Un percorso in sette tappe, condotte da padre Raniero Cantalamessa, predicatore del Papa, per scoprire la figura di Cristo prendendo spunto dai principali dogmi su Gesù formulati dalla Chiesa nel corso dei suoi due millenni di storia. Raniero Cantalamessa suggerisce riflessioni e percorsi di approfondimento spirituale, aiutando il lettore a instaurare, nella conoscenza, nella fede, nella preghiera e mediante scelte della vita concreta, un rapporto reale con la persona umana e divina di Gesù, perché non c'è vocazione più bella di innamorarsi di Cristo per poi far innamorare di lui altri. Conoscere Gesù: un percorso sotto la guida di Raniero Cantalamessa.
INTRODUZIONE
L'EROE E IL POETA
«Effonde il mio cuore liete parole, io canto al Re il mio poema» (Sal 45)
Ci sono diverse vie, o metodi, per accostarsi alla persona di Gesù. Si può, per esempio, partire direttamente dalla Bibbia e, anche in questo caso, si possono seguire diverse vie: la via tipologica, seguita nella più antica catechesi della Chiesa, che spiega Gesù alla luce delle profezie e delle figure dell'Antico Testamento; la via storica, che ricostruisce lo sviluppo della fede in Cristo a partire dalle varie tradizioni, autori e titoli cristologici, o dai diversi ambienti culturali del Nuovo Testamento. Si può, viceversa, partire dalle domande e dai problemi dell'uomo d'oggi, o addirittura dalla propria esperienza di Cristo, e da tutto ciò risalire alla Bibbia. Sono tutte vie largamente esplorate.
La Tradizione della Chiesa ha elaborato, ben presto, una sua via di accesso al mistero di Cristo, un suo modo di raccogliere e organizzare i dati biblici che lo riguardano, e questa via si chiama il dogma cristologico, la via dominatica. Per dogma cristologico intendo le verità fondamentali intorno a Cristo, definite nei primi concili ecumenici, soprattutto in quello di Calcedonia, le quali, nella sostanza, si riducono ai seguenti tre capisaldi: Gesù Cristo è vero uomo, è vero Dio, è una sola persona.
In queste meditazioni ho cercato di accostarmi alla persona di Gesù Cristo seguendo, appunto, questa via classica della Chiesa. Si tratta infatti di sei riflessioni, dedicate due all'umanità di Cristo, due alla divinità e due alla sua unità di persona. Ad esse segue un capitolo conclusivo, di carattere alquanto diverso dagli altri, una specie di excursus, in cui cerco di dare una valutazione critica delle tesi avanzate di recente, in alcune cosiddette «nuove cristologia», soprattutto sul problema della divinità di Cristo.
Il dogma cristologico non vuole essere una sintesi di tutti i dati biblici, una sorta di distillato che racchiude in sé tutta l'immensa ricchezza delle affermazioni riguardanti Cristo che si leggono nel Nuovo Testamento, riducendo il tutto alla scarna e arida formula: «due nature, una persona». Se così fosse, il dogma sarebbe tremendamente riduttivo e anche pericoloso. Ma non è così. La Chiesa crede e predica di Cristo tutto ciò che il Nuovo Testamento afferma di lui, nulla escluso. Mediante il dogma, ha solo cercato di tracciare un quadro di riferimento, di stabilire una specie di «legge fondamentale» che ogni affermazione su Cristo deve rispettare. Tutto ciò che si dice di Cristo deve ormai rispettare quel dato certo e incontrovertibile: cioè che egli è Dio e uomo nello stesso tempo; meglio, nella stessa persona.
I dogmi sono delle «strutture aperte», pronte ad accogliere tutto ciò che di nuovo e di genuino ogni epoca scopre nella parola di Dio, intorno a quelle verità che essi hanno inteso definire, ma non chiudere. Sono aperti ad evolversi dal loro interno, purché sempre «nello stesso senso e nella stessa linea». Senza cioè che l'interpretazione data in un'epoca contraddica quella dell'epoca precedente.
È ben vero, tuttavia, che nel corso dei secoli si è dimenticato talvolta questo ruolo del dogma e si è rovesciato il suo rapporto con la Scrittura, in modo tale che la Scrittura non era più la base e il dogma l'esponente, ma il dogma la base e la Scrittura l'esponente. Cioè non era più il dogma che serviva a spiegare la Scrittura, ma la Scrittura che serviva a spiegare il dogma, ridotta, com'era spesso, a tante piccole frasi staccate, addotte a riprova di tesi dommatiche già costituite, come una delle tante «prove», accanto a quella tratta dalla ragione, dalla tradizione, dalla liturgia ecc.
