Esperienza e assoluto. Sull'umanità dell'uomo
(Leitourgía. Sezione teologica)EAN 9788830807655
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DETTAGLI DI «Esperienza e assoluto. Sull'umanità dell'uomo»
Tipo
Libro
Titolo
Esperienza e assoluto. Sull'umanità dell'uomo
Autore
Lacoste Jean-Yves
Traduttore
Patanè A.
Editore
Cittadella
EAN
9788830807655
Pagine
238
Data
2004
Peso
368 grammi
Dimensioni
17 x 24 cm
Collana
Leitourgía. Sezione teologica
COMMENTI DEI LETTORI A «Esperienza e assoluto. Sull'umanità dell'uomo»
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Recensioni di riviste specialistiche su «Esperienza e assoluto. Sull'umanità dell'uomo»
Recensione di Ermanno Roberto Tura della rivista Studia Patavina
“L’uomo si appropria di ciò che ha di piú proprio allorché sceglie di stare di fronte a Dio. La tesi può ormai essere precisata: si dirà così che egli declina la sua identità in modo esatto quando accetta di esistere ad immagine di un Dio che ha preso su di sé l’umiliazione - quando accetta cioé di esistere kenoticamente” (p. 233). Con queste righe Lacoste conclude la sua impegnativa riflessione sull’umanità dell’uomo, ricamata stando sulla linea di confine tra filosofia e teologia. Il teologo francese possiede i titoli per collocarsi su tale linea, sempre rischiosa, avendo raggiunto negli anni ’80 il dottorato prima in teologia e poi in filosofia. In questo volume la sua offerta accetta di (e aiuta a) ripensare il momento orante della liturgia alla luce delle interpellanze, talora durissime, della filosofia dei due secoli piú recenti. Le richieste critiche dei grandi pensatori moderni, specie di area tedesca, vengono accolte e apprezzate da Lacoste con profondo rispetto, al punto che un lettore di area culturale latina, pur abituato ad una frequentazione evangelica e liturgica, stenta in prima battuta a ritrovare il proprio habitat. Solo alla fine delle piú che duecento pagine gli resta quasi un senso di dispiacere che la riflessione, di forte sapore filosofico, si concluda. In effetti un pensatore francese, con buone credenziali (ha, tra l’altro, diretto nel 1998 il fortunato Dictionnaire critique de théologie), può proporsi come mediatore e traghettatore della riflessione nordica verso il Mediterraneo. Nel tracciato del volume lo schema metodologico permanente di Lacoste si concretizza nel “sì..., ma...”: con atteggiamento dialogico-critico accetta ed esplicita in un dialogo serrato l’obiezione in tutta la serietà, in ordine a suggerire poi, assieme ai limiti riconosciuti, le suggestioni positive che il momento orante può affermare in risposta.
Dopo tali cenni introduttivi globali, accostiamo piú da vicino le pagine di Lacoste, ovviamente colte dall’oblò limitato di una nostra lettura prevalentemente teologico-liturgica.
La domanda iniziale in ogni antropologia “chi siamo?” si esplicita per il pensatore francese nell’ulteriore precisazione “dove siamo?”: e l’antropologia diventa topologia, accompagnata però da un corteo di determinazioni che a loro volta diventano prolegomeni stimolanti per la riflessione liturgica (assumendo la liturgia nel senso piú ampio del termine). Heidegger è l’interlocutore privilegiato in una explicatio terminorum che in tempi diversi aiuta a distinguere luogo, mondo e terra, e aiuta a precisare la fisionomia dell’uomo come contemporaneamente estraneo e abitante, in una “inerenza” al luogo non eliminabile. L’ipotesi portata avanti da Lacoste è che la liturgia possa proporsi come trasgressione della topologia in quanto eccede l’essere-nel-mondo, va oltre il rapporto con la terra. Chiede infatti radicalmente alcuni passaggi significativi: li enumeriamo rapidamente. Chiede anzitutto di passare dall’esser-ci all’essere-verso che mette in gioco la località (cf. la visione di s. Benedetto e le riflessioni sulla clausura e l’erranza: pp. 48 ss.); domanda di sovrapporre, nella preghiera, a un essere-nel-mondo un essere-al-confine tra due ordini dell’esperienza, confine in cui il mondo cessa liturgicamente di avvolgerci in maniera determinante (cf. pp. 68 ss.): infatti nella preghiera congiungiamo, in gesti e parole, l’attesa dell’Assoluto con l’ammissione di una sua presenza ma senza averne esperienza diretta; suggerisce infine di ristrutturare nella preghiera, al di qua della morte, ogni logica dell’ipseità in un esistere a partire dal proprio futuro (cf. p. 80 ss.). L’uomo è perciò definito da una fattualità e insieme da una vocazione ad esistere davanti a Dio: la responsabilità etica può addirittura rendere “infelice” il momento liturgico, perché la preghiera non “produce” nulla sul piano della nostra fattualità. Eppure solo la preghiera fa scoprire le ragioni di un’etica che viene promossa nella luce del Regno: Regno che non è terra e non è mondo, ma può indurre a un rapporto di circolarità fra ragione liturgica e ragione etica.
