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Antropologia e orizzonti del sacro. Culture e religioni
(Leitourgia. Sezione antropologica)EAN 9788830807174
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DETTAGLI DI «Antropologia e orizzonti del sacro. Culture e religioni»
Tipo
Libro
Titolo
Antropologia e orizzonti del sacro. Culture e religioni
Autore
Terrin Aldo N.
Editore
Cittadella
EAN
9788830807174
Pagine
400
Data
2001
Peso
600 grammi
Dimensioni
17 x 24 cm
Collana
Leitourgia. Sezione antropologica
COMMENTI DEI LETTORI A «Antropologia e orizzonti del sacro. Culture e religioni»
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Recensioni di riviste specialistiche su «Antropologia e orizzonti del sacro. Culture e religioni»
Recensione di Valerio Bortolin della rivista Studia Patavina
In questo volume vengono raccolti numerosi saggi, di consistenza diversa, pubblicati dall’A., noto studioso del fenomeno religioso, in varie riviste in questi ultimi anni. In prima battuta, scorrendo l’indice, come spesso succede in questi casi, si può avere l’impressione che i saggi trattino temi molto lontani tra di loro e non sempre di carattere religioso come invece suggerisce il titolo: il corpo e il sesso nella cultura contemporanea, l’amore, la violenza, il matrimonio presso alcune tribù del Kenya. La struttura stessa del volume, articolata in due parti, in due “cornici”, presentata con grande chiarezza dall’A. nell’introduzione, ci permette tuttavia di coglierne ben presto il senso unitario. Nella prima parte le problematiche e i temi di carattere antropologico-culturale mostrano l’originaria apertura della cultura alla dimensione simbolica del religioso. Nella seconda parte la prospettiva viene rovesciata: si parte “da temi più specificamente religiosi, storico-religiosi, per introdurre la dimensione antropologica che li sorregge e li autentica” (p. 11). Emerge così il rapporto stretto che lega il “religioso” e le religioni con l’antropologia e la necessità di un confronto ad ampio respiro con tutte le forme che il “religioso” assume all’interno delle molteplici culture. Tale approccio aiuterà, secondo l’A., lo stesso mondo cristiano da assumere un atteggiamento di maggiore accoglienza e “ospitalità” verso le alterità religiose, superando un certo sentimento di autosufficienza che molto spesso lo contraddistingue.
Già da questi accenni si può cogliere come il problema fondamentale sia di carattere metodologico: com’è possibile incontrare e comprendere realmente l’”altro” nella sua alterità senza rinchiuderlo all’interno delle nostre categorie? A questa questione, che ritorna più volte nel corso del volume, è dedicato specificamente il primo capitolo (La parabola dell’antropologia e il suo movimento verso il simbolico, pp. 15-68). Vi emerge chiaramente, attraverso la rassegna delle diverse posizioni, la prospettiva epistemologica dell’A che mostra la radicale insufficienza di un approccio alle culture e alle religioni caratterizzato dal ricorso ad una razionalità scientifico-strumentale, fatta valere come principio euristico universale. Il mondo religioso, caratterizzato essenzialmente dalla dimensione simbolica, verrebbe, in questo modo, forzatamente ricondotto all’interno di categorie che le sono profondamente estranee; infatti “la natura simbolica dell’homo religiosus non è subordinabile a un certo tipo di razionalità scientifica che tende oggi ad essere la razionalità tout court” (p. 50). Soltanto un’antropologia interpretativa “che non giudica il mondo culturale e religioso che lo circonda, ma cerca di ‘comprenderlo’ adeguandosi al senso che i partecipanti attribuiscono a quel mondo inteso come una ‘rete di significati’” (p. 54), può condurre ad un autentico incontro con l’”altro” e in particolare con gli “altri” orizzonti religiosi. Certamente tale prospettiva epistemologica può correre il rischio del relativismo, nella misura in cui giunge a sostenere l’incommensurabilità di ogni cultura e religione rispetto alle altre. E tuttavia tale rischio può essere facilmente evitato se, sulla scia di Husserl, si coglie la distinzione tra “un mondo categoriale che porta sempre lo stemma del relativo, del perfettibile, dell’incompletezza” (p. 54), costituito dai molteplici atti psichici, contesti sociali, fenomeni del mondo della vita, e quel trascendentale, quella struttura formale e universale alla quale il categoriale necessariamente rimanda.
