Virtù e felicità in Kant
EAN 9788822255754
L’investigazione che Tafani espone in questo libro, breve, ma densissimo, riguarda esclusivamente alcune vicende interne al pensiero kantiano relativamente alla felicità, alla virtù e al sommo bene, temi sui quali l’Autrice delinea la storia di tre fallimenti strettamente intrecciati. A tale riscontro essa perviene con un’attenta e minuziosa lettura di tutti i testi kantiani pertinenti, non solo quelli delle sue classiche opere pubblicate. Perciò le argomentazioni, i cambiamenti, le incongruenze da essa rilevate valgono esclusivamente per quei tre temi così come sono concettualizzati da Kant: si tratta di difficoltà rigorosamente interne al suo pensiero, ma rendono avvertito il lettore sul fatto che alcune posizioni sostenute da Kant nelle sue opere classiche egli stesso le ha poi modificate o abbandonate. Sulla felicità, che Kant intende sempre e solo come soddisfacimento totale dei bisogni della natura sensibile dell’uomo, la posizione iniziale di Kant, esposta nelle Reflexionen degli anni ’70, era stata che essa costituiva un sistema coerente di inclinazioni e di fini, unificato dalla legge morale; perciò la virtù, intesa da Kant sempre e solo come conformità della volontà libera alla legge morale, era ridotta a mezzo per il conseguimento della felicità. Tuttavia Kant sostenne anche sempre il primato assiologico della virtù. Questa incongruenza lo portò ad un’impressionante svolta nella Critica della ragion pura (1781), dove negò che la felicità fosse un concetto né empirico né puro. Nella Fondazione (1785) negò che la felicità fosse perseguibile perché, priva di ragione, essa non era più ordinabile in un sistema. Perciò gl’imperativi della prudenza (per Kant sempre funzionale alla felicità) diventavano solo più consigli, e nella Critica della ragion pratica (1788) nemmeno più pratici, ma teoretici. «Con ciò l’espulsione della dottrina della felicità dalla filosofia pratica è completa» (p. 16). Tuttavia Kant non svaluta la felicità medesima, bensì la subordina assiologicamente alla virtù, la quale come bene incondizionato e supremo richiede anche una felicità commisurata alla virtù. Ma anche la dignità di essere felici, che fu una costante del pensiero di Kant, dovette essere diversamente spiegata. Nel periodo precritico Kant la ricavava dall’essenziale riferimento della virtù alla felicità: se tutti fossero virtuosi, tutti sarebbero felici; poiché non tutti sono virtuosi, il virtuoso diventa degno di felicità; ma questa gli può essere conferita da Dio in ragione della bontà di Dio. Tuttavia questa gratuità mal s’accorda con la dignità; perciò Kant riduce poi la dignità alla non indegnità. Ma anche questa riduzione confligge con la tesi contestuale di Kant, secondo la quale l’assenza di un premio alla virtù costituirebbe un’obiezione contro la morale, rendendola chimerica. Perciò nella Critica della ragion pratica (1788) Kant elaborò un’interpretazione alternativa della dignità di essere felice, in base alla quale è la ragione pratica pura ad esigere che alla virtù faccia seguito una felicità proporzionata ad essa, e ad esigerla per giustizia, senza che intervenga la bontà divina. Ma, nota Tafani, questa necessità morale è assunta dogmaticamente; all’obiettore appare come mera petizione di principio. Ecco il primo fallimento; fallimento inevitabile, data la congerie eteroclita degli ingredienti del pensiero kantiano: la sua concezione della felicità e della virtù ed elementi della dottrina cristiana; i termini stessi del problema entro i quali si dibatte Kant sono incongrui. Anche sulla virtù Tafani riscontra un altro fallimento di Kant, il quale prima nega poi afferma un fine alla volontà morale, e finisce col non poter dedurre un simile fine. Kant iniziò con l’escludere ogni fine dalla volontà morale, sia per i doveri perfetti sia per i doveri imperfetti. Nella Fondazione (1785) propose per i primi un test forte di universalizzazione e per i secondi un test debole, indipendente da fini, per mantenere la pura razionalità a priori della morale, la sua priorità sul bene. Ma il test debole si riduceva ad una petizione di principio; e per i doveri perfetti Kant assegnava un fine non da perseguire ma da rispettare, l’uomo come fine in sé. Nella Critica della ragion pratica (1788), pur mantenendo la priorità della legge