Una ulteriore esplicitazione dell’umanità dell’uomo viene messa a fuoco se consideriamo l’esistenza come veglia, come tempo votato al “piú che necessario”, come luogo simbolico dell’inizio assoluto, che può farci dubitare filosoficamente della fattualità e può indurci alla pazienza dell’attesa “di un mattino in cui l’esperienza ratificherà il contenuto concettuale della conoscenza” (p. 121). Concludendo la prima metà della riflessione (proposta sotto il titolo L’uomo e il suo luogo), Lacoste può additare nella liturgia, intesa - ripetiamo - nel suo senso piú vasto, il luogo (il “dove”) piú umano in cui possiamo esistere nel mondo o sulla terra: l’uomo ha per vera dimora la relazione che stabilisce con Dio o (teologicamente in modo piú esatto) la relazione che Dio stabilisce con lui (cf. p. 128).
Se le provocazioni di Heidegger (ma non solo) hanno stimolato la prima parte del volume, Hegel diventa l’interlocutore privilegiato per la seconda che porta il titolo L’esperienza fondamentale: ma senza dimenticare altri filosofi come Husserl e Nietzsche e teologi come Bultmann. Pur affascinato dalla grandiosa e suggestiva visione hegeliana, riletta nella luce delle imprese napoleoniche e dell’impero prussiano, Lacoste confessa la conclusiva delusione dinanzi alla modesta escatologia prospettata, escatologia già presente attualmente nella figura del Saggio, mentre la teologia cristiana suggerisce di spingersi ben oltre, e soprattutto senza omettere nell’uomo attuale (anche nel saggio) l’essere-verso-la-morte. Hegel, ignorando la storia della teologia cristiana, propone la fusione dell’evento di Pasqua con quello del Golgotha, eliminando di conseguenza l’ultimo articolo del credo e prospettando una oblivio mortis umana: ma la sola omissione della morte può compromettere l’intera visione hegeliana, perché l’uomo nella morte coglie (o può cogliere) lo sprofondamento totale del senso; in ogni caso non si può essere-nel-mondo senza essere-verso-la-morte (cf. spec. pp. 160-161). L’umiltà dal santo cristiano potrebbe aver piú senso della presuntuosa saggezza del saggio, per il quale l’Assoluto si concede solo nel sapere.