Un altro tema attraversa buona parte dei capitoli: la constatazione della perdita del sacro all’interno della società occidentale. L’imporsi della razionalità filosofica, basata sulla logica aristotelica, e successivamente di quella scientifico-tecnologica, come principio di comprensione e di conoscenza della realtà nella sua totalità, ha provocato la desacralizzazione del mondo e il collasso di tutti i sistemi simbolici consolidati e classici. Noi viviamo ormai in un mondo frantumato e impoverito, privo di armonia e di senso, nel quale l’esperienza della libertà si accompagna ad un senso di vuoto, di solitudine, di isolamento. L’uomo contemporaneo non avverte più di far parte dell’intero, di essere dentro un orizzonte di senso globale che lo precede e lo sostiene, non coglie più i legami che lo uniscono agli altri uomini e ad ogni essere vivente. Ciò che caratterizza il nostro modo di vivere è l’esasperato individualismo, l’egocentrismo, l’assolutizzazione dell’io. L’esperienza del morire, considerata dalla nostra società secolarizzata come un fatto puramente privato che non deve interferire con il corso normale della vita sociale e che ciascun individuo è chiamato ad affrontare in piena solitudine, rivela in maniera paradigmatica l’assenza di qualsiasi riferimento simbolico-religioso capace di dare ad essa un senso. (Cf. Violenza e morte nella società secolarizzata, pp. 175-195)
Di questa situazione è responsabile, almeno in parte, lo stesso cristianesimo, nella misura in cui, “incalzato dalla logica occidentale” (p. 372), di cui è l’erede, ha dato enorme importanza alla dimensione dottrinale della religione a scapito della dimensione esperienziale e mistica. Il “credere” è così diventato “un termine che indica un ‘affermare con forza’ una verità”, piuttosto che “un atto del cuore, un’espressione interiore”. (Cf. Il credo e l’atto di fede nelle religioni, pp. 371-382). L’influsso della logica occidentale lo si può notare anche nell’elaborazione della concezione del Dio biblico. La Bibbia è certamente unanime nell’affermare l’unicità di Dio. E tuttavia il monoteismo biblico non è rigido; i numerosi antropomorfismi che vi troviamo sono capaci di stemperare l’affermazione assoluta dell’unicità di Dio. Ciò mostra che “un monoteismo rigido non si adatta all’esperienza religiosa la quale ha bisogno di simboli, di ierofanie, di manifestazioni, ha soprattutto bisogno di ‘incontrare’ il suo Dio” (p. 256). Sarà all’interno di una razionalità filosofica ereditata dal mondo greco, per sua natura lontana dal pensare simbolico, che il monoteismo assumerà quella forma rigida che rappresenterà un ostacolo più che un aiuto allo sviluppo del senso religioso. (Cf. Monoteismo, politeismo, pan-en-teismo, pp. 237-265).
