Per una teologia del papato
(L'abside)EAN 9788821566929
Centro visibile dell’unità della Chiesa e punto di riferimento della comunione universale, il papato ha sulle sue spalle una lunga storia di eventi e dibattiti che riguardano soprattutto il modo di concepire il primato. La riflessione sul primato ha trovato un momento culminante nella costituzione Pastor aeternus del Vaticano I, riaffermata dal Vaticano II che ha però dato spazio al collegio episcopale riconoscendolo, in unità col suo capo, «soggetto di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa» (Lumen gentium 22).
Ovviamente ciò non ha risolto tutti i problemi che restano ancora aperti sul fronte ecumenico, dove l’aspetto paradossale è proprio il fatto che un ministero concepito per servire l’unità sia visto come uno dei suoi principali ostacoli. L’argomento non è semplice e a trattarlo c’è sempre il rischio di apparire massimalisti o negazionisti, lo si può inoltre affrontare a vari livelli senza dimenticare l’opportunità, oggi particolarmente sentita, di una figura unitaria. Un autorevole incoraggiamento a riprendere il dibattito è venuto dall’Ut unum sint, in cui Giovanni Paolo, citando la distinzione di Giovanni XXIII tra la verità e i suoi rivestimenti, è giunto a fare quest’affermazione: «Quale Vescovo di Roma so bene, e l’ho riaffermato nella presente lettera enciclica, che la comunione piena e visibile di tutte le Comunità, nelle quali in virtù della fedeltà di Dio abita il suo Spirito, è il desiderio ardente di Cristo.
Sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l’aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova» (n. 95). Quale possa essere questa “situazione nuova” auspicata dal pontefice non è facile da delineare, ma la presa di posizione ha incoraggiato i teologi a riprendere la questione, nonostante la difficoltà a farlo in termini innovativi, vista l’ormai imponente bibliografia.
Con questo libro si accinge all’impresa uno dei teologi italiani più noti, Severino Dianich, che confessa di essersi messo all’opera proprio a partire dall’Ut unum sint, leggendovi un invito a «dare un contributo di studio e di proposta per una possibile evoluzione delle forme di esercizio del ministero papale che non tradisca il patrimonio della fede cattolica e, allo stesso tempo, lo possa rendere accettabile da tutte le diverse confessioni cristiane» (p. 7). La motivazione che guida la stesura del testo è ecumenica, mentre la metodologia è prettamente teologica, con richiami biblici e riflessioni storiche che vanno dal Dictatus papae al Vaticano II. Un discorso prevalentemente dogmatico, dunque, che l’autore ritiene «stretto e irto di ostacoli», a differenza di quello giuridico, che non affronta per motivi di pertinenza (anche se le sollecitazioni, con citazioni e commenti di canoni, non sono del tutto assenti), ma che è ritenuto tutto sommato più semplice, in quanto molte funzioni previste dal Codice attuale potrebbero essere riviste senza intaccare l’essenza del dogma. Ne scaturisce un saggio che, nonostante il numero contenuto delle pagine, riesce a offrire una specifica visione del ministero papale, toccando alcune delle sue principali implicazioni e che, pur inserendosi a pieno titolo nella lunga catena degli studi cattolici sul tema, lo fa prestando attenzione alle posizioni dei fratelli separati. La tesi dominante è la concezione del papato in termini di ministero sacramentale e pastorale. Notando come a un certo punto della storia, in pratica il secondo millennio, il concetto di giurisdizione universale sia divenuto così esclusivo da assorbire, se non cancellare, quell’aspetto, Dianich vede nel «recupero dei valori pastorali di fondo del ministero episcopale, fondato sul sacramento dell’ordine e vissuto nel rapporto quotidiano del papa con la sua Chiesa, profilarsi la linea di un nuovo equilibrio dell’esercizio del primato sulla Chiesa universale» (p. 10).