Ma la critica forse piú radicale al cristianesimo, letto come abnegazione, viene da Nietzsche con la sua riflessione sulla “volontà di potenza” e la sua proiezione verso il superuomo. Un breve dibattito sulla natura del volere e un confronto sul tema dell’abnegazione porta a evidenza che l’abnegazione vuole piú di quanto voglia il volere di potenza: proprio nello spossessamento o kénosi l’uomo accederebbe a ciò che gli è piú proprio, perdendo preescatologicamente ciò che gli è sorgivamente proprio (cf. p. 203). La morte continua ad essere la piú chiara figura dell’indominabile, richiamando la fragilità di ogni potere e di ogni appropriazione: il non-possesso ha la prima e l’ultima parola. L’uomo può perciò declinare meglio la sua identità quando si vuole povero: l’affermazione è tanto paradossale quanto vera; il non-possesso definisce l’uomo piú originariamente della sua partecipazione ai giochi dell’appropriazione (cf. pp. 210-211). La liturgia può realisticamente offrire il contesto piú adatto ad evidenziare la povertà come la modalità piú giusta di abitare il mondo ed essere se stessi, in una simbolica escatologica e nell’influenza che tale simbolica esercita nel rapporto quotidiano che l’uomo intrattiene con il mondo e con le cose. L’orante di fronte all’Assoluto non ha nulla e non può impadronirsi di nulla: è e rimane povero specie sul piano del definitivo; ma il suo gesto di preghiera lo espone a doni di un destino escatologico che egli può unicamente attendere nella pazienza, fidando solo sulla promessa. L’uomo che l’Assoluto ha riconciliato a sé potrà apparirci solo nei tratti scandalosi dell’uomo sminuito e “folle” che punta tutto sull’orizzonte escatologico: tale orizzonte da solo è capace di rendere conto della plausibilità di simile scelta. Si intuisce dunque una critica liturgica dei concetti. Certo Dio dà a pensare e si offre al pensiero: ma chiede di sostituire il sapere vespertino totalizzante con il sapere mattutino in cui (come nella preghiera del fanciullo e dei semplici) solo l’essenziale è comunicato e compreso, senza pretese di possedere il dominio speculativo e assoluto di ciò in cui si crede (cf. p. 222). Il venerdì santo permane come il segreto di un presente di riconciliazione con l’Assoluto, ma un presente mantenuto ad eguale distanza dal futuro assoluto e dall’iniziale: “all’uomo riconciliato tocca in sorte di esistere di fronte a Dio il cui volto paterno non gli è nascosto, coram Deo, e che ogni conferma affettiva, a rigor di termini, risulta qui inessenziale... egli sa interpretare il venerdì santo alla luce dell’evento di Pasqua” (pp. 232-233).
Fin qui la proposta di Jean-Yves Lacoste, per quel tanto che siamo riusciti a cogliere e valorizzare in una prima meditazione: per ovviare ai nostri limiti ci risulta preziosa la contestualizzazione e la sintesi introduttiva firmata da Sergio Ubbiali, direttore della Collana per la sezione teologica (cf. pp. 5-18). Come non sempre succede nella lettura di un volume impegnativo, ci resta a conclusione la riconoscenza per una proposta tutt’altro che ovvia sul “mercato” teologico italiano e illuminante il momento liturgico-orante da una insolita linea di confine. Ci restano anche il desiderio e la curiosità di sondare ulteriormente la proposta di Lacoste, nonostante certe affermazioni kilometriche e una terminologia che non permette distrazioni. Anche perché, ad esempio, vorremmo cogliere i motivi profondi di un ribadito deprezzamento del momento affettivo (o del sentimento) nell’esperienza liturgica: è la “linea di confine” che lo esige? Vorremmo anche capire il perché di un uso sproporzionato dell’aggettivo “banale” attribuito alle osservazioni di risposta-proposta dell’a. dinanzi alle interpellanze di grandi filosofi rivolte alla religione e alla preghiera: si tratta forse di un timore reverenziale? Ma non sempre ciò che è ovvio e quotidiano risulta poi banale. In ogni caso una rilettura del bel volume (e dell’introduzione di Ubbiali) non sarà dettata solo da motivi scolastici, ma da un autentico desiderio di rivedere la liturgia dalla rischiosa linea di confine tra filosofia e teologia.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2004, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
Dopo tali cenni introduttivi globali, accostiamo piú da vicino le pagine di Lacoste, ovviamente colte dall’oblò limitato di una nostra lettura prevalentemente teologico-liturgica.
