La teologia e la politica. Controversie dottrinali, curia romana e monarchia spagnola tra Cinque e Seicento
(Biblioteca Riv. storia lett. rel. Studi)EAN 9788822258878
Non c'è stato mai forse in età moderna un periodo in cui la teologia ha avuto un ruolo così rilevante come quello che va dalla seconda metà del Cinquecento alla prima metà di quello seguente, almeno per ciò che riguarda i rapporti politici tra Spagna e Santa Sede, il che non toglie che nello stesso lasso di tempo anche la Francia e Venezia ad esempio abbiano avuto un ruolo in un settore analogo, sempre comunque riguardante la commistione tra teologia e politica, tra pensiero religioso e diritto.
Il terreno su cui la Spagna e Roma si misurarono con un dispiegamento di forze senza pari riguardò soprattutto due problemi: quello del rapporto tra libertà umana e grazia divina, che sarebbe dovuto sfociare nelle famose discussioni de auxiliis, e quello della definibilità o meno della concezione immacolata di Maria, che contrappose chi voleva a tutti i costi tale definizione e chi invece vi si opponeva con non minore decisione in quanto contraria a suo parere alla redenzione universale di Cristo. Tre gli Ordini religiosi che ebbero un ruolo vitale in tali accese dispute dottrinali, sia pure, per il terzo, soltanto per quanto riguarda uno solo dei problemi in discussione. A essere costantemente sulla breccia furono in effetti i gesuiti e i domenicani, cosa che si verificò sia ai tempi delle sedute della Congregazione de auxiliis che a quelli del contrasto sull'Immacolata. Su quest'ultimo problema intervennero però presto e più decisamente che mai, grazie a una linea legata a un vecchia presa di posizione che si richiamava a una celebre affermazione di Duns Scoto, anche i francescani. Un ruolo di rilievo ebbero pure religiosi di altri Ordini, ma a livello prevalentemente individuale.
Alludo, per quanto riguarda la polemica sulla grazia, soprattutto al mercedario Francisco de Zumel, grande accusatore, insieme al domenicano Domenico Baiiez, di Molina a proposito della scienza media teorizzata nella sua Concordia, per tutti e due fortemente sospetta di pelagianesimo, mentre i gesuiti accusavano a loro volta gli avversari di negare di fatto la libertà umana e di accodarsi così ai protestanti. Per quanto riguarda invece la questione dell'Immacolata, il riferimento è tra gli altri al benedettino Placido de Tosantos. I gesuiti in particolare, con la loro diversa interpretazione del tomismo, un tomismo a loro parere più aperto e non rigido come quello dei domenicani, rispecchiavano strategie che avevano spessore, nello stesso tempo, culturale, pedagogico e missionario, strategie quindi che andavano ben al di là dei problemi strettamente teologici posti alla base dei contrasti. A loro volta i sovrani e quanti avevano interessi politici badavano soprattutto, sia pure con strumenti strettamente religiosi, a migliori equilibri di potere, che altri potentati (come poi per es. la Francia di Luigi XIV) preferiranno raggiungere per altra via, magari quando erano maggiormente in difficoltà . Questi intrecci di questioni portavano talora a strane alleanze, quale quella tra i domenicani e i fautori dell'agostinismo e dei filogiansenisti alla Pascal, o tra i francescani favorevoli all'agostinismo e i gesuiti orientati in senso opposto. Nello stesso tempo le accuse di eresia fioccavano da una parte e dall'altra, sõÁa dai pulpiti che nei collegi teologici, tanto sulle piazze che negli scritti. La querelle sulla grazia era cominciata con Baio a Lovanio, cui si era subito opposto il gesuita Lessius a nome dei suoi confratelli.
Non per niente quando, qualche anno dopo, Molina fece stampare la sua opera a Lisbona fu proprio Lessius a plaudire dal Belgio. In tutti questi trambusti la Santa Sede e i papi in particolare si diedero da fare come mediatori attestandosi in genere sulla linea fatta propria dal Concilio di Trento, anche perché una presa di posizione netta in un senso o nell'altro avrebbe facilmente portato alla condanna di un intero Ordine e della sua stessa identità, i gesuiti in un caso, i domenicani nell'altro. A sostenere maggiormente le attese dilatorie dei gesuiti con argomenti chiari e convincenti fu, tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, Roberto Bellarmino, che però pagherà con l'allontanamento da Roma la sua pressione in tal senso su Clemente VIII. E appena il caso di ricordare che il cardinale gesuita alcuni anni dopo provocherà un'accesa polemica collaterale con il suo De gemitu columbae, uno scritto che sembrò mettere in cattiva luce tutti gli Ordini meno recenti del suo. Anche nel caso dell'Immacolata si contrapposero l'interventismo spagnolo e un interventismo apparentemente rispettoso delle prerogative della Santa Sede ma in realtà proteso all'assorbimento della Chiesa da parte dello Stato e quindi, al dire di interessati osservatori esterni, ipocrita, e l'attendismo romano. Ci fu un legame tra le due querelles? Pare di sì, se stiamo a quanto lo spagnolo padre Lugo suggerì in una lettera ai suoi confratelli gesuiti: essi avrebbero fatto bene a contrastare i domenicani sull'Immacolata nell'intento di «distogliere forze» dall'azione incessante che a Roma questi ultimi stavano mettendo in atto in difesa della loro posizione filoagostinista e quindi antimolinista (cfr. p. 156).