Questa è la forma “nuova” che sebbene avanzata a livello di proposta o di “abbozzo” è ritenuta proponibile anche alle altre confessioni cristiane. Ciò che si propone è un rovesciamento degli orizzonti andando non dall’universale al particolare, che peraltro rischia di non essere neanche considerato, ma dal particolare all’universale. Detto in altre parole si tratta di vedere il ministero del pontefice non a partire dal concetto di Chiesa universale bensì da quello di Chiesa locale. L’idea può non apparire inedita perché diversi sono gli ecclesiologi contemporanei che organizzano il primato del papa focalizzando il titolo di “vescovo di Roma” (spesso utilizzato dallo stesso Giovanni Paolo II), tuttavia se in alcuni il riferimento appare piuttosto isolato, quasi che quella qualifica serva solo ad argomentare i diversi elementi della sollicitudo universalis, o addirittura a escluderli, Dianich sposta decisamente l’asse sul ministero pastorale che il papa vive, esercita e celebra nella sua Chiesa.
Egli ritiene che «la densità di grazia del ministero papale si manifesta prima di tutto nel suo servizio alla Chiesa locale di Roma» (p. 105) e fa derivare da questo la ragion d’essere del ministero universale. Il discorso non vale solo per il papa, ma, con le debite distinzioni si estende ai vescovi (e ai i preti), per cui il saggio diventa pure un’occasione per riflettere teologicamente sul ministero ordinato in genere. Anziché la solita divisione in capitoli, l’autore sceglie la struttura in parti che permette di raggruppare meglio i pensieri in unità tematiche. La prima esamina i presupposti necessari a comprendere che il primato è ancora una questione aperta «fino a che questo ministero, il cui fine essenziale è quello di custodire l’unità dei cristiani, non sarà riconosciuto anche dalle Chiese che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica » (p. 15).
Contrariamente il discorso sarebbe bloccato in partenza e si sarebbe costretti a riproporre un ecumenismo di ritorno. Dopo essersi sintonizzato con l’Ut unum sint, che compie un passo in avanti rispetto al Vaticano II, Dianich fa una digressione storica, necessaria a comprendere quella evoluzione delle forme di cui si parlava. Approda quindi alla questione teologica, sottolineando la necessità di affrontare il tema dal punto di vista della fede e non dal versante giuridico o da argomenti di mera utilità. Si entra così nella proposta centrale di vedere il ministero attraverso la categoria della sacramentalità, considerata debole nei protestanti, rilevante negli ortodossi, controversa nella teologia cattolica per il fatto che in essa, a contrario della figura del prete, «il ministero dei vescovi e del papa è stato interpretato come un compito esclusivamente giurisdizionale » (p. 53).
Dal confronto parte il quadro ecclesiologico della seconda parte che fonda la tesi ricorrendo a una visione sacramentale con cui si reimpostano due rapporti: quello tra ministeri e Chiesa locale e quello tra sacramento e giurisdizione. Il ministero non è nella Chiesa solo perché c’è bisogno di un’autorità che la disciplini, ma per esprimerne una sacramentalità che ha la sua massima espressione nell’eucaristia e poiché questa, pur mantenendo un valore universale, è azione di una Chiesa locale, il successore di Pietro dovrà trarne tutte le conseguenze. «Valorizzare, allora, la qualità sacramentale del primato del papa significa rimettere in primo piano la sua condizione di vescovo di una Chiesa locale e il suo rapporto con la sua Chiesa.
Infatti, proprio dal rapporto con la sua Chiesa particolare, essendo questa, non una qualsiasi delle tante Chiese sparse nel mondo, ma quella di Roma, cioè quella di Pietro, e solo in forza di questo rapporto egli ha una missione unica nei confronti di tutte le altre Chiese» (p. 56). Più ardua l’analisi del rapporto tra sacramento e giurisdizione perché se sul piano del sacramento il papa non è da più di un altro vescovo (non esiste un quarto grado dell’ordine), lo è su quello della giurisdizione.