A partire da questa analisi diventano comprensibili per l’A. fenomeni come quello della New Age, della Deep Ecology o della diffusione delle religioni orientali. Rappresentano una reazione nei confronti dell’aridità, della frammentazione e del vuoto che caratterizzano la nostra società, manifestano la necessità di esprimere in modo simbolico, andando al di là della logica delle idee e dei concetti, la nostra appartenenza ad un tutto che ci comprendere e ci abbraccia, il desiderio di recuperare l’armonia originaria. (Si vedano al riguardo, in modo particolare, i saggi Profezie oggi. Ansie, desideri, attese, pp. 83-99; Il senso del bene e del male nel mondo della New Age, pp. 101-116; Ecologia del profondo. Come vincere il male nella vita, pp. 117-128). Significativo al riguardo è pure il saggio Musica ed esperienza del sacro (pp. 197-208) nel quale appunto si assegna alla musica “il compito di sottrarci all’insipienza del principio di non contraddizione e di compiere un’opera di ‘sconnessione’ dei legami causa/effetto per farci percepire concretamente il potere che abbiamo di immaginarci diversi da quello che siamo” (p. 199). La musica ci permette di dare forma alle emozioni, andando al di là della logica delle idee, ci consente di esprimere “il tutto del nostro vivere al mondo e il nulla del senso cercato nei dettagli, nelle cose singole” (p. 206). Se il senso religioso è esso stesso la “totalità del senso tout court, senza altre interferenze, deduzioni, induzioni, specificazioni” (p. 206), non può non esistere una profonda affinità tra musica ed esperienza religiosa. Entrambe esprimono “un senso immediato, non logico, non riflesso, non fatto oggetto ancora dei criteri di verità e di falsità” (p. 208).
Affermazioni di questo tipo sono significative perché ci permettono di cogliere la concezione e l’atteggiamento dell’A. nei confronti della religione. Si può notare innanzitutto la sua costante fedeltà al metodo fenomenologico nell’accostamento dei molteplici fenomeni religiosi, metodo che esige empatia dell’osservatore nei confronti del fenomeno osservato. Ogni forma religiosa, anche quella che ai nostri occhi appare come stravagante, va accolta con simpatia (si potrebbe quasi dire: “va amata”), così come si manifesta., senza avere subito la preoccupazione di catalogarla e di giudicarla a partire dai nostri schemi. Solo assumendo tale atteggiamento ci potrà essere una reale apertura verso forme religiose “altre” rispetto alla nostra, ci potrà essere una tolleranza che non sia semplicemente la sopportazione dell’errore considerato come il male minore. In questo modo, pur senza smarrire la propria identità religiosa, si coglie come i confini tra le diverse religioni non siano rigidi e assoluti, si vede come esistano richiami, affinità, rassomiglianze tra prospettive religiose apparentemente lontane. L’universo religioso, pur nella prodigiosa varietà, è molto più unitario di quello che si potrebbe pensare. Tale unità appare, in modo particolare, quando, andando al di là delle teorizzazioni concettuali e delle forme istituzionali che caratterizzano e dividono le diverse religioni, ci si rifà all’esperienza religiosa che ne sta alla base. L’esperienza religiosa, intesa, sulla scia di R. Otto, come esperienza del sacro, del divino che appare nel mondo, è “il primum irriducibile, immenso, significativo per sé che ha bisogno di venire a tema al di là di tutte le nostre speculazioni e teorizzazioni” (p.264), è il cuore, il centro vitale di ogni forma religiosa, anche se non può che mostrarsi assumendo delle forme culturali e storiche molto diverse le une dalle altre.
Diventa così possibile offrire delle indicazioni circa il rapporto tra le religioni e le culture (cf. Il rapporto tra culture e il dialogo tra le religioni, pp. 69-81). L’esperienza del sacro possiede una “sua autonomia di fondo rispetto a tutti i prodotti culturali, i testi, le norme, le leggi, i vincoli” (p.79), è un’esperienza che nasce a partire da un a priori religioso che viene prima, in senso ontologico, non storico, di ogni cultura e di ogni religione particolare, anche se poi, di fatto, tale esperienza si concretizza in religioni strettamente collegate a culture particolari. Certamente l’orizzonte della cultura, come quello della religione, non può essere trasceso; non è quindi possibile situarsi in uno spazio neutrale a partire dal quale valutare “oggettivamente” le religioni e le culture. Eppure, nel comune riferimento all’a priori religioso, bisogna impegnarsi per lo meno a rendere più flessibili i confini delle culture e delle religioni, portando le prime verso la “interculturalità” e le seconde verso l’ecumenismo, sulla scia di quella dinamica della globalizzazione che, nel bene e nel male, caratterizza il nostro tempo.
