La libertà fondamento della verità. Ermeneutica francescana del pensare occidentale
(Studi francescani) [Libro in brossura]EAN 9788825020120
Il fondo teoretico del discorso è tratto dai pensatori francescani medievali - Bonaventura, Olivi, Scoto, Occam - e ha un taglio realistico, nel senso che è riconducibile alla tesi secondo cui vi è qualcosa al di là del pensiero - il pensiero è inteso come l’orizzonte in cui viene a parola l’essere, in cui si dice la realtà dell’essere. Nell’ottica di tale realismo ontologico - capacità della mente di cogliere l’essere - si ritiene che il divenire dell’ente implica inevitabilmente una connessione ontologica, non però di tipo immanentistico - ad es. spinoziano. Qui siamo davanti all’asserto di una trascendenza forte, di un’alterità del fondamento rispetto all’ente, in forza della quale l’ente non può dirsi prolungamento o partecipazione necessaria, inevitabile dell’essere. La realtà diveniente è una donazione dell’essere. Fin qui l’accordo dei medievali è unanime. Ed è a questo punto che, secondo Todisco, si impone il tratto distintivo della Scuola francescana, e cioè il tema della libertà. A parere dell’autore la libertà va posta al centro, sia nel senso che Dio avrebbe potuto creare un mondo diverso e sia nel senso che avrebbe potuto non crearlo affatto. Il che implica cha il mondo è frutto di libertà. Più che espressione dell’onnipotenza divina o della sua sapienza, il mondo è frutto dell’immaginazione divina. Il mondo è perché voluto. La gratuità è la qualità dell’essere, il senso dell’essere. La gratuità è la verità dell’essere.
Tra le molte implicazioni di questa puntualizzazione una è decisiva. E cioè, la semantizzazione dell’essere non ha luogo in contrapposizione al non-essere – il non-essere del divenire, cui è legato quell’elemento lamentoso, cui per lo più si ritiene legata sia l’esistenza di Dio che una certa religiosità. La semantizzazione dell’essere ha luogo in rapporto all’attualità – a ciò che è, al positi-vo, con tutte le implicazioni teoretiche, oltre che esistenziali. Ne risultano affermati sia il ruolo fon-dante e originario della libertà che la metafisica della gratuità. Accanto a questo fondamentale esito, la recuperata centralità della libertà declassa e insieme lascia inalterata la discussione circa l’indole del divenire, che invece, nel recente passato, ha calamitato l’attenzione dei metafisici. E’ nota la discussione tra Bontadini, Severino e Marino Gentile. Ebbene, tale discorso pare piuttosto successivo, perché riguarda l’indole del divenire, non l’indole dell’essere. Bontadini pensava che, se considerato originario, il divenire appare contraddittorio - porre alle origini il non-essere equivale a considerare positivo il negativo. Non c’è altra via d’uscita che il principio di creazione, con cui la contraddizione viene tolta, nel senso che l’annullamento dell’essere o il venire l’essere dal nulla viene affidato all’onnipotenza dell’atto intemporale di creazione. Severino, al contrario, ritiene contraddittorio il divenire nell’accezione del passaggio dall’essere verso il non-essere, per cui occorre negarne tale diffusa versione, essendo soltanto il progressivo apparire degli essenti e cioè degli eterni. Marino Gentile non condivide la lettura del divenire sia da parte di Bontadini che da parte di Severino, perché ritiene che il principio di non-contraddizione venga giocato da entrambi in base ad un’accezione univocistica dell’essere, e non analogica, come Aristotele. Egli è persuaso che il divenire non è contraddittorio, dal momento che si dà, ma soltanto problematico, bisognoso di un assoluto trascendente che lo giustifichi. Per quanto interessante, questa problematica pare piuttosto un capitolo successivo alla metafisica della gratuità.
In linea con questo esito, l’autore rileva che il grande disegno dell’universalismo moderno non parte dalla logica dell’identità, ma dal criterio della differenza, costituito dalla libertà. A sostegno, egli scende nel sottosuolo, là dove le creature sorgono e progressivamente vengono alla luce, assumendo una specifica configurazione. Ebbene, il primo sussulto dell’essere fa tutt’uno con la li-bertà, nel senso che l’essere e le sue espressioni, più che una sorta di catena aurea, costituiscono lo scenario dell’immaginazione liberale di Dio. Se il mondo con la pluralità dei suoi elementi e lo spettacolo dei fenomeni costituisce l’espressione alta della libertà creativa divina, la storia è il luogo di convergenza delle traiettorie delle differenti storie ed esperienze, lingue e culture, che la com-pongono, quale epifania della capacità creativa della libertà umana. È l’idea forte del volume.
