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Segni della parola. Sulla teologia del sacramento
(Leitourgía. Sezione teologica)EAN 9788830807402
Disponibile in 1/2 giorni lavorativi
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Tipo
Libro
Titolo
Segni della parola. Sulla teologia del sacramento
Autore
Jüngel Eberhard
Traduttore
Noberasco G.
Editore
Cittadella
EAN
9788830807402
Pagine
224
Data
2002
Peso
389 grammi
Dimensioni
17 x 24 cm
Collana
Leitourgía. Sezione teologica
COMMENTI DEI LETTORI A «Segni della parola. Sulla teologia del sacramento»
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Recensioni di riviste specialistiche su «Segni della parola. Sulla teologia del sacramento»
Recensione di Ermanno Roberto Tura della rivista Studia Patavina
Il libro si presenta composito: riunisce nove contributi di diverso valore offerti dal teologo evangelico di Tubinga Eberhard Jüngel sulla tematica sacramentale, apparsi in varie occasioni su un arco di tempo che va dal 1966 al 1999, praticamente coincidente con il periodo della sua docenza universitaria. Il lettore italiano ha così la possibilità di accostare anche nella nostra lingua lo svolgersi originale, entro la sensibilità e le accentuazioni tipiche della Riforma, del pensiero di un rappresentante indubbiamente significativo della teologia evangelica del nostro tempo. La tematica sacramentale in realtà serve all’a. come “pretesto”, nel senso più positivo del termine, per spaziare sugli orizzonti fondamentali della fede cristiana ripensata trans Alpes, onde collocare nei giusti contorni la categoria di sacramento, categoria che ancora manca, a parere di Jüngel espresso fin dal primo contributo, di un concetto soddisfacente nella teologia riformata.
L’introduzione su La riflessione sul sacramento in Eberhard Jüngel (pp. 5-17) firmata da Sergio Ubbiali, docente presso la Sede centrale della Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale in Milano e all’Istituto di Liturgia pastorale di S. Giustina in Padova, conduce il lettore per mano indicando in limpida sintesi i principali gradini da salire per entrare correttamente nella lettura non sempre facile delle duecento pagine successive. Anche l’impegnativa traduzione dal tedesco è condotta da Ubbiali e G. Noberasco in modo da aiutare il lettore a cogliere le sfumature (ripetendo talora in corsivo nella lingua originale i termini tecnici usati da Jüngel), fin quasi a far gustare la proposta teologica proveniente da Tubinga, proposta che merita senz’altro un accostamento da vicino. Lo tentiamo anche noi.
Il primo studio offerto da Jüngel è un serio abbozzo di risposta alla domanda Il sacramento che cos’è?. L’avvio alla risposta prende le mosse dalle varie interpretazioni date al signum, tipico termine della tradizione iniziata da Agostino, «nello sforzo di raggiungere un concetto di sacramento sufficientemente giustificato dal punto di vista esegetico e sistematico» (p. 31) e ritrovarsi, dopo una breve ma attenta analisi degli scritti dei riformatori del 1500, nell’affermazione di Lutero: Unum solum habent sacrae litterae sacramentum, quod est ipse Christus Dominus. Le venticinque tesi in cui si esplicita la conclusione possono perciò sintetizzarsi in due assiomi: Gesù Cristo è l’unico sacramento della chiesa; battesimo e cena sono le due celebrazioni dell’unico sacramento della chiesa.
Coerentemente il secondo passaggio si intitola Per una critica della comprensione sacramentale del battesimo. La critica si radica su due tesi fondamentali. La prima intuisce nella dottrina della giustificazione il criterio adeguato per un corretto ripensamento che colloca il solo Gesù Cristo, e non il battesimo, come polo opposto al peccato e alla perdizione dell’umanità: «si tratta di far valere la cristologia senza nessun compromesso» (p. 47). Decisivo è il nome e la vicenda del Signore Gesù, rispetto al cui evento storico il battesimo resta esteriore. La seconda tesi tenta di avvicinare luterani e riformati, superando l’alternativa tra l’efficacia del battesimo e la sua funzione di semplice “ricordo e assicurazione” dell’efficacia della croce di Cristo, introducendo come decisivo l’elemento della fede. Semmai rispetto alla fede il battesimo aggiunge una novità in quanto inserisce nel soma tou Christou.
