In novità di vita
-Volume 3. Morale socioeconomica e politica
EAN 9788830813021
È il primo volume di un nuovo manuale di teologia morale destinato a fornire un quadro globale e sintetico di molti studi e ricerche che Giannino Piana, noto e apprezzato autore, docente di Etica cristiana all’Istituto superiore di Scienze religiose della Libera Università di Urbino e di Etica ed economia all’Università di Torino, ha pubblicato in questi ultimi cinquant’anni.
Il piano complessivo dell’opera annunciato dall’editore prevede che a questo volume ne seguano altri tre, dedicati rispettivamente alla morale della persona, alla morale socio-economica e politica, alla morale religiosa e del culto. È il giusto e meritato omaggio a un teologo morale che può finalmente raccogliere e offrire a un pubblico piú vasto di colleghi e studenti il frutto maturo e, diciamolo subito, succoso di tanti anni di lavoro e di ricerca seria e impegnata. Un’iniziativa editoriale lodevole e pregevole cui va tutto il nostro plauso e alla quale auguriamo grande successo. Non fosse altro per il fatto che si tratta di un’iniziativa da tempo auspicata e attesa da colleghi, amici ed estimatori di Giannino Piana, già presidente dell’Atism (Associazione teologica per lo studio della morale) e stimato collaboratore di tante riviste scientifiche e dedite alla divulgazione teologicomorale.
Nettamente suddiviso in due parti, I fondamenti della morale cristiana (pp. 19-291) e Struttura della morale cristiana (pp. 292-540), questo primo denso volume presenta nella prima parte una sintesi esauriente e aggiornata delle acquisizioni e dei problemi attinenti ai fondamenti biblici, storici, teologici e metodologici della teologia morale; nella seconda parte invece passa in rassegna e illustra le principali categorie concettuali della sistematica teologico-morale in riferimento a plessi di problemi e interrogativi che a ondate successive, a partire dal concilio Vaticano II, hanno agitato e continuano ad agitare le acque di un rinnovamento della teologia morale tuttora alla ricerca di un modello interpretativo che permetta di analizzare il piú correttamente possibile la dialettica tra persona e agire morale, coscienza e norma, peccato e peccati, conversione e vita virtuosa.
L’impianto del volume, come si può intuire, è relativamente tradizionale, l’interpretazione dei contenuti però è singolarmente aperta, non dogmatica, ispirata a una robusta concezione personalistica della morale e attraversata da un pathos dialogico che consente all’A. di confrontarsi con diverse correnti del pensiero moderno e contemporaneo e di rilanciare, a partire da questo confronto, il dibattito sul rinnovamento della teologia morale. Un dibattito che dopo i primi slanci e le prime intemperanze conciliari, quando il rinnovamento auspicato dal Concilio sembrava a portata di mano, è andato a sbattere contro gli scogli di una contrapposizione secca, scarsamente critica e problematica, tra fautori piú o meno intransigenti dell’«etica della fede» da una parte e sostenitori piú o meno radicali e categorici della «morale autonoma» dall’altra. Si è cosí imposta la ricerca di un nuovo paradigma che potesse riportare il dibattito lungo la corrente di un confronto e di un dialogo che fosse al tempo stesso piú aperto e rigoroso.
Piana tenta di realizzare l’opera nella convinzione che il paradigma personalistico possa costituire il perno di una ripresa del dibattito all’interno del mondo teologico, ma piú in generale anche del mondo cattolico, afflitto da una prolungata crisi culturale e di fede che alimenta equivoci e fraintendimenti linguistici e concettuali a non finire. Il riferimento alla persona e alla sua dignità di soggetto libero e responsabile si è in tal modo progressivamente affermato nelle sue ricerche configurandosi come orizzonte di senso in grado di permettere a tutti di ricomprendersi e ai cattolici in particolare di vivere e interpretare al meglio la novità del messaggio cristiano e il contributo che il cristianesimo può dare al processo di auto-comprensione, analisi e riflessione sull’identità propria, originaria e originale, dell’essere cristiani. Scrive Piana: «Il concetto di persona, che ha avuto (e ha) nella riflessione filosofica moderna e contemporanea ampio sviluppo, presenta, nell’ambito della prospettiva cristiana (dalla quale ha avuto peraltro origine), aspetti peculiari (o specifici) che ne configurano l’identità e ne mettono concretamente a fuoco potenzialità e limiti: dall’essere a immagine di Dio e dallo statuto di creatura, perciò di essere contingente, all’unicità irripetibile e al legame essenziale con gli altri divenuti in Cristo fratelli, fino all’altezza della vocazione cui è chiamata e insieme alla consapevolezza della fragilità che la contraddistingue, dunque del bisogno di salvezza che deve invocare. Il contributo della rivelazione cristiana non riguarda pertanto la definizione della persona nella sua realtà ontologica; riguarda piuttosto la sua concreta condizione storica, da cui emerge, per usare la nota formula pascaliana, la sua “grandezza” e la sua “miseria”.