Un capitolo del saggio di particolare suggestione è quello dedicato alla «cura della città», area privilegiata dai francescani. La polis è il luogo della libertà creativa, ove ognuno dovrebbe dar prova della capacità di contribuire all’elevazione della qualità complessiva della collettività. Le dinamiche di aggregazione-disgregazione in costante movimento hanno luogo nelle ‘città’ – non senza perché il termine ‘politica’ richiama la polis o città, quale luogo originario, nel quale la vita è la traduzione costante di differenti esperienze in una logica pregiudizialmente ‘inclusiva’. E poi, non è forse vero che la filosofia - carta di identità dell’Europa pluralista - nasce all’interno della città? Se assunto come un insieme di culture già costituite, il pluralismo è solo un fragile velo che copre le solitudini, e non invece, come dovrebbe, quello spazio del dialéghestai o dialogare, che include in sé il momento del pòlemos, del conflitto, della divaricazione, non però a detrimento dell’intesa e, in ultimo, dell’identità. E non va intesa - e promossa - in questi termini la vita della ‘polis’? Il tema francescano della ‘cura della città’ è prezioso, soprattutto se condividiamo la conclusione di G. Marramao, secondo cui l’Europa è l’unica civilisation che abbia come proprio luogo di incontro la dimensione della città: la città con un centro, con le piazze, con le vie, attraverso cui si comunica. L’America del Nord ha strade, spazio dove si passa, ma non luoghi dove ci si incontra.
È ovvio che la tematica qui richiamata costituisce solo il contesto, nel quale poi viene definito in concreto il volto della libertà, contestualizzandola, con ai margini il mitologema di una natura umana sostanzialmente uniforme nello spazio e invariante nel tempo. Nell’ottica del primato della libertà, il problema dell’identità come identificazione non nega il ruolo della ‘comunità di appartenenza’, perché questa modella credenze, trasmette principi etici, impone norme di comportamento. Invece, però, di identificare se stessi con altri - gruppi o comunità - occorre precisare che si condivide un’identità, grazie al rapporto tra identità personale e identità collettiva, mettendo al centro il principio di autonomia e garantendo la possibilità di giudizi normativi interculturali. In breve, ciò che il primato della libertà impone è la contestazione delle posizioni rigidamente contestualiste, che localizzano la razionalità in una determinata identità culturale, mortificando quella dimensione metaculturale che fa tutt’uno con la libertà. Tra i possibili sbocchi di questo discorso di storicizzazione della libertà quello che forse è da privilegiare è l’identità multipla (multiple Self), con una mappa articolata e plurale di appartenenze, compresi i ‘coinvolgimenti oscillanti’, quale modo efficace per far fronte all’opacità dell’imperialismo dell’identità monolitica. In fondo si tratta di porre a tema e sviluppare quel ‘politeismo dei valori’ che è possibile cogliere al fondo di ogni cultura e portarlo a maturazione. Certo, resta aperta la ‘vexata quaestio’ del nesso tra singolarità e appartenenza, tra azione e relazione, tra progettualità e forme-di-vita, e tuttavia la libertà francescana, assunta come chiave ermeneutica del pensare e del convivere, offre validi spunti per contenere entro un quadro comunionale la conflittualità, spia e salvaguardia dei molti.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2008, nr. 2
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
Con quest’ultima fatica, che conclude la trilogia aperta con Lo Stupore della ragione. Il pensiero francescano e la filosofia moderna (Padova, Messaggero 2003, II ed. 2008) e proseguita con Il dono dell’essere. Sentieri inesplorati del pensiero francescano (ibidem, 2006), Orlando Todisco non solo si conferma uno studioso autorevole della filosofia medioevale ( la cui galleria – da Bonaventura a Scoto a Occam – si arricchisce, ora, con Alessandro di Alessandria e con Gioacchino da Fiore), ma anche un pensatore originale, capace di confrontarsi in modo creativo con la riflessione moderna (si pensi, per esempio, alle pagine su Raimondo Lullo e su Cusano) e postmoderna, verso cui rivela una acuta sensibilità per così dire ‘empatica’. Ed è questa che gli permette di riproporre, con credibilità speculativa e in termini nuovi, una problematica ed un pensiero storicamente così lontani dalla mentalità contemporanea e tuttavia ad essa non estranei perché in essa si trovano – e noi ritroviamo- le nostre radici storico-culturali. Basterebbe pensare al rapporto fra razionalismo e volontarismo, termini e categorie, peraltro, che pur integranti una tradizione quasi millenaria, rimandano, nonostante la continuità, a due diversi lessici speculativi: ciò che non va mai dimenticato.