morale sul bene come fine della volontà, sostenne che un fine della ragione pratica pura deriva necessariamente dalla legge morale: nella sua totalità incondizionata esso è il sommo bene, inteso come sintesi di virtù e felicità proporzionata ad essa. Così però introduceva un’incongruenza nella morale, la quale non deve dipendere dalla realizzabilità empirica di effetti dell’azione e tuttavia ne dipende per la realizzazione del sommo bene. Nello scritto sulla Religione (1793) egli mantenne l’imperativo del sommo bene, ma solo come imperativo sintetico a priori. Ma anche così esso resta incongruo con la tesi tipicamente kantiana che la legge morale non ammette fini determinanti per la volontà. Non potendo affermare per la morale fini da realizzare e non potendo la volontà fare a meno di fini, Kant, nelle lezioni Vigilantius di filosofia morale tenute tra il 1793 ed il 1794, introdusse una novità inaudita: ammise la necessità di fini materiali delle azioni morali, cioè il principio della benevolenza per il fine universale della felicità (das Wohl). Kant mantenne questa nuova posizione nei Princìpi metafisici della dottrina della virtù (1797) sia in ragione dell’impossibilità che si diano azioni senza scopo, sia per la necessità di contrapporre un fine morale alle potenti inclinazioni della natura sensibile. Ma non riuscendo a dedurre dal dovere fini materiali morali, concluse, nel § 10 della Metafisica dei costumi (1797) che il fine a priori della ragione pura pratica, fine che è anche dovere, è la virtù come fine a se stessa e ricompensa a se stessa. Di nuovo si può notare che questo fallimento nel riconoscere fini materiali buoni, moralmente doverosi, è la conseguenza dei termini kantiani del problema: la nozione di bene, di volontà, di ragione pratica, di legge morale. La lezione da ricavare dai tentativi e dal fallimento di Kant, vista la logica rigorosa con cui arriva alle conclusioni, e che sono da rivedere i termini kantiani del problema. Il terzo fallimento riscontrato da Tafani riguarda la dottrina kantiana del sommo bene. Egli lo intese sempre come un modo in cui tutte le creature ragionevoli sono felici e degne di esserlo in ragione della loro virtù; ma oscillò nel modo di spiegare la proporzione di virtù e felicità. Questa connessione, essendo derivativa, non poteva essere garantita che da Dio creatore. L’esistenza di Dio era argomentata per via di ragione pratica, come condizione necessaria per la possibilità del sommo bene. Nella Critica della ragion pratica (1788) Kant formulò il noto argomento a partire dalla legge morale come Faktum der Vernunft; il sommo bene costituiva la totalità del contenuto prescrittivo dell’imperativo categorico, ossia l’oggetto necessario della volontà buona; esso dev’essere possibile, perché, ultra posse nemo obligatur, e questa possibilità postula l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. Ma i contemporanei di Kant fecero notare alcune aporie in questo argomento, le quali indussero Kant ad una drastica revisione della dottrina del sommo bene. Nella Critica del giudizio (1790) Kant mantenne che la legge morale sussiste anche se il sommo bene fosse inattuabile; la possibilità del sommo bene è necessaria solo soggettivamente; perciò non era più necessario il postulato dell’immortalità dell’anima e la necessità di Dio come condizione del sommo bene diventava solo soggettiva. Anzi, nello scritto sulla Religione (1793) il bisogno soggettivo d’un fine, come il sommo bene, per compiere il dovere diventa un limite dell’uomo e della sua facoltà razionale pratica. Ne segue che l’esistenza di Dio, che già non aveva fondamento teoretico, ora non ha nemmeno più fondamento pratico. Il sommo bene poteva essere solo più un fine immanente alla storia, frutto del progresso morale del genere umano. Noto in sintesi: 1) la dignità di essere felici non può essere dimostrata per la virtù; 2) la virtù è fine e ricompensa a se stessa; 3) la legge morale sussiste anche senza sommo bene. Data la concezione kantiana della morale e della virtù, essa non può recepire fini, beni, felicità, che pure sono oggetto insopprimibile del desiderio umano. Quindi o è sbagliato l’uomo o è sbagliata la morale di Kant.
Tratto dalla rivista "Salesianum" 72 (2010) 1, 192-194
(http://las.unisal.it)
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