Il filo della riflessione porta al terzo interessante e approfondito studio sul tema de Il sacrificio di Gesù Cristo come sacramentum et exemplum. Per un lavoro delle chiese nel far fronte alla vita e nel programmare la vita. L’a. non solo rigetta gli appelli attuali politico-ideologici ai sacrifici necessari nelle nostre società, appelli che hanno desacralizzato il concetto di sacramento e di sacrificio, ma boccia anche l’orientamento errato di una pura cristologia dell’esempio, opponendo decisamente exemplum (esteriore all’uomo) a sacramentum (interiore all’uomo che ne viene trasformato) e indicando in Gesù Cristo l’unico sacrificio sacramentale. Secondo il docente tubinghese, per espiare il peccato di tutti gli uomini e rispondere per la totalità perduta dell’esistente indiviso «è necessaria una presenza in cui ci sia tutta la creazione. E questo può soltanto significare: è necessaria la presenza del Dio creatore nella forma della creatura» (p. 80): il che è già divenuto realtà nel mistero di Gesù Cristo, il Figlio di Dio che nella “persona” dell’uomo Gesù ha dato la sua vita per noi e perciò rimane l’unico e vero mediatore. Il termine sacrificio applicato alla vicenda umana di noi creature non può avere che significato metaforico, mai cultuale; e tuttavia il primo fondamentale atto della vita cristiana nei confronti del sacrificio sacramentale di Gesù si concretizza esattamente nel celebrare riconoscente il culto cristiano, anche se «in tale agire la comunità non opera nulla» (p. 86). Il celebrare implica la gioia che unisce ciò che il peccato divide, esige il riconoscimento della povertà dell’intero esistente indiviso grazie a Cristo di fronte all’esistente dolorosamente diviso dal peccato, impone il rimprovero contro l’avarizia avida che intacca l’intera umanità nei rapporti sociali e internazionali; avvertendo tuttavia che «la cristianità deve narrare ed annunciare la morte del suo Signore e la storia della sua passione, ma non quella delle proprie sofferenze personali. Una ethica crucis, caricata di un senso soteriologico, sarebbe la peggiore forma di theologia gloriae!» (p. 89: i corsivi sono nel testo). Alla luce di tale riflessione andrebbe preferibilmente evitato l’uso del termine sacrificio già a motivo di una augurabile igiene linguistica in campo religioso e politico umano. L’uomo non può creare la pace che viene solo da Cristo: però egli può, anzi deve (cf. il corsivo di p. 91) creare analogie e similitudini terrene di essa con il suo agire. Sulla conclusione del saggio forse più interessante e documentato delle duecento pagine si apre una fessura che potrebbe diventare sporgenza utile verso la sensibilità cattolica.
Nella luce dei precedenti contributi si può intuire già il nucleo della risposta alla domanda che serve da titolo al quarto passaggio La chiesa come sacramento?. Dopo aver richiamato la prospettiva ecclesiologica della Riforma, l’a. ha il coraggio e la competenza di «cacciarsi, per così dire, nella tana del leone» (p. 104) e di puntare sulla categoria teologica centrale tridentina della repraesentatio Christi nel senso di una rappresentanza simbolico-reale tipica del cattolicesimo in tema di sacramentalità. La decisa riserva evangelica si sostiene sul sospetto di sinergia e sulla supposta tentazione cattolica (almeno implicita) di autorealizzazione umana, mentre per la sensibilità teologica della Riforma meritum Christi e distributio meriti sono due realtà nettamente distinte (cf. la citazione di Lutero di p. 109). E va aggiunto che in tale distributio la chiesa genera ogni cristiano solo mediante la parola di Dio. Dunque anche la bella immagine patristica della mater ecclesia va radicalmente ridisegnata, perché la chiesa è caratterizzata dal fatto di essere peccatrice, anzi peccatrix magna o addirittura maxima (cf. pp. 118-119), e proprio per questo motivo è paradossalmente capace di testimoniare in sommo grado la misericordia del suo Signore, unico sacramento.
Il culto compreso in prospettiva evangelica apporta nel quinto passaggio ulteriori precisazioni incentrate sull’affermazione di Melantone: «praecipuus cultus Dei est docere evangelium» (p. 125). Il che porta l’a. ad esaminare il concetto di culto del Nuovo Testamento valorizzante tutta la vita cristiana con particolare rilievo dato all’assemblea riunita per la santa cena. Si ritorna spontaneamente ad esaminare e confrontare con notevole acume la concezione evangelica e cattolica del sacrificio espiatorio applicate alla messa (cf. pp. 134-149) per definire così il culto in prospettiva evangelica: «Il culto si lascia definire come quell’avvenimento nel quale il Padre onnipotente rende partecipi dell’immediata presenza dell’intero esistente indiviso, resa accessibile da Gesù Cristo, nel momento in cui egli, nella forza dello Spirito Santo, ha interrotto in modo così elementare il contesto vitale del peccatore, che in lui si giunge alla certezza di Dio, e quindi a quella libertà dei figli di Dio, che realizzano la propria vita come rendimento di grazie a Dio e servizio al prossimo» (p. 138). Non va dimenticato perciò il carattere di interruzione, di “tempo fermato” che ha il momento cultuale: e conseguentemente di gratuità e di festa, senza scopi ulteriori. Il culto, specie nella cena, deve ridiventare autentica celebrazione liturgica da riattivare con serena autocritica in ambito riformato (cf. p. 148), accostandosi alla sensibilità ortodossa e cattolica (a p. 142 a sette righe dalla fine c’è una probabile svista tipografica: “evangelica” va sostituito con “ortodossa”, altrimenti la frase non ha senso).
