non la verità?» (cap. X, 2). Per il fatto d'essere un cibo per l'anima, si dovrà chiamarlo «supersostanziale»: «Pane supersostanziale è dunque quello adattissimo alla natura razionale ed affine alla stessa sostanza, recante salute e vigore e forza all'anima, e rendendo partecipe della propria immortalità — immortale è infatti il Verbo di Dio chi se ne ciba» (cap. X, 9). Anche qui il pensiero di Origene corre, per antitesi, al peccatore che si ciba del pane velenoso di Satana: «Chi dunque, partecipando del pane supersostanziale, rafforza il cuore, diventa figlio di Dio; colui invece che si pasce del serpente, non è diverso dall'Etiope spirituale, ed è mutato lui stesso in serpente a causa dei lacci dell'animale» (cap. X, 12).
Nel commento alla supplica per la remissione di tutti i debiti che abbiamo e di cui Origene stila una lunga casistica, spicca nel Maestro alessandrino una grande comprensione pastorale che gli fa scrivere: «Ora, se alcuni dei moltissimi nostri debitori si fossero mostrati piuttosto trascurati nel rimettere quanto ci devono, saremmo portati a trattarli con indulgenza e senso di umanità, memori dei numerosi personali debiti in cui fummo negligenti, non solo verso gli uomini, ma anche verso Dio stesso. Ricordandoci infatti di non aver pagato i debiti che avevamo, anzi di aver commesso una frode essendo passato il tempo in cui bisognava che li avessimo estinti nei riguardi del nostro prossimo, saremo più larghi verso coloro che erano nostri debitori e non hanno soddisfatto il debito» (cap. XI, 6). Chi, se non un vero maestro d'anime, direbbe: «Non siamo aspri verso quelli che non si pentono: costoro fanno del male a se stessi... Ma anche in questi casi, occorre procurare di avere ogni attenzione per chi è completamente traviato da non accorgersi dei propri mali, ma è colmo di una ubriachezza più perniciosa di quella causata dal vino: l'ubriachezza da tenebra del male» (cap. XI, 7)?
Passando all'ultima richiesta del Pater, Origene intende risolvere il nodo che essa presenta: «Che significa dunque il comando del Salvatore di pregare a non indurci in tentazione, dal momento che Dio stesso quasi ci tenta?» (cap. XII, 3). La stessa speranza del cristiano è tentata al pensiero che nemmeno gli Apostoli, gli amici del Signore, furono risparmiati dalla tentazione: «Ora, non avendo gli Apostoli ottenuto esaudimento nella preghiera, uno che sia da meno, quale speranza ha, pregando, di essere ascoltato da Dio?» (cap. XII, 4). Se povertà, ricchezza, salute e malattia, gloria e scienza sono indifferentemente a rischio di tentazione, Dio viene direttamente chiamato in causa dall'uomo: «Se infatti è male cadere in tentazione — preghiamo perché non dobbiamo soffrirne —, come non è assurdo pensare che Dio, buono, che non può portare frutti di male, getti uno in braccio ai mali?» (cap. XII, 11). Ecco la risposta di Origene: Dio non c'entra, perché ha creato nella totale libertà l'anima dell'uomo: «Penso che Dio si prenda cura di ciascun'anima razionale, mirando alla sua vita eterna; essa ha sempre il libero arbitrio e può di per sé trovarsi nella condizione ideale per salire fino alla vetta del bene o a discendere in vario modo, a causa della negligenza, a questo o a quell'abisso di male» (cap. XII, 13).
Ammiriamo piuttosto quale stupenda pedagogia di Dio si nasconda sotto la tentazione. Origene lo dice con una finissima analisi psicologica: «Ora, poiché una guarigione rapida ed accelerata produce in certuni un senso di leggerezza sulla gravità del male in cui sono caduti, perché ritenuto facile a curarsi, cosicché dopo il ristabilimento potrebbero piombare una seconda volta nella malattia; logicamente, in campo spirituale, Dio trascurerà quel crescere fino ad un certo punto del male, permettendo che trabocchi moltissimo come fosse inguaribile, affinché con questa stasi nel male, con la sazietà del peccato che hanno assaporato, essendo satolli, si accorgano del danno; ed odiando ciò che prima avevano abbracciato, possano con la guarigione godere più stabilmente della salute delle anime loro, venuta dall'essersi curati» (ibid.). La tentazione, insiste ancora Origene sapendo come sia un problema che tocca ognuno di noi, è per la purificazione dí noi stessi: «Lo scopo è di separarvi dalla vita senza più appetiti, ed una volta usciti, come puri da ogni desiderio, ricordando attraverso quali sforzi ve ne siete liberati, far sì che non cadiate più» (cap. XII, 14). Infine la tentazione è rivelazione di noi a noi stessi: «Vi è un'utilità della tentazione, ed è questa. I doni che la nostra anima ha ricevuto sono nascosti a tutti, anche a noi stessi, non a Dio però; per merito delle tentazioni diventano palesi, affinché non sia più tenuto celato il nostro vero essere, bensì conoscendoci percepiamo la nostra cattiveria — qualora intendessimo percepirla — e ringraziamo per le grazie che ci sono apparse nelle tentazioni» (cap. XII, 17).
