Gesù Cristo il rivelatore celeste
-Qui videt me videt et patrem
(Universo teologia)EAN 9788821571695
Il volume di Edoardo Scognamiglio si presenta come una teologia dell’imago Dei vista nella sua concentrazione cristologica. Qual è la vera immagine del Padre? Chi ci ha rivelato autenticamente il volto del Dio trinitario nella storia umana? Alla domanda di Filippo contenuta nel Vangelo di Giovanni, “Mostraci il Padre e ci basta”, Gesù ha risposto: “Chi vede me, vede (anche) il Padre”. L’autore ci offre il suo nuovo e interessante contributo di cristologia a partire da tali domande e dalle prospettive che da esse emergono nell’esegesi scritturistica della pericope giovannea. Il tema non è nuovo dal punto di vista esegetico (si pensi ai commenti di Ignace de la Potterie) e tuttavia tutte le implicanze teologiche sono ancora da mettere in risalto nella riflessione cristologica attuale. Scognamiglio, perciò, ci pare che con questo contributo inauguri una nuova stagione nell’ambito della riflessione teologica, nella quale si può finalmente cominciare a mettere a frutto le acquisizione esegetiche di Gv 14,9 e, in genere, di tutta quella riflessione che scaturisce dalla teologia giovannea del “Logos fatto carne” (secondo la felice espressione di Benedetto XVI in Verbum Domini). Ma andiamo con ordine.
Prima di tutto dobbiamo affermare, come pare attestare implicitamente questo libro, che una “teologia della parola”, che identifichi il kerygma di salvezza semplicemente con la dimensione dell’annuncio-ascolto della parola, corre il rischio di un certo gnosticismo della fede. Certo, Gesù è Parola del Padre, venuto a noi “pieno di grazia e di verità”; mandato dal Padre per essere “ascoltato”; la sua è Parola di verità; egli solo ha dischiuso al cuore di ogni uomo la via della verità e della vita. Le sue sono parole di vita eterna. E tuttavia questa sarebbe solo una dimensione dell’essere di Cristo in quanto rivelatore del Padre. Un appiattimento “logologico” del contenuto della fede pasquale presterebbe più facilmente il fianco della dottrina cristiana a interpretazioni ideologiche o anche solo moraleggianti, le quali riducono il Cristo della fede a un uomo buono, un genio religioso tra tanti nella storia, venuto a portarci un insegnamento illuminato, seppur alto, e tuttavia solo umano. In realtà, se si prendono sul serio le riflessioni di questo saggio sul mistero dell’incarnazione del Verbo, la futura teologia in genere e le prospettive cristologiche in particolare, possono aprirsi su nuovi scenari. Ma dobbiamo fare attenzione a capire la portata dell’assunto centrale contenuto nel libro: una teologia dell’incarnazione del Verbo non rimanderebbe semplicemente a una “declinazione storica” della riflessione teologica, quasi a sottolineare semplicemente che, dal momento che il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi, è necessario che l’annuncio della fede deve poter incarnarsi nel vivo e nel concreto della storia alla quale apparteniamo. In realtà, il discorso è un altro e a esso si collega. Si tratta del “volto” di Cristo nel quale contemplare-vedere il Padre.
La carne, che Gesù ha assunto, il suo “essere corpo” dotato di “un” volto, manifestano realmente il Padre: insomma, tutto insieme l’essere di Cristo, Parola e Carne, Logos fatto carne, Verbum Caro, è rivelazione del Dio trinitario, manifestano il Padre, dicono il divino. È chiaro anche che, come le parole del Cristo, quali noi le abbiamo udite e “trascritte”e annunciate in parole umane, le nostre povere parole, non esauriscono la portata del CristoParola, così la carne assunta dal Cristo, basar in ebraico, la debole sarx di ogni vivente, il suo corpo che significativamente è stato contemplato e si compendia nel suo volto, non esaurisce pienamente il “volto” di Dio. Né tuttavia insieme, parole storiche e volto umano di Cristo, ci dicono il tutto di Dio: al massimo ci dicono qualcosa dell’humanum del Figlio di Dio, mentre il Dio trinitario rimane sempre eccedente la storia e ogni concretizzazione umana. E tuttavia il Cristo, Verbum Caro, manifesta “simbolicamente” il Padre (p. 59), cioè il suo volto “rimanda”, rivela e annuncia, mostra e vela, l’essere di Dio. E noi, con la mente e il cuore, con la conoscenza e l’amore, attraverso quel volto abbiamo accesso al Padre.