Intento del Dianich è riconoscere che anche la fonte di quest’ultima risiede nell’ordinazione episcopale che destina il papa al servizio della vita sacramentale della Chiesa di Roma: «Non da altra fonte, indipendente dal suo sacramento episcopale, ma dallo stesso carisma per il quale egli vive il suo ministero di vescovo di Roma, il papa trae anche il suo ministero giurisdizionale al servizio della Chiesa universale» (p. 63). Seguono altre riflessioni su temi come il rapporto tra località e universalità. La terza parte vuole dare un’ermeneutica dei dati della fede, ripercorrendo alcune delle principali acquisizioni che hanno segnato la comprensione del papato, soprattutto nel suo primato di giurisdizione. Il criterio metodologico non è la messa in discussione delle definizioni («per la fede cattolica nulla di ciò che è stato definito può essere cancellato»), ma l’interpretazione che deve tenere conto di alcuni criteri come il contesto storico e gli schemi culturali. Si ripercorrono le posizioni dei due concili del Vaticano dichiarando che se la proponibilità ecumenica non può portare a negare il primato di giurisdizione sulla Chiesa universale (che è un dogma definito), dall’intreccio tra Vaticano I e Vaticano II è possibile «postulare una nuova interpretazione». Questa conduce a un equilibrio che fonda l’atto giurisdizionale sull’atto sacramentale, «così il papa acquisisce il suo ministero nell’ordinazione e la legittimazione a svolgerlo con il carisma del primato sulla Chiesa universale dall’atto giuridico della sua elezione a vescovo di Roma» (p. 94).
I paragrafi successivi analizzano il rapporto tra il papato e i singoli munera, a conferma del fatto «che anche il ministero papale, sorgendo dalla stessa imposizione delle mani che costituisce l’ordinazione episcopale, non può scavalcare il livello locale della vita della Chiesa, ma ha la sua prima espressione nella predicazione della Parola e il suo punto di arrivo più alto nella celebrazione dell’eucaristia» (p. 105). Si entra nella parte delle prospettive, che certamente interesserà di più chi intende sapere in quale direzioni può condurre l’assunto teologico finora proposto di accentuare la dimensione sacramentale del ministero papale. La strada è quella della stretta reciprocità per cui come non si può pensare l’unità del corpo episcopale senza la comunione con il papa, così questi non dovrebbe concepirsi fuori della comunione con il collegio episcopale.
Di qui l’interpretazione del Vaticano I: se il papa può definire «un dogma ex sese non autem ex consensu ecclesiae non può esistere ex sese; il papa è papa solo ex ecclesia, cioè in forza di quel sacramento della Chiesa che lo accomuna a tutti gli altri pastori della Chiesa» (p. 129). I contenuti dei paragrafi successivi hanno una natura quasi programmatica: dal sacramento alla collegialità ovvero la qualità collegiale del ministero papale («il papa ha sempre una mens comune con gli altri vescovi»); la collegialità intermedia («progettazione di una più vasta attuazione della collegialità»); la qualità collegiale dei vescovi («esigenza di realizzare una forma di esercizio del primato che sia capace di valorizzare al massimo la diversità»); la qualità pastorale del ministero papale («la vitale relazione con la Chiesa di Roma»). L’opera di Dianich raggiunge lo scopo di rovesciare le prospettive di un immaginario collettivo che tende a vedere il papa più nella veste di capo della Chiesa universale che in quella di pastore della sua Chiesa locale.
Non esclude il potere di giurisdizione, ma ne corregge l’unidirezionalità o l’isolamento, facendolo derivare da una sacramentalità che sottolinea il carattere episcopale del ministero del papa e che postula un radicamento pastorale nella propria Chiesa locale. Alcune forme di esercizio universale ricavate della tesi di fondo possono non incontrare il consenso unanime, ma l’elemento strutturale è coerente: stabilire un rapporto più stretto tra papato e collegialità episcopale. In controluce al volume si scorge pure un’idea ecclesiologica cara all’autore, quella di una Chiesa sostenuta dalla grazia che si nutre di comunione interpersonale e dove le mediazioni si impongono attraverso una rete sinodale. Che tutto ciò ottenga il risultato sperato a livello ecumenico è un obiettivo che l’autore stesso non si illude di ottenere, consapevole che la sua tesi, pur essendo «ecumenicamente proponibile», non risolve tutti i problemi. Lo dimostrano i dibatti dei dialoghi ufficiali sulla stessa nozione di sacramento. Si trattava però di cogliere l’invito lanciato dall’Ut unum sint ed è ciò che Dianich ha voluto fare con la sua competenza, lanciando una proposta che apre a ulteriori confronti.
Tratto dalla rivista Lateranum n.2/2011
(http://www.pul.it)
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