A partire da approcci parziali, legati a temi particolari e specifici, emerge così in questo volume, una visione complessiva e unitaria dell’esperienza religiosa nel suo rapporto con la cultura. E’ una visione che porta ad un’apertura maggiore nei confronti del fenomeno religioso in quanto tale, colto nella straordinaria varietà delle sue forme e manifestazioni, e che pone delle domande stimolanti alla fede cristiana e alla teologia, troppo spesso ancora caratterizzate dal ripiegamento su se stesse e dalla autoreferenzialità. Non è sufficiente, per la teologia, interrogarsi sul rapporto tra la fede cristiana e le altre grandi religioni, con l’obiettivo di mettere in luce la singolarità della prima rispetto alle seconde. Si tratta pure di cogliere le affinità del cristianesimo con il mondo delle religioni; affinità che pone la questione del rapporto tra l’a priori religioso, la forma trascendentale della religione, e il cristianesimo in quanto religione particolare. Al riguardo il presente volume offre degli stimoli estremamente interessanti alla riflessione teologica.
Quello tuttavia che, almeno a chi scrive questa nota, fa problema sono alcune espressioni, qua e là ricorrenti, che sembrano manifestare una scarsa considerazione della razionalità nella comprensione del fenomeno religioso. Come si è visto, non è soltanto la razionalità scientifica e tecnologica, accusata di aver distrutto il fascino, donatore di senso, dell’universo simbolico della religione, che viene messa sotto accusa. Per arrivare alla vera conoscenza, secondo l’A., bisogna andare al di là della conoscenza “attraverso le parole, i segni, la logica delle connessioni” (p. 206). Per vivere non abbiamo bisogno del senso delle parole, ci basta il senso del vivere, coglibile attraverso un atto immediato. Ma è davvero possibile per noi cogliere il senso del tutto, in maniera diretta, immediata, attraverso l’emozione, il sentimento, andando al di là di ogni mediazione razionale? Non è forse solo dopo aver percorso faticosamente i cammini della ragione che possiamo vederne il limite intrinseco? Riconoscere la finitezza della nostra condizione umana non significa anche accettare che il coglimento della totalità del senso non possa che avvenire attraverso mediazioni storiche, culturali nelle quali è rilevante l’utilizzo della razionalità? Ancora: non c’è forse una razionalità presente originariamente anche nell’universo simbolico del religioso? E, soprattutto, non c’è il rischio che l’indifferenza nei confronti dei contenuti dell’esperienza religiosa conduca ad una loro accettazione acritica, ad una loro giustificazione, anche quando assumono delle forme bizzarre e stravaganti, se non addirittura violente? A questo riguardo, la razionalità non solo rende dicibile l’esperienza religiosa, ma anche la controlla, la critica, ne mette in luce le inevitabile ambiguità e contraddittorietà.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2003, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
Già da questi accenni si può cogliere come il problema fondamentale sia di carattere metodologico: com’è possibile incontrare e comprendere realmente l’”altro” nella sua alterità senza rinchiuderlo all’interno delle nostre categorie? A questa questione, che ritorna più volte nel corso del volume, è dedicato specificamente il primo capitolo (La parabola dell’antropologia e il suo movimento verso il simbolico, pp. 15-68). Vi emerge chiaramente, attraverso la rassegna delle diverse posizioni, la prospettiva epistemologica dell’A che mostra la radicale insufficienza di un approccio alle culture e alle religioni caratterizzato dal ricorso ad una razionalità scientifico-strumentale, fatta valere come principio euristico universale. Il mondo religioso, caratterizzato essenzialmente dalla dimensione simbolica, verrebbe, in questo modo, forzatamente ricondotto all’interno di categorie che le sono