Il sesto passaggio affronta dal versante evangelico il problema dell’intercomunione eucaristica nell’auspicio di Gesù Che siano tutti una cosa sola. Le chiese in cammino verso la comunione eucaristica. Accompagnata da qualche affermazione dell’a. non proprio generosa verso le cosiddette dichiarazioni di consenso ecumenico (cf. p. 159) e da una netta chiusura verso un possibile apporto o prestazione umana nella cena da parte di un ministro o della comunità, la soluzione evangelica insiste sul ricevere con esultanza il dono che il Signore (e solo Lui) ci fa, trasformandoci da persone che operano in persone che ricevono. Eliminando il momento ecclesiologico e il possibile problema del ministro che presiede, «malgrado alcune rilevanti differenze della dottrina della cena per la chiesa evangelica la comunione eucaristica è già ora possibile» (p. 167: i corsivi sono nel testo, scritto da Jüngel nel 1999).
Un po’ più retorico e parenetico, dato il genere letterario richiesto dall’occasione, si prospetta il settimo passaggio, che riporta il Commento biblico per l’evangelische Kirchentag del 1999. I Cor 11, 17-34 e che inizia dalla domanda poi ripresa più volte «Cosa succede a Corinto?». Per rispondere l’a. enumera gli attori visibili e invisibili del mistero che si celebra nella cena col suo significato di morte a se stessi; spiega il senso paolino del radunarsi per il culto alla luce di Gesù Cristo che è nella propria persona il radunarsi di Dio con l’umanità; invita all’esultanza per la presenza misteriosa di Cristo ricevuta nel pane e nel vino (cf. p. 182), in netta contraddizione con l’esultanza degli estatici benestanti di Corinto sprezzanti la fame dei poveri, facendo della cena del Signore una farsa capace di svuotare il senso del banchetto eucaristico. «Grazia significa: voler essere con l’altro nella sua alterità. La grazia non vuol saperne dell’uniformità ... ci trasferisce in un altro luogo, in cui tutto è assolutamente differente» (p. 185). In tale luce risulta più evidente lo scandalo teologicamente insopportabile di una cristianità divisa proprio alla tavola del Signore.
Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la breve ma pungente omelia a commento dell’invito della liturgia della cena Gustate e vedete quanto è buono il Signore! (Salmo 34, 9), tenuta da Jüngel per la festa del ringraziamento (Erntedankfest) del 1983. Dal richiamo alla creazione e al significato quotidiano degli alimenti si è invitati a salire al gradino completamente diverso della redenzione, dove pane e vino nella cena liturgica sono parola visibile e promessa della presenza del Salvatore che condivide con noi la sua vita (cf. p. 191): la parenesi conclusiva punta sul condividere come legge di vita per l’umanità.
L’ultimo splendido saggio esplicita, oltre i cliché del sentimento e dell’interiorità privata, una specie di apologia di Friedrich Schleiermacher e del rapporto tra filosofia e teologia sotto il titolo Il culto come festa della libertà. Il luogo teologico del culto secondo Schleiermacher. Nel culto l’uomo è solo ricevente e tuttavia il culto si concretizza in una azione: in che senso? Per superare l’apparente aporia Jüngel sottolinea, cogliendo l’indicazione di Schleiermacher, la particolarità dell’agire rappresentativo che tende solo alla comunione umana e divina (cf. p. 212), a differenza dell’agire efficace che trasforma il mondo. Il primo è un agire senza scopo, segnala l’interruzione dell’agire efficace: la differenza rende comprensibile il fatto che nel culto tutto è festa gioiosa perché è un agire rappresentativo: «Nella festa l’uomo è un agente senza scopo» (p. 214), senza secondi fini, il che permette all’uomo di accertarsi della sua verità più propria e della propria libertà. Qui il lettore cattolico intuisce un’altra fessura e un’altra sporgenza possibile di dialogo sul concetto di efficacia sacramentale, ben oltre la magia e il meccanicismo produttivistico talora attribuito al cattolicesimo nel vivere i sacramenti.