La domanda iniziale in ogni antropologia “chi siamo?” si esplicita per il pensatore francese nell’ulteriore precisazione “dove siamo?”: e l’antropologia diventa topologia, accompagnata però da un corteo di determinazioni che a loro volta diventano prolegomeni stimolanti per la riflessione liturgica (assumendo la liturgia nel senso piú ampio del termine). Heidegger è l’interlocutore privilegiato in una explicatio terminorum che in tempi diversi aiuta a distinguere luogo, mondo e terra, e aiuta a precisare la fisionomia dell’uomo come contemporaneamente estraneo e abitante, in una “inerenza” al luogo non eliminabile. L’ipotesi portata avanti da Lacoste è che la liturgia possa proporsi come trasgressione della topologia in quanto eccede l’essere-nel-mondo, va oltre il rapporto con la terra. Chiede infatti radicalmente alcuni passaggi significativi: li enumeriamo rapidamente. Chiede anzitutto di passare dall’esser-ci all’essere-verso che mette in gioco la località (cf. la visione di s. Benedetto e le riflessioni sulla clausura e l’erranza: pp. 48 ss.); domanda di sovrapporre, nella preghiera, a un essere-nel-mondo un essere-al-confine tra due ordini dell’esperienza, confine in cui il mondo cessa liturgicamente di avvolgerci in maniera determinante (cf. pp. 68 ss.): infatti nella preghiera congiungiamo, in gesti e parole, l’attesa dell’Assoluto con l’ammissione di una sua presenza ma senza averne esperienza diretta; suggerisce infine di ristrutturare nella preghiera, al di qua della morte, ogni logica dell’ipseità in un esistere a partire dal proprio futuro (cf. p. 80 ss.). L’uomo è perciò definito da una fattualità e insieme da una vocazione ad esistere davanti a Dio: la responsabilità etica può addirittura rendere “infelice” il momento liturgico, perché la preghiera non “produce” nulla sul piano della nostra fattualità. Eppure solo la preghiera fa scoprire le ragioni di un’etica che viene promossa nella luce del Regno: Regno che non è terra e non è mondo, ma può indurre a un rapporto di circolarità fra ragione liturgica e ragione etica.
Una ulteriore esplicitazione dell’umanità dell’uomo viene messa a fuoco se consideriamo l’esistenza come veglia, come tempo votato al “piú che necessario”, come luogo simbolico dell’inizio assoluto, che può farci dubitare filosoficamente della fattualità e può indurci alla pazienza dell’attesa “di un mattino in cui l’esperienza ratificherà il contenuto concettuale della conoscenza” (p. 121). Concludendo la prima metà della riflessione (proposta sotto il titolo L’uomo e il suo luogo), Lacoste può additare nella liturgia, intesa - ripetiamo - nel suo senso piú vasto, il luogo (il “dove”) piú umano in cui possiamo esistere nel mondo o sulla terra: l’uomo ha per vera dimora la relazione che stabilisce con Dio o (teologicamente in modo piú esatto) la relazione che Dio stabilisce con lui (cf. p. 128).
Se le provocazioni di Heidegger (ma non solo) hanno stimolato la prima parte del volume, Hegel diventa l’interlocutore privilegiato per la seconda che porta il titolo L’esperienza fondamentale: ma senza dimenticare altri filosofi come Husserl e Nietzsche e teologi come Bultmann. Pur affascinato dalla grandiosa e suggestiva visione hegeliana, riletta nella luce delle imprese napoleoniche e dell’impero prussiano, Lacoste confessa la conclusiva delusione dinanzi alla modesta escatologia prospettata, escatologia già presente attualmente nella figura del Saggio, mentre la teologia cristiana suggerisce di spingersi ben oltre, e soprattutto senza omettere nell’uomo attuale (anche nel saggio) l’essere-verso-la-morte. Hegel, ignorando la storia della teologia cristiana, propone la fusione dell’evento di Pasqua con quello del Golgotha, eliminando di conseguenza l’ultimo articolo del credo e prospettando una oblivio mortis umana: ma la sola omissione della morte può compromettere l’intera visione hegeliana, perché l’uomo nella morte coglie (o può cogliere) lo sprofondamento totale del senso; in ogni caso non si può essere-nel-mondo senza essere-verso-la-morte (cf. spec. pp. 160-161). L’umiltà dal santo cristiano potrebbe aver piú senso della presuntuosa saggezza del saggio, per il quale l’Assoluto si concede solo nel sapere.