profondamente estranee; infatti “la natura simbolica dell’homo religiosus non è subordinabile a un certo tipo di razionalità scientifica che tende oggi ad essere la razionalità tout court” (p. 50). Soltanto un’antropologia interpretativa “che non giudica il mondo culturale e religioso che lo circonda, ma cerca di ‘comprenderlo’ adeguandosi al senso che i partecipanti attribuiscono a quel mondo inteso come una ‘rete di significati’” (p. 54), può condurre ad un autentico incontro con l’”altro” e in particolare con gli “altri” orizzonti religiosi. Certamente tale prospettiva epistemologica può correre il rischio del relativismo, nella misura in cui giunge a sostenere l’incommensurabilità di ogni cultura e religione rispetto alle altre. E tuttavia tale rischio può essere facilmente evitato se, sulla scia di Husserl, si coglie la distinzione tra “un mondo categoriale che porta sempre lo stemma del relativo, del perfettibile, dell’incompletezza” (p. 54), costituito dai molteplici atti psichici, contesti sociali, fenomeni del mondo della vita, e quel trascendentale, quella struttura formale e universale alla quale il categoriale necessariamente rimanda.
Un altro tema attraversa buona parte dei capitoli: la constatazione della perdita del sacro all’interno della società occidentale. L’imporsi della razionalità filosofica, basata sulla logica aristotelica, e successivamente di quella scientifico-tecnologica, come principio di comprensione e di conoscenza della realtà nella sua totalità, ha provocato la desacralizzazione del mondo e il collasso di tutti i sistemi simbolici consolidati e classici. Noi viviamo ormai in un mondo frantumato e impoverito, privo di armonia e di senso, nel quale l’esperienza della libertà si accompagna ad un senso di vuoto, di solitudine, di isolamento. L’uomo contemporaneo non avverte più di far parte dell’intero, di essere dentro un orizzonte di senso globale che lo precede e lo sostiene, non coglie più i legami che lo uniscono agli altri uomini e ad ogni essere vivente. Ciò che caratterizza il nostro modo di vivere è l’esasperato individualismo, l’egocentrismo, l’assolutizzazione dell’io. L’esperienza del morire, considerata dalla nostra società secolarizzata come un fatto puramente privato che non deve interferire con il corso normale della vita sociale e che ciascun individuo è chiamato ad affrontare in piena solitudine, rivela in maniera paradigmatica l’assenza di qualsiasi riferimento simbolico-religioso capace di dare ad essa un senso. (Cf. Violenza e morte nella società secolarizzata, pp. 175-195)
Di questa situazione è responsabile, almeno in parte, lo stesso cristianesimo, nella misura in cui, “incalzato dalla logica occidentale” (p. 372), di cui è l’erede, ha dato enorme importanza alla dimensione dottrinale della religione a scapito della dimensione esperienziale e mistica. Il “credere” è così diventato “un termine che indica un ‘affermare con forza’ una verità”, piuttosto che “un atto del cuore, un’espressione interiore”. (Cf. Il credo e l’atto di fede nelle religioni, pp. 371-382). L’influsso della logica occidentale lo si può notare anche nell’elaborazione della concezione del Dio biblico. La Bibbia è certamente unanime nell’affermare l’unicità di Dio. E tuttavia il monoteismo biblico non è rigido; i numerosi antropomorfismi che vi troviamo sono capaci di stemperare l’affermazione assoluta dell’unicità di Dio. Ciò mostra che “un monoteismo rigido non si adatta all’esperienza religiosa la quale ha bisogno di simboli, di ierofanie, di manifestazioni, ha soprattutto bisogno di ‘incontrare’ il suo Dio” (p. 256). Sarà all’interno di una razionalità filosofica ereditata dal mondo greco, per sua natura lontana dal pensare simbolico, che il monoteismo assumerà quella forma rigida che rappresenterà un ostacolo più che un aiuto allo sviluppo del senso religioso. (Cf. Monoteismo, politeismo, pan-en-teismo, pp. 237-265).