Abbiamo voluto rileggere, forse in maniera eccessivamente pedante, la proposta di Jüngel, perché evidenzia da par suo la sensibilità e le “paure” sul sacramento che caratterizzano la riflessione della Riforma e di cui il cattolicesimo dovrebbe maggiormente tenere conto: tale attenzione può tradursi in una forma di “correzione fraterna” molto seria ed esigente, sia a livello teologico che pastorale: tanto più che l’a. valorizza il momento cultuale liturgico con particolare calore, come anche Ubbiali sottolinea nell’intelligente introduzione. A parziale scusa delle frequenti ripetizioni di prospettive va ricordato un limite già segnalato: il volume del docente di Tubinga non è un testo unitario, steso di getto: ripetizioni perciò sono a priori inevitabili su un tessuto comunque omogeneo.
Tuttavia, “si licet parva componere magnis”, anche a un semplice recensore cattolico resta qualche sassolino che desidera togliersi esprimendolo sotto forma di domande, domande che già Jüngel implicitamente lascia intuire e che il lettore porta a galla col suo linguaggio. Ad esempio: perché opporre in maniera così drastica a p. 77-78 il segno all’efficacia, se poi la vera efficacia del sacramento, inteso come agire rappresentativo, sta nello stabilire la comunione con Dio e tra gli uomini? Il momento cultuale anche per il credente cattolico è tutto rappresentativo (o simbolico-ministeriale) nei confronti di Cristo unico Signore: è una interruzione, almeno idealmente un “tempo fermato” senza scopi ulteriori che non siano la comunione in verticale e in orizzontale. Ancora: perché una paura ossessivamente insistita nel difendere il primato salvifico di Dio contro l’azione ecclesiale e ministeriale? Vi potrebbe trasparire alla fine la fisionomia di un Dio “gretto” e invidioso dell’uomo sua creatura, un Dio in perenne e gelosa concorrenza con la creazione: non può essere questo, a nostro parere, il senso biblico di “gelosia” del Dio che è Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Il solus sanctus appartiene anche alla tradizione liturgica cattolica, ribadita nel “Gloria” della messa domenicale: ma il solus ha il senso di unica sorgente della santità cristiana progressivamente irradiata sulla creazione redenta, non può avere, a nostro avviso, il senso di un Gesù Cristo “solitario” sprezzante ed escludente. Analogamente: intuire nel termine sacramento «una minaccia latente... perché impreciso» (p. 20) potrebbe portare non al silenzio sul termine e al suo non-uso, ma piuttosto allo sforzo verso una ulteriore chiarezza e duttilità precisa, in grado di apprezzare una gerarchia dei sacramenti in analogia alla gerarchia delle verità proposta dal Vaticano II per la chiesa cattolica. In tale contesto il Signore Gesù come prototipo normativo del sacramento diventerebbe un ottimo correttivo contro ogni forma di sacramentalismo rimproverato (spesso non a torto) al cattolicesimo. Ci colpisce anche l’unilateralità neotestamentaria che fa perno sull’apostolo Paolo come l’unico interprete della prima tradizione cristiana, con una conseguente antropologia teologica piuttosto fosca e una ecclesiologia praticamente nulla, aldilà della testimonianza. La lettura del dato paolino è a sua volta condotta con gli “occhiali” dei padri della Riforma Lutero e Melantone: la traccia di altri “padri” è piuttosto rara.
A conclusione (ci perdoni questa audacia l’illustre Autore!) vorremmo rilevare una paradossale struttura dialettica, che profuma di dualismo e di estrinsecismo di sapore nestoriano, come parte del DNA della Riforma anche in rappresentanti d’alto livello, capaci di intuire ponti tra le confessioni e denominazioni cristiane come E. Jüngel, buon conoscitore tra l’altro della tradizione teologica cattolica, del dettato conciliare tridentino e dei documenti del Vaticano II.