Ma la critica forse piú radicale al cristianesimo, letto come abnegazione, viene da Nietzsche con la sua riflessione sulla “volontà di potenza” e la sua proiezione verso il superuomo. Un breve dibattito sulla natura del volere e un confronto sul tema dell’abnegazione porta a evidenza che l’abnegazione vuole piú di quanto voglia il volere di potenza: proprio nello spossessamento o kénosi l’uomo accederebbe a ciò che gli è piú proprio, perdendo preescatologicamente ciò che gli è sorgivamente proprio (cf. p. 203). La morte continua ad essere la piú chiara figura dell’indominabile, richiamando la fragilità di ogni potere e di ogni appropriazione: il non-possesso ha la prima e l’ultima parola. L’uomo può perciò declinare meglio la sua identità quando si vuole povero: l’affermazione è tanto paradossale quanto vera; il non-possesso definisce l’uomo piú originariamente della sua partecipazione ai giochi dell’appropriazione (cf. pp. 210-211). La liturgia può realisticamente offrire il contesto piú adatto ad evidenziare la povertà come la modalità piú giusta di abitare il mondo ed essere se stessi, in una simbolica escatologica e nell’influenza che tale simbolica esercita nel rapporto quotidiano che l’uomo intrattiene con il mondo e con le cose. L’orante di fronte all’Assoluto non ha nulla e non può impadronirsi di nulla: è e rimane povero specie sul piano del definitivo; ma il suo gesto di preghiera lo espone a doni di un destino escatologico che egli può unicamente attendere nella pazienza, fidando solo sulla promessa. L’uomo che l’Assoluto ha riconciliato a sé potrà apparirci solo nei tratti scandalosi dell’uomo sminuito e “folle” che punta tutto sull’orizzonte escatologico: tale orizzonte da solo è capace di rendere conto della plausibilità di simile scelta. Si intuisce dunque una critica liturgica dei concetti. Certo Dio dà a pensare e si offre al pensiero: ma chiede di sostituire il sapere vespertino totalizzante con il sapere mattutino in cui (come nella preghiera del fanciullo e dei semplici) solo l’essenziale è comunicato e compreso, senza pretese di possedere il dominio speculativo e assoluto di ciò in cui si crede (cf. p. 222). Il venerdì santo permane come il segreto di un presente di riconciliazione con l’Assoluto, ma un presente mantenuto ad eguale distanza dal futuro assoluto e dall’iniziale: “all’uomo riconciliato tocca in sorte di esistere di fronte a Dio il cui volto paterno non gli è nascosto, coram Deo, e che ogni conferma affettiva, a rigor di termini, risulta qui inessenziale... egli sa interpretare il venerdì santo alla luce dell’evento di Pasqua” (pp. 232-233).
Fin qui la proposta di Jean-Yves Lacoste, per quel tanto che siamo riusciti a cogliere e valorizzare in una prima meditazione: per ovviare ai nostri limiti ci risulta preziosa la contestualizzazione e la sintesi introduttiva firmata da Sergio Ubbiali, direttore della Collana per la sezione teologica (cf. pp. 5-18). Come non sempre succede nella lettura di un volume impegnativo, ci resta a conclusione la riconoscenza per una proposta tutt’altro che ovvia sul “mercato” teologico italiano e illuminante il momento liturgico-orante da una insolita linea di confine. Ci restano anche il desiderio e la curiosità di sondare ulteriormente la proposta di Lacoste, nonostante certe affermazioni kilometriche e una terminologia che non permette distrazioni. Anche perché, ad esempio, vorremmo cogliere i motivi profondi di un ribadito deprezzamento del momento affettivo (o del sentimento) nell’esperienza liturgica: è la “linea di confine” che lo esige? Vorremmo anche capire il perché di un uso sproporzionato dell’aggettivo “banale” attribuito alle osservazioni di risposta-proposta dell’a. dinanzi alle interpellanze di grandi filosofi rivolte alla religione e alla preghiera: si tratta forse di un timore reverenziale? Ma non sempre ciò che è ovvio e quotidiano risulta poi banale. In ogni caso una rilettura del bel volume (e dell’introduzione di Ubbiali) non sarà dettata solo da motivi scolastici, ma da un autentico desiderio di rivedere la liturgia dalla rischiosa linea di confine tra filosofia e teologia.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2004, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
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