«Ci ha parlato per mezzo dei profeti»
-Ermeneutica biblica
(Lectio)EAN 9788821575532
Gli antichi Greci avevano dato forma a un diffuso e collaudato convincimento, che cioè tra la divinità e l’umanità doveva essere possibile, anzi necessaria, una comprensibile modalità comunicativa. Il dio Ermes, figlio di Zeus e di Maia, faceva all’uopo: messaggero degli dèi e assai benevolo agli uomini. Questi si dotò di particolare abilità per svolgere la sua delicata missione e, munito di sandali alati ai piedi, vinceva gli ostacoli frapposti giungendo all’obiettivo. La possibilità di comunicazione tra sfere diverse e impari era salva e, al di là della mitologia, la possibilità di comprendere il rapporto tra realtà conosciuta e soggetto conoscente, pur tra rischi, diventava fattibile, senza prevaricazione dell’una sull’altro e viceversa.
Mutuando da questa icona pagana, è sostanzialmente così che va immaginato il lavoro, piuttosto arduo, dell’erme-neuta e, senza essere frainteso, anche dell’ermeneuta biblico, il quale non va subito assimilato all’esegeta tout court, che «pazientemente ricostruisce e interpreta» (329) o al teologo in senso classico, che «dogmaticamente ragiona» (329). Chi è allora? È colui che, dovendo assumere un atteggiamento onnicomprensivo e, in questo caso, c’è di mezzo la comprensione unitaria della Bibbia, potremmo dire l’assunzione dell’atteggiamento di sintesi, enuncia «le condizioni di possibilità e il senso dell’interpretazione stessa» (7) di un testo scritto specialissimo, assai complesso e sacro qual è la Bibbia, che proprio per la sua straordinaria ricchezza si presta a molteplici interpretazioni, all’“interpretazione infinita”. Nel panorama della ricerca l’ermeneuta si pone al suo cominciamento e alla sua terminazione quale vaglio critico tanto degli assunti dogmatici del teologo, quanto dei metodi utilizzati man mano dall’esegeta. L’ermeneutica biblica, dunque, riflette sul procedere metodologico dell’esegeta, detta i principi per una corretta assunzione dell’arte di interpretare e punta su una sorta di «indispensabile capacità di sfrondare e potare quanto risulti ormai superfluo o storicamente superato, salvo poi innestare su basi più solide» (330). Perché deve sfrondare e potare? Non certo per un’insana passione nei riguardi della pars destruens, ma molto più semplicemente perché i contesti in cui opera la teologia e l’esegesi mutano, e il contesto attuale che non può essere trascurato «impone un dialogo con alcune istanze tipiche dell’uomo contemporaneo, sempre più in ricerca di un confronto, non più solo diffidente, tra la Bibbia e l’oggi, tra scienza e fede, tra rivelazione e pensiero filosofico» (330). Per dirla con slogan di immediata fruizione, nella Bibbia tra il “non è vero nulla” di uno scientismo di bassa lega, che purtroppo torna ad occupare imperioso la scena, e il “tutto è vero” dell’assunzione come puro dato di fede, si colloca un’ermeneutica che ha ben chiara la propria natura al di là delle sue applicazioni e, nello specifico, un’ermeneutica biblica che deve «necessariamente acquisire categorie solide, tali da poter resistere all’impatto che le proviene di volta in volta dalla scienza o dal pensiero laicista» (332). Un’ermeneutica che deve comunque provare ad entrare in dialogo con tali istanze, per non rimanere confinata in un ambito di poco peso o addirittura emarginata perché tacciata di mediocrità. Difatti, è preferibile evitare l’esclusività dell’ambito scientifico o di quello religioso, recuperando semmai il giusto spazio delle istanze fenomenologiche, quelle cioè che muovono dallo stesso dato biblico. Insomma, non semplicisticamente un modello teorico di lettura preoccupato di “giustificare” la Bibbia: la veridicità della Scrittura, in quanto parte sacra, non ha bisogno di essere giustificata, ma un contributo perché essa sia finalmente «liberata del tutto per quel che concerne il suo infinito potenziale di senso» (332). Va riconosciuto il merito a P. Bovati e P. Basta, docenti al Pontificio Istituto Biblico di Roma, per aver pensato, quale frutto del loro collaudato insegnamento, al presente testo. Pur collocandosi nella scia di nomi monumentali quali A. Bea, A. Schökel, P. Grech, la pretesa degli autori (cf 11 e 332) è di aver prodotto un testo a mo’ di unicum dentro la scarsità di pubblicazioni sull’argomento, almeno in ambito italiano, o quanto meno un novum, giacché il format del volume prende il piglio non del “contenitore” che giustappone ingenuamente le posizioni di due studiosi, bensì del “dittico” composto, sì, a più mani ma con un’unica indole. I suoi pannelli infatti sono in armonica continuità, per l’esattezza sono stati concepiti in una geniale complementarietà: «L’ispirazione (profetica)» è il titolo della parte scritta da Bovati, la prima (4 capitoli [15-177]), mentre Basta titola la sua parte, cioè la seconda (una breve introduzione e 4 capitoli [179-332]), «L’interpretazione del testo profetico».