Certo: va ripensato insieme ciò che avvenne nel secolo XVI: la Riforma del 1500 trova sane e abbondanti radici in tanti movimenti che l’hanno preceduta, e ha portato a compimento desideri a lungo coltivati nell’Europa cristiana, dai Balcani alla Spagna passando per l’Inghilterra e troppo a lungo disattesi dalla chiesa di Roma. Tuttavia il momento di emergenza ecclesiale e politica del 1500, con pesanti accuse reciproche, ha portato a polemiche polarizzazioni estreme e a un conseguente dialogo tra sordi, senza più osmosi tra le varie comunità di fede cristiana. Continuare oggi le polarizzazioni dettate da quella emergenza ci colloca, come cristiani, fuori della storia. Risulta evidente, a nostro avviso, la necessità di riscrivere lentamente insieme non solo la storia delle nostre rotture in ordine a una riconciliazione delle memorie, ma anche il “vocabolario” dei termini fondamentali, per capirci finalmente insieme sugli snodi fondamentali della riflessione cristiana in materia di chiesa e di sacramenti: tra questi non solo il concetto di sacramento e di sacrificio, ma anche termini come parola, evangelo, memoriale, rappresentanza, libertà, efficacia... Congar aveva iniziato decenni fa a battere profeticamente questo sentiero (cf. il Vocabulaire oecuménique sous la direction de Yves Congar, Cerf, Paris 1970, tradotto in italiano da Cittadella di Assisi): bisognerebbe continuare la fatica della ricerca insieme e del confronto. Anche a tale desiderio, che non è alla portata delle forze di chi firma queste righe, ci ha condotto la lettura attenta del libro di E. Jüngel. Resta la riconoscenza verso tutti coloro che hanno reso possibile tale lettura.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2003, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
L’introduzione su La riflessione sul sacramento in Eberhard Jüngel (pp. 5-17) firmata da Sergio Ubbiali, docente presso la Sede centrale della Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale in Milano e all’Istituto di Liturgia pastorale di S. Giustina in Padova, conduce il lettore per mano indicando in limpida sintesi i principali gradini da salire per entrare correttamente nella lettura non sempre facile delle duecento pagine successive. Anche l’impegnativa traduzione dal tedesco è condotta da Ubbiali e G. Noberasco in modo da aiutare il lettore a cogliere le sfumature (ripetendo talora in corsivo nella lingua originale i termini tecnici usati da Jüngel), fin quasi a far gustare la proposta teologica proveniente da Tubinga, proposta che merita senz’altro un accostamento da vicino. Lo tentiamo anche noi.
Il primo studio offerto da Jüngel è un serio abbozzo di risposta alla domanda Il sacramento che cos’è?. L’avvio alla risposta prende le mosse dalle varie interpretazioni date al signum, tipico termine della tradizione iniziata da Agostino, «nello sforzo di raggiungere un concetto di sacramento sufficientemente giustificato dal punto di vista esegetico e sistematico» (p. 31) e ritrovarsi, dopo una breve ma attenta analisi degli scritti dei riformatori del 1500, nell’affermazione di Lutero: Unum solum habent sacrae litterae sacramentum, quod est ipse Christus Dominus. Le venticinque tesi in cui si esplicita la conclusione possono perciò sintetizzarsi in due assiomi: Gesù Cristo è l’unico sacramento della chiesa; battesimo e cena sono le due celebrazioni dell’unico sacramento della chiesa.
Coerentemente il secondo passaggio si intitola Per una critica della comprensione sacramentale del battesimo. La critica si radica su due tesi fondamentali. La prima intuisce nella dottrina della giustificazione il criterio adeguato per un corretto ripensamento che colloca il solo Gesù Cristo, e non il battesimo, come polo opposto al peccato e alla perdizione dell’umanità: «si tratta di far valere la cristologia senza nessun compromesso» (p. 47). Decisivo è il nome e la vicenda del Signore Gesù, rispetto al cui evento storico il battesimo resta esteriore. La seconda tesi tenta di avvicinare luterani e riformati, superando l’alternativa tra l’efficacia del battesimo e la sua funzione di semplice “ricordo e assicurazione” dell’efficacia della croce di Cristo, introducendo come decisivo l’elemento della fede. Semmai rispetto alla fede il battesimo aggiunge una novità in quanto inserisce nel soma tou Christou.