La politicizzazione delle controversie teologiche, in pratica l'ingerenza dei politici in questioni puramente religiose, venne gestita dai sovrani spagnoli in persona. Questi, in un primo tempo, anche per ridare spazio all'inquisizione spagnola esautorata dall'avocazione romana (in concreto da Clemente VIII) della questione sollevata da Molina, si fecero fautori dell'attendismo dei gesuiti (con Filippo II): in un secondo tempo sposarono la causa opposta, quella cioè dei domenicani, che avrebbero voluto che i papi revocassero il silenzio che Paolo V aveva imposto alle parti nel 1607 anche per alleggerire la pesante situazione che si era creata con l'Interdetto nei confronti di Venezia e premiare nello stesso tempo i gesuiti che in quel caso non avevano esitato a schierarsi in favore di Roma (con Filippo III); in un terzo tempo tornarono a favorire la causa dei gesuiti, sposando questa volta la definibilità dell'Immacolata, sia pure, a loro dire, solo per garantire la pace e bandire gli «scandali» nel proprio regno (con Filippo III e Filippo IV). La svolta mise in difficoltà i domenicani, che, specialmente attraverso il confessore del re (Luis de Aliaga) a Madrid e il maestro del sacro Palazzo a Roma, erano soliti far pressione sui vertici romani. L'Ordine di S. Domenico seppe però destreggiarsi a sufficienza in quest'ultima circostanza, sia favorendo i tentativi di conciliazione in atto tra i due Ordini da una parte e dall'altra, sia facendo leva sul fatto che non era mai mancato al suo interno chi come Ambrogio Catarino Politi e Tommaso Campanella era stato libero battitore di opinioni vicine a quelle dei propri avversari, il che sfatava la diceria che l'Ordine fosse solo capace di sostenere un tomismo rigido, sia allineandosi per ragioni prettamente politiche con la scelta immacolista della monarchia spagnola. In tali scontri dottrinali a farla da protagonisti assoluti erano i teologi e i canonisti dei vari Ordini, i veri e propri professionisti delle controversie, che i sovrani utilizzano per le loro pretese giurisdizionali e che gli stessi papi, al dire di alcuni, avevano interesse a non tacitare per continuare ad esercitare il loro ruolo arbitrale e quindi imporre il proprio potere (cfr. p. 199). Un teologo gesuita. Juan de Pineda, arrivò però ad affermare che sull'Immacolata la vox populi, quella del popolo spagnolo in particolare (il nuovo «popolo eletto»), era la stessa vox Dei e che non era quindi necessario alcun ulteriore intervento in merito da parte dell'autoritaÁ romana (pp. 174-180). Quanto detto fin qui dà un'idea della compiessità dei problemi messi in luce dall'Autore nella sua densa ricerca, non sempre chiara a una prima lettura. In tutti i casi, Broggio - che non esita a richiamare l'attenzione anche su periodi diversi da quelli studiati ex professo nel libro, per es. l'Ottocento e il Novecento - ha il merito di aver gettato molta luce su una serie di discussioni dai mille volti.
Ha saputo cioè districarsi a suo agio in un ginepraio di posizioni con una notevole capacità critica, servendosi di tutta una serie di studi apparsi negli ultimi anni nelle diverse lingue, ma ricorrendo pure ai più diversi archivi nei casi in cui certi punti non erano stati prima di lui sufficientemente chiariti. Ciò non toglie, a mio parere, che su qualche punto secondario il discorso vada ulteriormente calibrato. Per es. a proposito del convento «generalizio» della Minerva (a p. 40), che sarebbe stato «dichiarato» tale in quanto «venne messo a capo di tutte le altre case della Provincia Romana». Come pure a proposito della «prolissità» della Summa Theologiae tomistica, che qualcuno poté definire tale (a p. 48), ma solo in un senso molto relativo perché in sé non lo è mai stata. Non per niente fu concepita e si presenta anche oggi ai suoi lettori come una sintesi, un compendio, caratteristica che traspare anche dal titolo. Quisquiglie, come sì vede.
Tratto dalla rivista "Sapienza. Rivista di Filosofia e di Teologia" n. 1/2010
(http://www.edi.na.it)