Bovati, nelle ultime battute del suo lavoro (174-177), solleva le problematiche ermeneutiche specifiche derivate dall’assunzione della modalità della rivelazione sotto forma scritta (il testo scritto, il lettore dello scritto, la tradizione che consegna lo scritto) a mo’ di «semplice transizione alla seconda parte di questo volume, consacrata all’interpretazione» (174, cf 30), e Basta, dal canto suo, esordisce proprio ricordando la lunga riflessione «sul Dio della verità che parla nella Bibbia (oggetto)», condotta nella prima parte del saggio (181).
Bovati, a partire da una prospettiva antropologica e teologica all’atto di lettura della Bibbia (non a caso titola il primo capitolo «Dal desiderio alla Rivelazione », ossia dal desiderio di verità nell’uomo al volere eterno di Dio di rivelare se stesso), si impegna a chiarire lo statuto epistemologico del profeta, della sua parola consegnata allo scritto, nel quadro della problematica legata all’ispirazione («l’ispirazione determina l’atto profetico, la profezia è perciò ispirata» [41]) che dice, a sua volta, il primato dell’iniziativa divina: è Dio che va incontro all’uomo manifestandosi nella parola del profeta. «È questo, essenzialmente, lo statuto profetico, per il quale parola umana e parola di Dio sono intimamente congiunte; la mediazione profetica, difficile da tematizzare, costituisce la prima e fondamentale questione ermeneutica che vogliamo affrontare» (40). Tutto il discorso di Bovati ruota dunque attorno al modello profetico per esprimere il rivelarsi di Dio all’uomo, ove va da sé che il concetto di parola stia al centro, parola raccolta nel testo scritto da considerarsi ispirato (la qualità divina della parola scritturistica), cosa notevole anche per l’esegeta che di fatto ha trascurato a vantaggio di competenze filologiche, storiche e letterarie. Giustamente «il presupposto di fede […] non può essere sospeso o negato nell’esercizio interpretativo» (42), per un’esplicita esegesi credente. Nel secondo capitolo perciò, dove l’argomentazione si fa piacevole, l’autore si dilunga sulla spiegazione dell’ispirazione profetica. Un simile approccio non è consueto nei manuali di ermeneutica biblica, pur essendo stato abituale per più di 1500 anni nei trattati di teologia, e Bovati intende recuperarlo per delle ragioni basilari (45-47). Il terzo capitolo, poi, si occupa di chiarire la natura, l’autorevolezza e la testimonianza del profeta e di illustrare quali siano secondo la Bibbia i criteri per discernere il vero dal falso “uomo di Dio”. Interessante, infine, è il quarto capitolo che sottolinea l’autorità dello scritto profetico, cioè il testo sacro. Scrive l’A.: «La capacità di discernere e di “giudicare”, donata alla Chiesa, ha fatto sì che potesse essere accolta come Parola di Dio non solo l’attestazione di chi si presentava esplicitamente come profeta, ma anche il lascito letterario, costituito da discorsi e racconti, di varia natura, nei quali la comunità credente ha ravvisato la medesima qualità ispirata dei testi profetici» (138), e ancora: «Se la Parola, trasmessa oralmente, supponeva, per essere riconosciuta, un dono dello Spirito presente nell’ascoltatore, la medesima Parola fatta libro postula nel lettore un’identica condizione spirituale, per poter essere capita, amata e seguita» (146).