Il filo della riflessione porta al terzo interessante e approfondito studio sul tema de Il sacrificio di Gesù Cristo come sacramentum et exemplum. Per un lavoro delle chiese nel far fronte alla vita e nel programmare la vita. L’a. non solo rigetta gli appelli attuali politico-ideologici ai sacrifici necessari nelle nostre società, appelli che hanno desacralizzato il concetto di sacramento e di sacrificio, ma boccia anche l’orientamento errato di una pura cristologia dell’esempio, opponendo decisamente exemplum (esteriore all’uomo) a sacramentum (interiore all’uomo che ne viene trasformato) e indicando in Gesù Cristo l’unico sacrificio sacramentale. Secondo il docente tubinghese, per espiare il peccato di tutti gli uomini e rispondere per la totalità perduta dell’esistente indiviso «è necessaria una presenza in cui ci sia tutta la creazione. E questo può soltanto significare: è necessaria la presenza del Dio creatore nella forma della creatura» (p. 80): il che è già divenuto realtà nel mistero di Gesù Cristo, il Figlio di Dio che nella “persona” dell’uomo Gesù ha dato la sua vita per noi e perciò rimane l’unico e vero mediatore. Il termine sacrificio applicato alla vicenda umana di noi creature non può avere che significato metaforico, mai cultuale; e tuttavia il primo fondamentale atto della vita cristiana nei confronti del sacrificio sacramentale di Gesù si concretizza esattamente nel celebrare riconoscente il culto cristiano, anche se «in tale agire la comunità non opera nulla» (p. 86). Il celebrare implica la gioia che unisce ciò che il peccato divide, esige il riconoscimento della povertà dell’intero esistente indiviso grazie a Cristo di fronte all’esistente dolorosamente diviso dal peccato, impone il rimprovero contro l’avarizia avida che intacca l’intera umanità nei rapporti sociali e internazionali; avvertendo tuttavia che «la cristianità deve narrare ed annunciare la morte del suo Signore e la storia della sua passione, ma non quella delle proprie sofferenze personali. Una ethica crucis, caricata di un senso soteriologico, sarebbe la peggiore forma di theologia gloriae!» (p. 89: i corsivi sono nel testo). Alla luce di tale riflessione andrebbe preferibilmente evitato l’uso del termine sacrificio già a motivo di una augurabile igiene linguistica in campo religioso e politico umano. L’uomo non può creare la pace che viene solo da Cristo: però egli può, anzi deve (cf. il corsivo di p. 91) creare analogie e similitudini terrene di essa con il suo agire. Sulla conclusione del saggio forse più interessante e documentato delle duecento pagine si apre una fessura che potrebbe diventare sporgenza utile verso la sensibilità cattolica.
Nella luce dei precedenti contributi si può intuire già il nucleo della risposta alla domanda che serve da titolo al quarto passaggio La chiesa come sacramento?. Dopo aver richiamato la prospettiva ecclesiologica della Riforma, l’a. ha il coraggio e la competenza di «cacciarsi, per così dire, nella tana del leone» (p. 104) e di puntare sulla categoria teologica centrale tridentina della repraesentatio Christi nel senso di una rappresentanza simbolico-reale tipica del cattolicesimo in tema di sacramentalità. La decisa riserva evangelica si sostiene sul sospetto di sinergia e sulla supposta tentazione cattolica (almeno implicita) di autorealizzazione umana, mentre per la sensibilità teologica della Riforma meritum Christi e distributio meriti sono due realtà nettamente distinte (cf. la citazione di Lutero di p. 109). E va aggiunto che in tale distributio la chiesa genera ogni cristiano solo mediante la parola di Dio. Dunque anche la bella immagine patristica della mater ecclesia va radicalmente ridisegnata, perché la chiesa è caratterizzata dal fatto di essere peccatrice, anzi peccatrix magna o addirittura maxima (cf. pp. 118-119), e proprio per questo motivo è paradossalmente capace di testimoniare in sommo grado la misericordia del suo Signore, unico sacramento.
Il culto compreso in prospettiva evangelica apporta nel quinto passaggio ulteriori precisazioni incentrate sull’affermazione di Melantone: «praecipuus cultus Dei est docere evangelium» (p. 125). Il che porta l’a. ad esaminare il concetto di culto del Nuovo Testamento valorizzante tutta la vita cristiana con particolare rilievo dato all’assemblea riunita per la santa cena. Si ritorna spontaneamente ad esaminare e confrontare con notevole acume la concezione evangelica e cattolica del sacrificio espiatorio applicate alla messa (cf. pp. 134-149) per definire così il culto in prospettiva evangelica: «Il culto si lascia definire come quell’avvenimento nel quale il Padre onnipotente rende partecipi dell’immediata presenza dell’intero esistente indiviso, resa accessibile da Gesù Cristo, nel momento in cui egli, nella forza dello Spirito Santo, ha interrotto in modo così elementare il contesto vitale del peccatore, che in lui si giunge alla certezza di Dio, e quindi a quella libertà dei figli di Dio, che realizzano la propria vita come rendimento di grazie a Dio e servizio al prossimo» (p. 138). Non va dimenticato perciò il carattere di interruzione, di “tempo fermato” che ha il momento cultuale: e conseguentemente di gratuità e di festa, senza scopi ulteriori. Il culto, specie nella cena, deve ridiventare autentica celebrazione liturgica da riattivare con serena autocritica in ambito riformato (cf. p. 148), accostandosi alla sensibilità ortodossa e cattolica (a p. 142 a sette righe dalla fine c’è una probabile svista tipografica: “evangelica” va sostituito con “ortodossa”, altrimenti la frase non ha senso).