Ma vi è di piú. A costituire, in ultima analisi, l’identità della persona è, nel cristianesimo, il suo essere in Cristo. Da questo scaturisce l’essere nuovo dell’uomo, che sta a fondamento della novità di vita in cui – ci ricorda Paolo – egli è chiamato a camminare. L’agire del credente, in quanto è originato dal suo essere, porta dunque dentro di sé un’intenzionalità teologale; la sua soggettività etica è tale infatti in forza della grazia di Cristo; in altri termini alla base di essa vi è l’auto-comunicazione di Dio, che fa dell’agire la concretizzazione della partecipazione alla vita di Cristo» (p. 299). A partire da questa lunga citazione si comprende meglio, da una parte, il titolo del manuale, In novità di vita, dall’altra la trama personalistica che lo innerva e quell’«intenzionalità teologale» che ne costituisce l’orizzonte di comprensione.
Ma se questo è l’ideale, il punto di riferimento, l’orizzonte all’interno del quale muoversi, si deve aggiungere subito che la realtà è molto lontana da questo ideale, irta com’è di contraddizioni e di conflitti che sembrano oscurarlo e quasi screditarlo. Si pensi, per fare un esempio, alla famiglia e alla sua frammentazione, ai problemi e alle difficoltà in cui s’imbattono coniugi e figli alla ricerca di un legame interpersonale che non trovano. E ciò non solo a causa di fragilità o problemi esistenziali, ma anche a causa di culture, costumi, abitudini, stili di vita, istituzioni, organizzazioni, orari di lavoro, strutture, che li portano a vivere separati, quasi sempre lontani gli uni dagli altri. Per non parlare delle nuove biotecnologie genetiche e riproduttive o delle pesanti incombenze educative e di assistenza che gravano pressoché esclusivamente sulle spalle della donna, a sua volta attraversata da sussulti di dignità e scoppi di rabbia. Sarebbe certo troppo sbrigativo e anche comodo concludere che dunque il modello personalistico è di fatto impraticabile. E sarebbe pertanto piú utile e pratico andare alla ricerca di altri modelli piú sensibili e attenti ai cambiamenti strutturali e istituzionali del mondo in cui viviamo. Il paradigma personalistico ha i suoi limiti, nessuno lo nega, ma altri per il momento, secondo l’A., non se ne intravedono all’orizzonte.
Tanto vale quindi prendere atto dei suoi limiti e creare le condizioni di possibilità che permettano di svilupparne le potenzialità anche a livello strutturale e istituzionale, oltre che esistenziale. Ciò implica un ripensamento profondo che vada oltre le analisi fenomenologiche ed ermeneutiche, oltre la stessa istanza antropologica, e punti maggiormente alla determinazione di ciò che significa etica, scienza morale, e alla elaborazione di un metodo argomentativo rigoroso, in grado di fornire criteri validi di giudizio e discernimento indipendentemente da una determinata visione, religiosa o meno, dell’uomo e del mondo. Visione che certamente – sia ben chiaro – non è irrilevante a livello di vissuto storico-culturale, ma non è determinante e tanto meno discriminante nel processo di individuazione e giustificazione dei giudizi e delle norme morali. Appellarsi o fare riferimento all’istanza antropologica e/o teologica della dignità della persona è senz’altro condizione necessaria, ma non è sufficiente per determinare la moralità del comportamento di una persona in una situazione data.
