SLA. Serve Lottare Ancora. Un altro significato, ma anche un diverso modo di affrontare la sigla che tutti conosciamo come Sclerosi Laterale Amiotrofica. Questa la malattia che nel 2011 ha colpito Antonio Spreafico, marito e padre, architetto, volontario, credente.La disperazione sorta nei primi tempi, il dubbio di «farla finita» in qualche clinica svizzera deputata alla «dolce morte»; poi il lento, cosciente e tenace inseguimento a ritroso di una vita e del suo senso profondo fatto di sguardi, abbracci, doni, impegni, volti, passioni e tanta umanità condivisa.
La SLA ha messo in moto questo, e tanto altro, nel cuore e nei giorni di Antonio il quale, attanagliato da una malattia che non ha guarigione, scopre e qui racconta una nuova prospettiva del vivere. Le pagine di Spreafico brillano di un'autoironia curiosa e affascinante, spiccano per una scrittura limpida e coinvolgente, ci portano dentro un dolore umano che diventa lente di ingrandimento per l'esistenza di ciascuno: per cosa vivere? Che cosa resterà di noi? Cosa davvero vale? Sono queste le domande che Spreafico ci suggerisce con indomita speranza, mentre lui è bloccato nell'immobilità di un letto, lucido osservatorio sulle faccende umane di tutti noi. Solo chi ha attraversato la notte oscura della sofferenza può dirci e darci rinnovate motivazioni per i nostri giorni.
ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO
Il caldo è solido come un muro e ci sbatto contro all'uscita dal palazzo del Tribunale. La porta a vetri non si è ancora richiusa alle mie spalle e già sento il bisogno di fermarmi. Mi appoggio a uno dei pilastri che disegnano l'ingresso e sento tiepide le minuscole piastrelle bianche che lo ricoprono. Eppure c'è ombra, qui sotto, in questo spazio che è scavato nel corpo dell'edificio e ne taglia la facciata, perché il primo piano gli sporge sopra e gli offre un soffitto da portico.
Sono in alto allo scalone e quando mi affaccio in pieno sole la luce è abbagliante. La colonna di cemento che ho accanto è bollente. Il caldo era un muro ma adesso è un cappio, mi stringe il collo e mi soffoca. Non so che gli ha preso, quest'anno, all'estate: è come se ce l'avesse con noi, sembra voglia farci pagare qualche misteriosa colpa, sono settimane che non ci dà tregua e un luglio così ce lo ricorderemo per un pezzo.
Boccheggio. Faccio un passo indietro, mi dico che non c'è fretta di peggiorare le cose andando a cuocersi là fuori, così prendo un bel respiro e poi con calma ne prendo un altro. Guardo davanti a me la vecchia caserma, l'angolo dell'isolato che le sta di fronte, la strada che corre verso la rotonda e il ponte. Chissà se almeno in riva al lago tira un filo d'aria.Ho una sensazione strana e sento — ecco, sì — una specie di mattone sullo stomaco. Forse sono rimasto troppo tempo nell'ufficio degli avvocati, a concordare un po' delle mille cose che avevamo in sospeso, e lì di sicuro tenevano il condizionatore troppo alto. Avrei dovuto chiedere che gli scalassero un paio di marce, visto che venivo da fuori ed ero accaldato. Macché. Mi si è gelato il sudore addosso, la prossima volta dovrò starci più attento, ci vuole poco a prendersi un accidente.
Un momento soltanto, adesso vado. Non so neanche più quante volte negli ultimi mesi ho salito e sceso questa scalinata candida che disegna un quarto di cerchio e ha l'andamento di un piccolo anfiteatro convesso. Del resto spostare un Palazzo di Giustizia dal centro città alla periferia è una faccenda complicata, ci sono mille cose alle quali pensare, da prevedere e controllare, da concordare e riverificare, e a dovermi occupare dell'operazione sono io.
I gradini in ogni caso sono dodici, e ci sono giorni nei quali andando su e giù mi sorprendo ancora a contarli in modo automatico: due-quattro-sei... È quel che sto pensando quando mi decido a muovermi e proprio in quel momento, all'improvviso, crollo come un sacco vuoto. Cado. Non riesco a fermarmi. Rotolo. Batto la testa, la schiena, le gambe, la faccia, le braccia e poi ricomincio daccapo: batto la testa, la schiena, le gambe, la faccia, le braccia.
Non pensavo fossero così tanti, dodici gradini: a scenderli in questo modo, come un pupazzo spinto di sotto, sembra non finiscano mai. Ecco, forse sono arrivato in fondo. Sento un fiotto caldo sul viso, sento male dappertutto, sento un dolore lancinante a una spalla e poi tutto prende di nuovo a girare e non sento più niente. Perdo i sensi. Per quanto tempo? Non lo so. Quando riprendo
coscienza, ci sono facce sconosciute intorno a me. Passanti che si sono fermati a soccorrermi, che mi offrono fazzoletti per tamponare il sangue che mi sgorga dal naso, che mi guardano preoccupati, che mi sorreggono e mi aiutano a muovere cinque o sei passi e poi a sedere sulla scala metallica che sale all'ingresso laterale del teatro, quello del palco.
Cosa è successo? Lo chiedono a me. Cosa è successo? Lo chiedo a loro. Un piccolo malore, forse. Colpa del caldo, di sicuro, massì, sono giorni che non si respira. Magari uno sbalzo di pressione, succede. Il cuore è a posto? Mi pare di sì. Tutto bene, vede? Niente di grave. Tranquillo, che abbiamo già chiamato un'ambulanza, è meglio farsi dare un'occhiata, ci vorranno soltanto pochi minuti. Ecco un po' d'acqua fresca, la beva piano.
Li ascolto parlare e fatico a riprendermi. Non riesco più a sollevare il braccio destro, mi accorgo che la faccia mi si sta gonfiando, è come se mi avessero pestato con un martello. Qualcuno nella confusione mi aiuta a comporre il numero sul cellulare, così riesco a chiamare uno dei miei ragazzi e a parlarci io stesso, per non farlo spaventare. Arriverà anche lui di volata, è già in macchina.
Pochi minuti, allora, sì, aspetterò. Per fortuna c'è un filo d'ombra, qui accanto al teatro. La scala di ferro però
è calda e sa di ferro anche il sangue che mi sento scendere in gola. Gesù che botta. Sono spaventato. Non so cos'è successo e perché. Maledetto caldo.