A partire da questa analisi diventano comprensibili per l’A. fenomeni come quello della New Age, della Deep Ecology o della diffusione delle religioni orientali. Rappresentano una reazione nei confronti dell’aridità, della frammentazione e del vuoto che caratterizzano la nostra società, manifestano la necessità di esprimere in modo simbolico, andando al di là della logica delle idee e dei concetti, la nostra appartenenza ad un tutto che ci comprendere e ci abbraccia, il desiderio di recuperare l’armonia originaria. (Si vedano al riguardo, in modo particolare, i saggi Profezie oggi. Ansie, desideri, attese, pp. 83-99; Il senso del bene e del male nel mondo della New Age, pp. 101-116; Ecologia del profondo. Come vincere il male nella vita, pp. 117-128). Significativo al riguardo è pure il saggio Musica ed esperienza del sacro (pp. 197-208) nel quale appunto si assegna alla musica “il compito di sottrarci all’insipienza del principio di non contraddizione e di compiere un’opera di ‘sconnessione’ dei legami causa/effetto per farci percepire concretamente il potere che abbiamo di immaginarci diversi da quello che siamo” (p. 199). La musica ci permette di dare forma alle emozioni, andando al di là della logica delle idee, ci consente di esprimere “il tutto del nostro vivere al mondo e il nulla del senso cercato nei dettagli, nelle cose singole” (p. 206). Se il senso religioso è esso stesso la “totalità del senso tout court, senza altre interferenze, deduzioni, induzioni, specificazioni” (p. 206), non può non esistere una profonda affinità tra musica ed esperienza religiosa. Entrambe esprimono “un senso immediato, non logico, non riflesso, non fatto oggetto ancora dei criteri di verità e di falsità” (p. 208).
Affermazioni di questo tipo sono significative perché ci permettono di cogliere la concezione e l’atteggiamento dell’A. nei confronti della religione. Si può notare innanzitutto la sua costante fedeltà al metodo fenomenologico nell’accostamento dei molteplici fenomeni religiosi, metodo che esige empatia dell’osservatore nei confronti del fenomeno osservato. Ogni forma religiosa, anche quella che ai nostri occhi appare come stravagante, va accolta con simpatia (si potrebbe quasi dire: “va amata”), così come si manifesta., senza avere subito la preoccupazione di catalogarla e di giudicarla a partire dai nostri schemi. Solo assumendo tale atteggiamento ci potrà essere una reale apertura verso forme religiose “altre” rispetto alla nostra, ci potrà essere una tolleranza che non sia semplicemente la sopportazione dell’errore considerato come il male minore. In questo modo, pur senza smarrire la propria identità religiosa, si coglie come i confini tra le diverse religioni non siano rigidi e assoluti, si vede come esistano richiami, affinità, rassomiglianze tra prospettive religiose apparentemente lontane. L’universo religioso, pur nella prodigiosa varietà, è molto più unitario di quello che si potrebbe pensare. Tale unità appare, in modo particolare, quando, andando al di là delle teorizzazioni concettuali e delle forme istituzionali che caratterizzano e dividono le diverse religioni, ci si rifà all’esperienza religiosa che ne sta alla base. L’esperienza religiosa, intesa, sulla scia di R. Otto, come esperienza del sacro, del divino che appare nel mondo, è “il primum irriducibile, immenso, significativo per sé che ha bisogno di venire a tema al di là di tutte le nostre speculazioni e teorizzazioni” (p.264), è il cuore, il centro vitale di ogni forma religiosa, anche se non può che mostrarsi assumendo delle forme culturali e storiche molto diverse le une dalle altre.