Una volta restituito al suo significato originario, il dogma costituisce, oggi come sempre, la via più sicura per muovere alla scoperta del vero Gesù. E non solo la più sicura, ma anche la più bella, la più giovane, la più ricca di promesse, come tutte le cose che non sono improvvisate da un giorno all'altro, seguendo magari l'ultima teoria in voga, ma che sono maturate lentamente, quasi al sole e all'acqua della storia, e alle quali hanno arrecato il loro contributo tutte le generazioni. «La terminologia dommatica della Chiesa primitiva — ha scritto Kierkegaard — è come un castello fatato, dove riposano in un sonno profondo i prìncipi e le principesse più leggiadre. Basta soltanto svegliarli, perché balzino in piedi in tutta la loro gloria»'.
Accostarsi a Cristo per la via del dogma non significa perciò rassegnarsi a ripetere stancamente sempre le stesse cose su di lui, magari cambiando soltanto le parole. Significa leggere la Scrittura nella Tradizione, con gli occhi della Chiesa, cioè leggerla in modo sempre antico e sempre nuovo. La verità rivelata — diceva sant'Ireneo — è «come un liquore prezioso contenuto in un vaso di valore; per opera dello Spirito Santo, essa ringiovanisce sempre e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene». La Chiesa è in grado di leggere la Scrittura in modo sempre nuovo, perché essa stessa è resa sempre nuova dalla Scrittura! Ecco il grande e semplicissimo segreto scoperto da sant'Ireneo e che spiega la perenne giovinezza della Tradizione e quindi dei dogmi che ne sono l'espressione più alta.
In quelle parole di sant'Ireneo è detto anche, però, qual è la condizione, o meglio l'agente principale di questa perenne novità e giovinezza: è lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo guida la Chiesa a raccogliere gli stimoli sempre nuovi che, via via, salgono dalla storia e dal pensiero degli uomini (i cosiddetti «segni dei tempi») e, sotto questa spinta, a leggere in maniera sempre nuova e più profonda la parola di Dio. Un padre della Chiesa chiama lo Spirito Santo «luce dei dogmi». È una definizione stupenda che ci apre a una speranza ardita. In questo nostro tempo, in cui stiamo invocando e, in parte, sperimentando, un rinnovamento ad opera dello Spirito Santo di tante cose nella Chiesa — della preghiera, della vita religiosa, delle istituzioni —, di colpo ci si profila un altro campo in cui lo Spirito Santo può e vuole portare una vitalità nuova: quello del dogma.
Rinnovare il dogma nello Spirito Santo non significa parlare più spesso che si può dello Spirito Santo, a proposito di qualsiasi questione di teologia. Lo Spirito Santo è come la uce. La luce illumina e fa vedere le cose, non quando la si ha davanti agli occhi, o quando se ne fissa la sorgente, ma quando la si ha dietro le spalle ed essa rischiara tutto ciò che ci sta davanti, tenendosi, per così dire, in disparte. Lo Spirito è colui che proietta la luce su Gesù Cristo e rivela il suo mistero (cfr. Ef 3,5). Come non si può proclamare che «Gesù è il Signore», se non «nello Spirito Santo» (cfr1Cor 12,3); così non si può proclamare che egli è «vero Dio e vero uomo», se non «nello Spirito Santo». La stessa differenza che esiste, dal punto di vista strettamente religioso dell'arte sacra, tra un'icona orientale della Madre di Dio e una Madonna di Leonardo, di Botticelli, o di Raffaello, o esiste anche tra un discorso su Cristo fatto «nello Spirito Santo» e un discorso, anche sapientissimo e tecnicamente perfetto, ma non fatto nello Spirito Santo. Uno aiuta a credere e a pregare, l'altro no.
In ciò il dogma condivide, fatte le debite distinzioni, la prerogativa della Scrittura. La Scrittura, ispirata dallo Spirito Santo, non può essere compresa, nella sua intenzione più profonda, se non è letta «spiritualmente», cioè nello Spirito Santo, e anche il dogma, definito dalla Chiesa sotto l'influsso dello Spirito Santo, non può essere compreso, nella sua natura e dinamica profonda, se non nella luce dello stesso Spirito Santo.
In queste meditazioni mi propongo proprio tale scopo.. mostrare come lo Spirito Santo, che vivifica ogni cosa nella Chiesa, può vivificare anche e soprattutto il dogma cattolico, farlo brillare di luce nuova, fare innamorare di esso i credenti, dopo averlo riportato vicino alla loro esperienza. Mostrare come il dogma non è solo portatore di certezze, ma anche di energie per la Chiesa. Tentare, insomma, un abbozzo di cristologia «spirituale».