Il sesto passaggio affronta dal versante evangelico il problema dell’intercomunione eucaristica nell’auspicio di Gesù Che siano tutti una cosa sola. Le chiese in cammino verso la comunione eucaristica. Accompagnata da qualche affermazione dell’a. non proprio generosa verso le cosiddette dichiarazioni di consenso ecumenico (cf. p. 159) e da una netta chiusura verso un possibile apporto o prestazione umana nella cena da parte di un ministro o della comunità, la soluzione evangelica insiste sul ricevere con esultanza il dono che il Signore (e solo Lui) ci fa, trasformandoci da persone che operano in persone che ricevono. Eliminando il momento ecclesiologico e il possibile problema del ministro che presiede, «malgrado alcune rilevanti differenze della dottrina della cena per la chiesa evangelica la comunione eucaristica è già ora possibile» (p. 167: i corsivi sono nel testo, scritto da Jüngel nel 1999).
Un po’ più retorico e parenetico, dato il genere letterario richiesto dall’occasione, si prospetta il settimo passaggio, che riporta il Commento biblico per l’evangelische Kirchentag del 1999. I Cor 11, 17-34 e che inizia dalla domanda poi ripresa più volte «Cosa succede a Corinto?». Per rispondere l’a. enumera gli attori visibili e invisibili del mistero che si celebra nella cena col suo significato di morte a se stessi; spiega il senso paolino del radunarsi per il culto alla luce di Gesù Cristo che è nella propria persona il radunarsi di Dio con l’umanità; invita all’esultanza per la presenza misteriosa di Cristo ricevuta nel pane e nel vino (cf. p. 182), in netta contraddizione con l’esultanza degli estatici benestanti di Corinto sprezzanti la fame dei poveri, facendo della cena del Signore una farsa capace di svuotare il senso del banchetto eucaristico. «Grazia significa: voler essere con l’altro nella sua alterità. La grazia non vuol saperne dell’uniformità ... ci trasferisce in un altro luogo, in cui tutto è assolutamente differente» (p. 185). In tale luce risulta più evidente lo scandalo teologicamente insopportabile di una cristianità divisa proprio alla tavola del Signore.
Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la breve ma pungente omelia a commento dell’invito della liturgia della cena Gustate e vedete quanto è buono il Signore! (Salmo 34, 9), tenuta da Jüngel per la festa del ringraziamento (Erntedankfest) del 1983. Dal richiamo alla creazione e al significato quotidiano degli alimenti si è invitati a salire al gradino completamente diverso della redenzione, dove pane e vino nella cena liturgica sono parola visibile e promessa della presenza del Salvatore che condivide con noi la sua vita (cf. p. 191): la parenesi conclusiva punta sul condividere come legge di vita per l’umanità.
L’ultimo splendido saggio esplicita, oltre i cliché del sentimento e dell’interiorità privata, una specie di apologia di Friedrich Schleiermacher e del rapporto tra filosofia e teologia sotto il titolo Il culto come festa della libertà. Il luogo teologico del culto secondo Schleiermacher. Nel culto l’uomo è solo ricevente e tuttavia il culto si concretizza in una azione: in che senso? Per superare l’apparente aporia Jüngel sottolinea, cogliendo l’indicazione di Schleiermacher, la particolarità dell’agire rappresentativo che tende solo alla comunione umana e divina (cf. p. 212), a differenza dell’agire efficace che trasforma il mondo. Il primo è un agire senza scopo, segnala l’interruzione dell’agire efficace: la differenza rende comprensibile il fatto che nel culto tutto è festa gioiosa perché è un agire rappresentativo: «Nella festa l’uomo è un agente senza scopo» (p. 214), senza secondi fini, il che permette all’uomo di accertarsi della sua verità più propria e della propria libertà. Qui il lettore cattolico intuisce un’altra fessura e un’altra sporgenza possibile di dialogo sul concetto di efficacia sacramentale, ben oltre la magia e il meccanicismo produttivistico talora attribuito al cattolicesimo nel vivere i sacramenti.
Abbiamo voluto rileggere, forse in maniera eccessivamente pedante, la proposta di Jüngel, perché evidenzia da par suo la sensibilità e le “paure” sul sacramento che caratterizzano la riflessione della Riforma e di cui il cattolicesimo dovrebbe maggiormente tenere conto: tale attenzione può tradursi in una forma di “correzione fraterna” molto seria ed esigente, sia a livello teologico che pastorale: tanto più che l’a. valorizza il momento cultuale liturgico con particolare calore, come anche Ubbiali sottolinea nell’intelligente introduzione. A parziale scusa delle frequenti ripetizioni di prospettive va ricordato un limite già segnalato: il volume del docente di Tubinga non è un testo unitario, steso di getto: ripetizioni perciò sono a priori inevitabili su un tessuto comunque omogeneo.