Diventa così possibile offrire delle indicazioni circa il rapporto tra le religioni e le culture (cf. Il rapporto tra culture e il dialogo tra le religioni, pp. 69-81). L’esperienza del sacro possiede una “sua autonomia di fondo rispetto a tutti i prodotti culturali, i testi, le norme, le leggi, i vincoli” (p.79), è un’esperienza che nasce a partire da un a priori religioso che viene prima, in senso ontologico, non storico, di ogni cultura e di ogni religione particolare, anche se poi, di fatto, tale esperienza si concretizza in religioni strettamente collegate a culture particolari. Certamente l’orizzonte della cultura, come quello della religione, non può essere trasceso; non è quindi possibile situarsi in uno spazio neutrale a partire dal quale valutare “oggettivamente” le religioni e le culture. Eppure, nel comune riferimento all’a priori religioso, bisogna impegnarsi per lo meno a rendere più flessibili i confini delle culture e delle religioni, portando le prime verso la “interculturalità” e le seconde verso l’ecumenismo, sulla scia di quella dinamica della globalizzazione che, nel bene e nel male, caratterizza il nostro tempo.
A partire da approcci parziali, legati a temi particolari e specifici, emerge così in questo volume, una visione complessiva e unitaria dell’esperienza religiosa nel suo rapporto con la cultura. E’ una visione che porta ad un’apertura maggiore nei confronti del fenomeno religioso in quanto tale, colto nella straordinaria varietà delle sue forme e manifestazioni, e che pone delle domande stimolanti alla fede cristiana e alla teologia, troppo spesso ancora caratterizzate dal ripiegamento su se stesse e dalla autoreferenzialità. Non è sufficiente, per la teologia, interrogarsi sul rapporto tra la fede cristiana e le altre grandi religioni, con l’obiettivo di mettere in luce la singolarità della prima rispetto alle seconde. Si tratta pure di cogliere le affinità del cristianesimo con il mondo delle religioni; affinità che pone la questione del rapporto tra l’a priori religioso, la forma trascendentale della religione, e il cristianesimo in quanto religione particolare. Al riguardo il presente volume offre degli stimoli estremamente interessanti alla riflessione teologica.
Quello tuttavia che, almeno a chi scrive questa nota, fa problema sono alcune espressioni, qua e là ricorrenti, che sembrano manifestare una scarsa considerazione della razionalità nella comprensione del fenomeno religioso. Come si è visto, non è soltanto la razionalità scientifica e tecnologica, accusata di aver distrutto il fascino, donatore di senso, dell’universo simbolico della religione, che viene messa sotto accusa. Per arrivare alla vera conoscenza, secondo l’A., bisogna andare al di là della conoscenza “attraverso le parole, i segni, la logica delle connessioni” (p. 206). Per vivere non abbiamo bisogno del senso delle parole, ci basta il senso del vivere, coglibile attraverso un atto immediato. Ma è davvero possibile per noi cogliere il senso del tutto, in maniera diretta, immediata, attraverso l’emozione, il sentimento, andando al di là di ogni mediazione razionale? Non è forse solo dopo aver percorso faticosamente i cammini della ragione che possiamo vederne il limite intrinseco? Riconoscere la finitezza della nostra condizione umana non significa anche accettare che il coglimento della totalità del senso non possa che avvenire attraverso mediazioni storiche, culturali nelle quali è rilevante l’utilizzo della razionalità? Ancora: non c’è forse una razionalità presente originariamente anche nell’universo simbolico del religioso? E, soprattutto, non c’è il rischio che l’indifferenza nei confronti dei contenuti dell’esperienza religiosa conduca ad una loro accettazione acritica, ad una loro giustificazione, anche quando assumono delle forme bizzarre e stravaganti, se non addirittura violente? A questo riguardo, la razionalità non solo rende dicibile l’esperienza religiosa, ma anche la controlla, la critica, ne mette in luce le inevitabile ambiguità e contraddittorietà.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2003, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
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