Nella seconda parte del saggio, chi legge si trova spesso acutamente provocato e l’intenzione di Basta pare stare proprio nel proposito di non stabilire de-finizioni, oltre a quelle già esistenti e da assumere come insindacabile patrimonio dottrinale, quanto piuttosto di mantenere aperta la ricerca su quest’ultimo per meglio presentarlo ai contemporanei. Un esempio lodevole nella modalità di procedere consiste nel fatto che le pagine sono trapunte di domande: ce ne sono più di 100 e indicano prospettive, indirizzano i possibili approfondimenti. Del resto si sa che porre domande intelligenti è più difficile che dare risposte banali. Adesso è la volta di ragionare sul destinatario, il noi umano, sul soggetto che riceve e comprende quella parola divina nella Scrittura interpretandola. Meritevolmente l’A. riporta in primo piano la figura del lettore, appunto il soggetto che, leggendo, deve anche capire ciò che legge o essere messo in grado di farlo. Si ricordi il ministro di Candace, regina di Etiopia (cf At 8,30-31). Il lettore non è né va considerato un semplice recettore passivo. Ha il suo peso questa puntualizzazione troppo spesso, forse, data per scontata. Da qualche decennio, infatti, ha preso corpo una corrente di critica letteraria detta proprio “critica della risposta del lettore” (Reader-Response Criticism) che, spingendosi, arriva ad affermare che il lavoro letterario esiste solo nell’“atto di lettura”. Senza negare l’oggettività del processo di lettura, questa corrente critica mette l’accento sul ruolo del lettore (virtuale o implicito) e sulla sua partecipazione attiva alla “costruzione” del senso del testo. E questo in reazione alla corrente del New Criticism che insiste su un approccio puramente oggettivo all’opera scritta: il testo, cioè, è più importante dell’autore e del lettore. Invece «il lettore della Bibbia è presente nell’atto stesso della Scrittura trasmessa» (181), e ancora: il lettore-tipo è ispirato, ossia dotato dello stesso Spirito col quale lo scrittore sacro ha scritto, ed è competente secondo metodologie adeguate che approcciano il testo santo. Egli è soprattutto non riducibile al singolo credente ma coincide con la comunita ecclesiale all’interno di un processo di trasmissione viva, efficace e vitale.
In quattro capitoli (dal V all’VIII) Basta tenta così di determinare innanzitutto il delicato rapporto tra Scrittura e Tradizione (187-225) e, recuperando l’esempio ebraico di Torah scritta e Torah orale, riproponendo la validissima dottrina della Dei Verbum (nn. 7-9), marca la loro reciprocità di dipendenza alludendo al modello del circolo ermeneutico. L’A. passa poi alle parti che sono da valutare come canoniche e quindi normative (226-265), allargando però il discorso alla totalita quale principio fondamentale dell’interpretazione per giungere così a una accettabile teologia biblica, e biasimando, se così si può dire, la tentazione e il continuo tentativo di “parcellizzare”. È dunque la volta dell’inerranza della Bibbia, ossia della sua pretesa di verità (266-302): come intenderla? Senza naturalmente perdere di vista il suo collegamento con il grande tema dell’ispirazione, l’autore ne scandaglia i livelli di problematicità, mostrando come la verità di Dio si consegni all’interno dell’errore umano: la salutaris veritas nella parola storica. Infine, è spiegato secondo quali sensi il testo sacro chiede di essere interpretato (303-327), ribadendo che, nonostante i limiti specialmente nella realizzazione e dettati dal momento storico, naturalmente perfettibili mediante nuovi linguaggi e più specifiche metodologie, il tentativo degli antichi di stabilire dei rapporti tra la lettera e lo spirito, la profezia e il compimento, la figura e la realtà, l’antico e il nuovo, è ancora valido. Concludendo, la affabulazione didatticamente ferrata fa dell’opera (interamente considerata) un autentico “manuale” di ermeneutica biblica e con ciò non se ne fa certo una diminutio, giacché il libro è in grado di andare incontro non solo alle esigenze di studenti che si accostano per la prima volta alla problematica, ma anche a chi è già addentro alla questione e chiede il modo migliore per sistematizzarla.
Tratto dalla rivista "Rassegna di Teologia" n. 2/2014
(http://www.rassegnaditeologia.it)
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