La conversione dell'anima, operata dalla salutare tentazione, diventa allora una risposta dell'uomo alla paziente attesa dí Dio: «Dio non vuole che uno riceva del bene per costrizione, ma volontariamente; forse alcuni, per la loro lunga consuetudine col male, a stento ne avvertono il lato ripugnante e a malapena lo ricacciano perché erroneamente lo scambiano per la bellezza» (cap. XII, 15).
Il solo Matteo contiene come finale della preghiera del Signore un'invocazione esplicita, insita già certamente nella precedente: «Ma liberaci dal maligno» (Mt 6, 13). Quale ne sia il significato, Orígene così spiega: «Ora Dio ci libera dal Maligno non quando il nemico in guerra con noi ci attacca a fondo con qualsiasi insidia e coi ministri della sua volontà, ma quando ne usciamo vincitori perché ci ergiamo virilmente di fronte alle occasioni di lotta» (cap. XIII, 1).
Il nostro commento al Pater è suggellato da quest'immagine incisiva del cristiano che esce vittorioso dalla tentazione per ergersi trionfante sulla potenza di Satana, il nostro avversario che è sempre stato presente nella meditazione del grande Alessandrino. Origene aveva, all'inizio della sua esegesi, dichiarato programmaticamente di voler con essa «considerare quanta potenza racchiuda la preghiera suggerita dal Signore» (cap. I, 1). Orbene, se la preghiera, come lo può attestare la prassi quotidiana di innumerevoli oranti, è comunione con Dio, quale orazione se non il «Padre nostro» contiene un genere di suppliche che sono la via più idonea di avvicinamento a Lui? Il discepolo di Gesù, recitando il Pater, impara ad esaltare il nome di Dio col dedicargli un tempio nella sua anima (cap. VII, 4); ad instaurare il suo regno col respingere gli inviti di Satana al peccato (cap. VIII, 3); a fare la sua volontà non trasgredendo le leggi di Dio (cap. IX, 6); a privilegiare la richiesta del pane eucaristico (cap. X, 9); a compatire quanti a diverso titolo gli sono debitori (cap. XI, 6-7); a prendere nella tentazione autocoscienza della pro-paci natura di peccatore e della fragilità umana (cap. XII, 17); a trionfare sul grande nemico spirituale, il Maligno (cap. XIII, 1). Tutti questi vantaggi che l'uomo di preghiera consegue, come amarli diversamente se non «potenza» (dùnamis) della preghiera?
E in questa valenza «dinamica» che ci sembra racchiuso il significato dell'insegnamento di Origene sulla preghiera.
La traduzione del De orazione (Perì euchès) di Origene, di cui fanno parte le pagine che seguono, è stata condotta sulla base del testo critico del Corpus di Berlino (Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte...), Origenes Werke, vol. I, Leipzig-Berlin 1899 (ed. Koetschau).
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Giovanni Basile il 3 dicembre 2016 alle 15:58 ha scritto:
Piccolo libretto abbastanza agevole da leggere, anche in un pomeriggio. Il Padre Nostro è la preghiera più importante per qualsiasi cristiano degno di definirsi tale. Il commento di Origine apre orizzonti nuovi, ed è un prezioso contributo sempre attuale nonostante siano passati secoli da quando fu composto.
Dott. DONATELLA PEZZINO il 9 aprile 2024 alle 13:32 ha scritto:
Questa edizione include alcuni capitoli dell'opera "La preghiera" di Origene. Lo scritto è utile non solo come introduzione al pensiero del grande Padre Alessandrino, ma anche come prezioso approfondimento del Padre Nostro, che può così radicarsi in noi più profondamente, agevolando una recita più consapevole e fervente.