Tuttavia, “si licet parva componere magnis”, anche a un semplice recensore cattolico resta qualche sassolino che desidera togliersi esprimendolo sotto forma di domande, domande che già Jüngel implicitamente lascia intuire e che il lettore porta a galla col suo linguaggio. Ad esempio: perché opporre in maniera così drastica a p. 77-78 il segno all’efficacia, se poi la vera efficacia del sacramento, inteso come agire rappresentativo, sta nello stabilire la comunione con Dio e tra gli uomini? Il momento cultuale anche per il credente cattolico è tutto rappresentativo (o simbolico-ministeriale) nei confronti di Cristo unico Signore: è una interruzione, almeno idealmente un “tempo fermato” senza scopi ulteriori che non siano la comunione in verticale e in orizzontale. Ancora: perché una paura ossessivamente insistita nel difendere il primato salvifico di Dio contro l’azione ecclesiale e ministeriale? Vi potrebbe trasparire alla fine la fisionomia di un Dio “gretto” e invidioso dell’uomo sua creatura, un Dio in perenne e gelosa concorrenza con la creazione: non può essere questo, a nostro parere, il senso biblico di “gelosia” del Dio che è Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Il solus sanctus appartiene anche alla tradizione liturgica cattolica, ribadita nel “Gloria” della messa domenicale: ma il solus ha il senso di unica sorgente della santità cristiana progressivamente irradiata sulla creazione redenta, non può avere, a nostro avviso, il senso di un Gesù Cristo “solitario” sprezzante ed escludente. Analogamente: intuire nel termine sacramento «una minaccia latente... perché impreciso» (p. 20) potrebbe portare non al silenzio sul termine e al suo non-uso, ma piuttosto allo sforzo verso una ulteriore chiarezza e duttilità precisa, in grado di apprezzare una gerarchia dei sacramenti in analogia alla gerarchia delle verità proposta dal Vaticano II per la chiesa cattolica. In tale contesto il Signore Gesù come prototipo normativo del sacramento diventerebbe un ottimo correttivo contro ogni forma di sacramentalismo rimproverato (spesso non a torto) al cattolicesimo. Ci colpisce anche l’unilateralità neotestamentaria che fa perno sull’apostolo Paolo come l’unico interprete della prima tradizione cristiana, con una conseguente antropologia teologica piuttosto fosca e una ecclesiologia praticamente nulla, aldilà della testimonianza. La lettura del dato paolino è a sua volta condotta con gli “occhiali” dei padri della Riforma Lutero e Melantone: la traccia di altri “padri” è piuttosto rara.
A conclusione (ci perdoni questa audacia l’illustre Autore!) vorremmo rilevare una paradossale struttura dialettica, che profuma di dualismo e di estrinsecismo di sapore nestoriano, come parte del DNA della Riforma anche in rappresentanti d’alto livello, capaci di intuire ponti tra le confessioni e denominazioni cristiane come E. Jüngel, buon conoscitore tra l’altro della tradizione teologica cattolica, del dettato conciliare tridentino e dei documenti del Vaticano II.
Certo: va ripensato insieme ciò che avvenne nel secolo XVI: la Riforma del 1500 trova sane e abbondanti radici in tanti movimenti che l’hanno preceduta, e ha portato a compimento desideri a lungo coltivati nell’Europa cristiana, dai Balcani alla Spagna passando per l’Inghilterra e troppo a lungo disattesi dalla chiesa di Roma. Tuttavia il momento di emergenza ecclesiale e politica del 1500, con pesanti accuse reciproche, ha portato a polemiche polarizzazioni estreme e a un conseguente dialogo tra sordi, senza più osmosi tra le varie comunità di fede cristiana. Continuare oggi le polarizzazioni dettate da quella emergenza ci colloca, come cristiani, fuori della storia. Risulta evidente, a nostro avviso, la necessità di riscrivere lentamente insieme non solo la storia delle nostre rotture in ordine a una riconciliazione delle memorie, ma anche il “vocabolario” dei termini fondamentali, per capirci finalmente insieme sugli snodi fondamentali della riflessione cristiana in materia di chiesa e di sacramenti: tra questi non solo il concetto di sacramento e di sacrificio, ma anche termini come parola, evangelo, memoriale, rappresentanza, libertà, efficacia... Congar aveva iniziato decenni fa a battere profeticamente questo sentiero (cf. il Vocabulaire oecuménique sous la direction de Yves Congar, Cerf, Paris 1970, tradotto in italiano da Cittadella di Assisi): bisognerebbe continuare la fatica della ricerca insieme e del confronto. Anche a tale desiderio, che non è alla portata delle forze di chi firma queste righe, ci ha condotto la lettura attenta del libro di E. Jüngel. Resta la riconoscenza verso tutti coloro che hanno reso possibile tale lettura.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2003, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
LIBRI AFFINI A «Segni della parola. Sulla teologia del sacramento»
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