Da questo assunto si schiudono nuovi orizzonti che l’autore apre attraverso questa iniziale riflessione che, oltre a proporre alcune linee di esegesi, si sofferma più analiticamente su di una prospettiva storico-teologica, andando ad analizzare testi di antichi scrittori cristiani e padri della chiesa, di dottori medievali, fino alla riflessione teologica attuale, passando per la mistica di Eckhart, l’icona della Trinità di Rublev e la riforma di Lutero. Una prospettiva ancora tutta da sviluppare dunque, ma che trova già in questo contributo una base solida storico-teologica.
Sottolineiamo alcuni passaggi che ci sembrano abbastanza interessanti.
«Per l’autore del quarto Vangelo, l’incarnazione è pensabile ed è la forma definitiva di Dio nella storia. In quanto volto del Padre, Gesù ci permette di superare quella dissociazione che la chiesa primitiva ha ritrovato più tardi in Ario e Nestorio e poi in alcuni autori del secolo passato, tra cui Loisy e Bultmann» (p. 56). Si condenserebbe dunque nella portata esegetica del versetto giovanneo di 14,9 non solo una ricchezza teologica straordinaria, ma ciò permetterebbe di vedere il “volto” trinitario di Dio, quale ci è stato presentato in Gesù, non come un accessorio secondario del Vangelo di Gesù, ma, come afferma l’autore, «il suo orizzonte di verità e di amore, di senso ultimo e risolutivo» (p. 57). Per Scognamiglio, tuttavia, la contemplazione del Padre attraverso il volto del Cristo, «assume sempre un significato economico-salvifico e non diviene in alcun caso una mera speculazione sul Dio in sé» (p. 10). È vero, dobbiamo ammetterlo, che se ci rifacciamo alle suggestive pagine di commento biblico con le quali l’autore introduce il presente studio, è interdetta l’azione del “vedere Dio” dal momento che di lui si possono vedere solo “le terga”, il dorso (Es 33,23): il suo volto è nascosto e riflesso nel volto di ogni uomo, come Gesù ci ha insegnato (cf. pp. 18-19); ma è pure vero che «nella storia personale di Gesù è possibile accedere al mistero del Padre» (p. 19), egli è la “porta “, la “via-volto” attraverso cui possiamo scorgere l’essere di Dio nella logica paradossale dell’infinito amore. Non solo le parole, ma i gesti di Cristo, il suo stile di vita, la sua “umanità” (e solo la sua, anche se l’uomo è creato “a immagine e somiglianza di Dio” secondo il dettato biblico) ci manifestano autenticamente il Dio trinitario. Insomma, Gesù di Nazaret, e la sua storia personale, non è solo il luogo dove l’essere di Dio “diviene” storia (non esaurendosi in essa seppur esinanendosi in essa), ma anche lì dove la storia umana, proprio per la carne assunta dal Verbo, ha accesso all’essere di Dio (rimanendo Dio sempre al di là di ogni possibile presa umana). In definitiva, il volto di Cristo non è solamente il “luogo” attraverso il quale Dio viene incontro a noi, ci guarda con gli occhi stessi di Cristo, ma anche dove noi andiamo incontro a Dio e possiamo “vederlo” attraverso gli occhi di Cristo. Egli è l’unico mediatore. La sua carne, il suo corpo, il suo volto sono il luogo concreto dell’incontro tra Dio e l’umanità. Il volto stesso del Cristo è incontro.