Allo scopo è indispensabile avere a disposizione una teoria etico-normativa generale che disponga, da una parte, di un’assiologia, una dottrina dei valori, dall’altra permetta di risolvere eventuali contraddizioni o conflitti di doveri, e ultimamente di valori, nell’unico modo possibile, e cioè analizzando le conseguenze positive e negative, a breve e lungo termine, per sé e per gli altri, che derivano dalla scelta di un’azione o di una serie di azioni piuttosto che di altre. Piana si muove certo in questa direzione. Conosce bene la problematica delle cosiddette teorie o argomentazioni etico-normative sia di tipo deontologico che teleologico. Ne parla infatti a piú riprese e secondo modalità diverse, anche se non sempre le definisce in modo adeguato, alla ricerca com’è di una «via mediana», di una specie di «terza via», che le superi entrambe recuperando aspetti essenziali dell’una e dell’altra. Scrive infatti in proposito: «I due modelli proposti – quello deontologico e quello teleologico – per quanto diversi, non vanno dunque contrapposti: entrambi evidenziano aspetti essenziali del fatto etico.
Se infatti la prospettiva deontologica tende a tutelare l’aspetto di immutabilità, la prospettiva teleologica tende, invece, a sottolineare l’aspetto di storicità, perciò di relatività. L’integrazione tra essi sta nell’adesione a un “modello teleologico deontologicamente fondato”, che consente, da un lato, il superamento di una visione essenzialista dell’oggetto e implica, dall’altro, l’abbandono di una visione soggettivistica e relativista, che ha come esito la dissoluzione della stessa idea di norma. Questo modello ha il merito di salvaguardare il carattere di assolutezza della norma – il fatto che essa implichi il necessario riferimento ai valori – e alla relatività delle situazioni alle quali essa deve fare fronte» (pp. 426-427). Piana rileva giustamente la necessità e il carattere di assolutezza delle norme morali. Ritiene tuttavia che tale assolutezza non venga adeguatamente garantita dalla sola argomentazione teleologica. Di qui la sua proposta di un «modello teleologico deontologicamente fondato», che a mio parere nasconde una contraddizione, in quanto l’argomentazione teleologica fa riferimento solo al criterio delle conseguenze dell’azione, mentre quella deontologica non fa riferimento solo a tale criterio, ma anche ad altri criteri.
Ed è qui, forse, che si nasconde un equivoco nella misura in cui si parla di «deontologia» in due sensi, etico-normativo e metaetico. Piana in ogni caso è convinto di aver trovato fra i due modelli argomentativi un punto di convergenza nel riconoscimento che i sostenitori di ambedue fanno del dovere di osservare il risultato normativo delle loro argomentazioni. Questo non si può certo negare, anche perché una simile convergenza è già implicita nel fatto che si tratta di modelli etico-normativi, non di modelli relativistici. Ma i due modelli non divergono tanto in riferimento al dovere di osservare la norma, quanto in riferimento al processo di individuazione e fondazione della norma. Mentre il modello teleologico fonda la norma sempre e per tutte le azioni sulle conseguenze di esse, quello deontologico, almeno per alcune di esse, sostiene che bisogna rifarsi agli argomenti del «contro natura» o della «mancanza di permesso».
Il che ovviamente non implica che il primo sia di tipo utilitaristico e solo il secondo di tipo etico. Chi argomenta infatti avvalendosi del modello teleologico prende in considerazione tutte le conseguenze previste e prevedibili, non soltanto quelle che tornano utili o sono vantaggiose, come sostiene il vero utilitarista. Altro è prendere in considerazione l’utile, ciò che serve allo scopo, a livello etico-normativo, altro è teorizzarlo a livello metaetico come fondamento ultimo della moralità: siamo su piani diversi. Del resto san Paolo non raccomanda ai cristiani della comunità di Corinto di agire sempre in vista di ciò che è utile per molti? Forse che per questo è utilitarista? All’obiezione poi di chi argomenta che vi sono azioni intrinsecamente immorali, in sé cattive, indipendentemente dalle conseguenze – la tortura, l’assassinio, l’adulterio, lo stupro, la bugia, la schiavitú, lo sfruttamento, ecc. – si può rispondere evidenziando il carattere valutativo, non meramente descrittivo, di determinate parole o espressioni linguistiche che si usano nel linguaggio comune.
In ogni caso classificare un filosofo o un teologo fra i teleologi o i deontologi non ha molta importanza e non risolve il problema. Ciò che importa è verificare la linearità logica del discorso e la validità degli argomenti addotti. Qualità che non mancano certo al primo volume del manuale di Piana, di cui apprezziamo in particolare la chiarezza espositiva, il pathos dialogico, ma soprattutto la convinzione di fede che lo ispira e lo sorregge.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" n. 1/2013
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
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