In una situazione storico-culturale come la post-modernità, in cui la verità ha perso il valore di fondamento e si risolve (in quanto scientifico-tecnica) nella razionalità strumentale (allo scopo) e dunque in pratico-utilitaria, in conclusione in potere e dominio, quale senso ha concepire la religione (le religioni) in termini di verità? Di fronte a questa domanda, che costituisce l’implicita motivazione del libro, pare difficile sottrarsi all’alternativa: o si ritorna al precedente concetto di verità (fondativo-teleologico) con l’inevitabile rischio tipico di ogni cultura, se non reazionaria, tradizionalista ma comunque estranea alle correnti di pensiero e alle problematiche contemporanee, oppure si opta per l “aliud initium libertatis”, cioè per un nuovo punto di partenza speculativo, quello appunto della libertà-volontà, più precisamente della libertà “creativa”, quale “logica” della gratuità (originaria e divina e quindi umana), della differenza e della cooperazione- comunione, opposta perciò a quella del pensiero “necessitario” o razionalistico. Libertà che si qualifica “creativa” in risposta alla libertà-autonomia moderno-contemporanea (sia nella sua versione idealistico- storicistica sia in quella individualistico-atomistica di stampo liberalistico- democratico). La continuità, invece, in questo caso è rappresentata da quella che potremmo definire la filosofia “preambolare”, che cioè si pone il problema religioso della fede cristiana, naturalmente per l’uomo contemporaneo. Si sa che la filosofia dei “preambula fidei” nasce e si sviluppa nell’età medievale, caratterizzata dall’esperienza di una ragione di fede, mentre quella moderna possiamo rispettivamente e simmetricamente definirla l’esperienza della fede nella ragione e quella contemporanea ( e soprattutto post-moderna) della perdita della fede nella ragione sia nella fase irrazionalista che in quella (neo) relativista.
Perdita, in conclusione, della fede nella ragione che corrisponde anche alla perdita della fede nella fede (religiosa). In buona sostanza, se il presupposto di fondo del Medioevo è la fede cristiana e su di esso poggia l’idea anselmiana di Dio quale a priori intellettuale, il presupposto di fondo dell’età moderno-contemporanea è la libertà dell’uomo, l’uomo come libertà. Di qui la proposta-risposta di Todisco, nel solco della filosofia francescana da lui progressivamente ricostruita: solo una concezione di Dio come libertà assoluta e, dunque, dell’uomo come libertà costruttiva può venire assunta quale il nuovo a priori intellettuale in grado di conciliare la fede con la ragione (non solo nel senso riduttivamente gnoseologico, ma, vorrei dire, antropologico- integrale). La tesi essenziale di Todisco si può così esprimere: Dio ha creato l’uomo e il mondo, ma avrebbe potuto non crearlo, perchè la sua onnipotenza e la sua essenza si misurano in base alla libertà. Libertà divina che coincide con la bontà e l’amore: è il bene la fonte e la forma del vero.
La prospettiva si delinea e si definisce, per il suo intimo legame al presupposto teologico-religioso, il Dio-amore che sta alla base del dono dell’essere. Tale opzione non pare compiuta in modo gratuito – sono molte e forti le ragioni che lo portano a questa scelta dottrinale. E’ innegabile, perciò, la sua maggiore adeguatezza “preambolare” (e, quindi, indirettamente apologetica) alla cultura postmoderna rispetto alla prospettiva razionalista tradizionale. E la ragione della sua pluasibilità sta nel fatto che questa impostazione - del “bonum” quale il “verum” di Dio - non si pone come esclusiva, ma, al contrario, come inclusiva della razionalità e quindi della verità. Con questa impostazione Todisco ribalta, in un certo senso, il principio di Hume: non è dall’essere che si risale, a stregua del razionalismo metafisico tradizionale, al dover essere (al bene morale) - secondo la celebre fallacia naturalistica, da Hume denunciata e superata -, ma è dal dover essere - il bene - che si recupera la verità dell’essere, l’essere come verità. Una posizione che obbliga gli studiosi a un ripensamento approfondito di tesi solo apparentemente pacifiche. Qualunque sia il giudizio, che si vorrà dare, non si può non ammettere che è un volume che “dà da pensare”.
Tratto dalla Rivista di Scienze dell'Educazione n. 1/2009
(http://www.pfse-auxilium.org)
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