Si capisce allora tutta la portata interreligiosa che l’autore vuole percorrere dal punto di vista cristologico (anche se solo per abbozzo): «In Cristo, Rivelatore del Padre, abbiamo la possibilità di accedere alla Realtà ultima e al reale in sé a cui rinvia ogni esperienza religiosa come futuro incontro con Dio. In quanto volto del Padre, Gesù apre l’accesso alla Realtà divina trascendente, la cui natura divina supera ogni concetto umano e qualsiasi categoria speculativa. Così, l’evento Cristo si pone come fonte unica ed esclusiva della salvezza umana. La Realtà può essere conosciuta: della Trinità possiamo fare un’esperienza autentica e piena nell’umano di Cristo. In quest’evento storico, la Trinità si fa conoscere in modo definitivo dall’uomo, con un valore di senso universale» (p. 8). Ma si capiscono anche le suggestive riflessioni sul senso del “vedere” con gli occhi della fede. Nella teologia giovannea gioca un ruolo decisivo la concezione della fede in quanto “vedere”. L’atto di vedere in Gesù il mistero di Dio si apre a tanti significati, a quelli della contemplazione, ma anche a quelli più profondi della conoscenza di fede quale esperienza dello Spirito. Il “vedere” del Vangelo di Giovanni non è semplicemente un “conoscere”, né rimanda all’esperienza della conoscenza concettuale, come nella filosofia greca, perché è una vera e propria integrale esperienza del mistero di Cristo, e perciò del Dio trinitario.
Non c’è dubbio che c’è un doppio livello nel “vedere” Gesù e, attraverso di lui, “vedere” il Padre: quello corporale e quello spirituale. Ma, come non abbiamo potuto udire le vive parole del Cristo, così noi oggi non possiamo vedere al vivo il volto suo. E tuttavia possiamo fare esperienza della sua Parola che risuona in noi accogliendola nella fede e, perché no, così anche della esperienza della contemplazione del suo volto. Qui si aprono altri capitoli interessanti: dalla questione della Tradizione in quanto “consegna” vivente non solo della Parola ma autentica consegna anche del Volto di Cristo che vive nella chiesa, offerto nella fede al di là delle immagini-icone che pure rappresentano un capitolo interessante di cristologia al confine tra arte, teologia e immaginario sociale ed ecclesiale. Come pure per la mistica, che si nutre di “immagini interiori”, e il suo rapporto con le suggestive interpretazioni ed esperienze del “vedere” interiormente il suo volto. Inoltre, se la parola del Cristo dice comunicazione, narrazione, racconto, guarigione, misericordia, il volto suo dice prossimità, compagnia, attenzione alle miserie umane, singolarità e dignità di chi è guardato da quel volto, appello alla responsabilità; il volto di Cristo dice accesso al mistero del Dio trinitario non solamente per idee, definizioni e concetti (pur sempre deboli e mai appropriati), ma anche per immagini e rappresentazioni interiori, che hanno alimentato la fede, la mistica e immaginari mentali sociali ed ecclesiali (anch’essi pur sempre inadeguati e mai appropriati). E che dire dei risvolti sacramentali, eucaristici ed ecclesiologici, con la concezione biblico-teologica della chiesa quale corpo, immagine, volto di Cristo… È chiaro che la riflessione che l’autore ci propone prende l’abbrivio dal-
la nuova attenzione alla corporeità nell’ambito della riflessione filosoficoteologica e dalla riscoperta contemporanea del volto, nel quale si riflette il Volto dell’Altro. Come ogni volto, e più di ogni volto umano, quello del Cristo interpella, ingaggia chi lo guarda per una responsabilità nel vivo della storia, attira a sé, ma pure rimanda oltre, perché è il volto stesso nel quale il Padre ha voluto nascondersi e darsi a “conoscere”, è il mistero del quale il volto umano di Cristo è traccia. Siamo perciò grati a Edoardo Scognamiglio perché con questo volume apre lo studio della cristologia a nuovi, più attuali e ancora inesplorati percorsi.
Tratto dalla rivista "Aprenas" n. 3-4/2011
(http://www.pftim.it)
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