In un'epoca come l'attuale, in cui si assiste a un diffuso rifiuto di tutto ciò che, nella fede, vi è di oggettivo, di tramandato e di dottrinalmente vincolante, a favore di nuove forme di religiosità estemporanee ed esoteriche in cui tutto è lasciato al gusto spirituale dell'individuo e alla propria «esperienza», riscoprire la vera natura e il vero «volto» dei dogmi della fede cristiana appare un compito urgente e vitale. «Una cosa sola — diceva Tertulliano, rivolto ai pagani del suo tempo — chiede la verità cristiana: di non essere condannata, senza essere conosciuta: ne ignorata damnetur».
Magari quello che riuscirò, di fatto, a dire, è ben poca cosa, ma mi basta mostrare questa possibilità, lanciare l'idea, nella speranza che essa sia raccolta e realizzata da altri che potranno farlo meglio di me. In questo tentativo mi è stata di grande aiuto l'opera di Kierkegaard, il quale — a parte alcune debite riserve — ha avuto il grande merito di calare le verità dommatiche della Chiesa antica nel vivo del pensiero moderno, senza tuttavia dissolverle in esso, dimostrando, in tal modo, che le due cose — dogmi di fede e pensiero moderno — non sono affatto, come talvolta si è pensato, incompatibili tra di loro.
Una parola infine sullo scopo pratico e sui destinatari di queste riflessioni. Esse sono nate come meditazioni tenute alla Casa Pontificia, durante l'Avvento. Se mi decido a darle alle stampe è nella speranza che possano servire come un'integrazione, per quanto modesta, e in qualche caso anche come un correttivo, da tener presente durante lo studio della cristologia.
Ma più ancora che allo studio, è mio desiderio portare un piccolo contributo all'annuncio del Cristo oggi. In vista di una «nuova ondata» di evangelizzazione, in preparazione all'avvento del terzo millennio dalla nascita di Cristo, c'è bisogno non solo di specialisti di cristologia, ma anche e soprattutto di innamorati che sappiano parlare di lui e preparargli le strade con la stessa umiltà e con lo stesso ardore con cui lo fece, la prima volta, il Precursore Giovanni Battista. «Quel Dio — ha scritto ancora Kierkegaard — che ha creato l'uomo e la donna, così ha formato l'eroe e il poeta o l'oratore. Questo non può fare ciò che fa quello; egli può soltanto ammirare, amare, rallegrarsi con l'eroe. Tuttavia anch'egli è felice, non meno di quello. Infatti l'eroe è la sua migliore essenza, ciò di cui è innamorato, felice di non esserlo lui stesso. Così che il suo amore può manifestarsi con l'ammirazione. Egli è il genio del ricordo che non può fare nulla senza ricordare quel che è stato fatto, nulla fare senza ammirare ciò che è stato fatto, nulla prende del suo, ma ègeloso di ciò che gli è stato affidato. Egli segue la scelta del suo cuore, ma quando ha trovato ciò che cerca, allora va di porta in porta con i suoi canti e i suoi discorsi, proclamando che tutti devono ammirare l'eroe come fa lui, essere fieri dell'eroe come lo è lui. Questo è il suo mestiere, l'umile sua azione, questo è il suo fedele servizio nella casa dell'eroe».
Mi riterrei felice se ci fosse anche un solo giovane che dalla lettura di queste riflessioni si sentisse nascere dentro la vocazione a essere anche lui del numero di quei poeti e ammiratori che se ne vanno di porta in porta, di città in città, proclamando il nome e l'amore di Cristo, l'unico vero «eroe» del mondo e della storia. Unico perché anche Dio.
ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO
«IN TUTTO SIMILE A NOI, ECCETTO IL PECCATO»
La santità dell'umanità di Cristo
Nel quarto vangelo è riferito un episodio che ha tutta l'apparenza di essere l'equivalente giovanneo della confessione di Pietro a Cesarea di Filippo. Quando, dopo il discorso nella sinagoga di Cafarnao sul pane di vita e la reazione negativa di alcuni discepoli, Gesù domanda agli apostoli se anche loro vogliono andarsene, Pietro risponde: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68-69).
Il «Santo di Dio»: questo titolo sta qui al posto del titolo «Cristo» (Mc 8,29), o «Cristo di Dio» (Lc 9,20), o «Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16) che si ha nella confessione di Pietro a Cesarea. Anche in questo caso, la dichiarazione di Pietro si presenta come una rivelazione dall'alto e non come frutto di un ragionamento o deduzione umana.
Nei vangeli ritroviamo questo stesso titolo «Santo di Dio» in un contesto diametralmente opposto, anche se ambientato anch'esso nella sinagoga di Cafarnao. Un uomo posseduto da uno spirito immondo, all'apparire di Gesù, si mette a gridare: «Che abbiamo a che fare con te, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? So bene chi sei: il Santo di Dio!» (Lc 4,34). La stessa percezione della santità di Cristo qui avviene per contrasto.
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Rosalba Saporito il 2 maggio 2016 alle 12:50 ha scritto:
Molto utile e di grande insegnamento