L'altezza della vocazione dei fedeli in Cristo. Teologia morale e spirituale in dialogo
(Ieri Oggi Domani)EAN 9788821306990
Chi ha dimestichezza con le opere di Paolo Carlotti, docente di teologia morale fondamentale presso la Facoltà di Teologia dell’Università Pontificia Salesiana di Roma, sa bene che l’interesse principale delle sue ricerche si concentra su questioni fondamentali di natura epistemologica e metodologica in riferimento alla teologia morale. In proposito Carlotti è sempre molto attento a recepire nuovi stimoli, ma anche ad integrarli con grande apertura e disponibilità al dialogo.
Nel saggio che segnaliamo la sua ricerca è un invito alla cautela, a non confondere, ma nemmeno ad accettare supinamente, la separazione tra teologia morale e spirituale. Anche perché – egli osserva – «la separazione tra vita morale e vita spirituale nel cristiano, riverberata a livello epistemologico dalla separazione tra teologia morale e teologia spirituale, al di là delle migliori intenzioni, potrebbe contribuire alla riuscita del progetto secolare della privatizzazione della fede e quindi sortire in un cristiano che fatica ad unificare se stesso» (p. 8).
Secondo l’A. un’articolazione più corretta tra esperienza morale e spirituale, e conseguentemente tra teologia morale e spirituale, permetterebbe «di assumere l’istanza biblica ed anche di offrire qualche risposta alle sfide del tempo presente, esplicitando al contempo alcune caratteristiche della morale della persona che sono viste in profonda sintonia con la presenza, con la logica e con la dinamica proprie dello Spirito di Dio, lo Spirito del Crocifisso Risorto» (p. 45), portando in tal modo a compimento uno dei compiti che il concilio Vaticano II ha affidato ai teologi morali, quello di illustrare «l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo» (O.T. 16).
«Per sfuggire alla stretta della morsa della cultura contemporanea – osserva ancora l’A. – è necessario coltivare una familiarità esistenziale con la fonte della morale cristiana, cioè con la persona di Cristo, incontrato in quella comunità credente e amante, originata dal Suo mistero e a cui ha affidato la Sacra Scrittura. Un ideale morale non può trasmettersi solo per iscritto, si trasmette nella vita e nella vita di una comunità e dei singoli che la compongono» (p. 72). Osservazione questa che alimenta in lui la convinzione che il mistero della persona di Cristo si manifesti nello Spirito e non solo nella comunità cristiana, ma anche nella storia umana, per cui è possibile intravedere nella teologia spirituale «una forma particolare di teologia della storia» (p. 105) e recuperare, oltre la dimensione individuale e secolare della morale diffusa dalla cultura contemporanea, la dimensione solidale (p. 114) e misterica (p. 126) della morale. Stando sempre bene attenti, per altro, ad applicare correttamente le categorie della teologia morale, soprattutto quando si tratta di tener conto sia delle originarie esigenze umane che delle esigenze religiose e cristiane.
Un’impresa non facile. È infatti lo stesso A. a cogliere molto realisticamente le difficoltà e i limiti della sua proposta: «Il tema rimane interlocutorio ed una conclusione è ben lontana dall’essere presa» (p. 105). E ciò, a me sembra, per diversi motivi che non è difficile intravedere ed esplicitare. Ne indico due che potrebbero stimolare l’A. a procedere ulteriormente nell’impresa e magari a intraprendere una riflessione più sistematica e argomentata sul tema, vale a dire sul rapporto tra teologia morale e spirituale. Il primo riguarda l’imprescindibilità e direi anche l’urgenza di una riflessione teologica più approfondita sull’azione dello Spirito nella chiesa, chiamata ad articolare meglio «logos» e «neuma», parola e spirito, verità e libertà, fedeltà e creatività, soprattutto in riferimento a quanti nella comunità cristiana sono chiamati a illustrare l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo. Il secondo riguarda la complessità epistemologica e metodologica della teologia morale, scienza teorico-pratica, come del resto la teologia spirituale, valorizzando di più e meglio le acquisizioni, che l’A. peraltro conosce bene, cui è pervenuta fin dagli anni ’70 la riflessione sullo specifico cristiano, il contributo cioè che la fede cristiana può dare alla riflessione morale sia livello storico-genetico che motivazionale e metaetico, non certo a livello etico-normativo, pena una serie infinita di fraintendimenti linguistici e concettuali derivanti dall’instaurarsi di una specie di libera concorrenza nel mercato delle teorie etiche tra morale cristiana da una parte e morale umana dall’altra.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2009, nr. 1
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
L’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo è il tema generatore del perfezionamento, che il concilio Vaticano II, nel famoso testo di Optatam totius 16, ha chiesto alla teologia morale. È facilmente comprensibile che una figura di etica cristiana incentrata sull’esistenziale negativo e sul dovere minimale venga a ragione percepita come anacronistica e obsoleta, a fronte dell’eccellenza della virtù. La prima ricaduta di una tale prospettiva, a livello di riflessione scientifica sulla fede cristiana, è il conseguente ripensamento, che tarda a procedere se non addirittura a iniziare, delle articolazioni interne alla teologia, in particolare quella tra teologia morale e spirituale. È infatti solo da quest’ultima, erede della tridentina ascetica e mistica, che si continua ad attendere, come da queste si attendeva, la configurazione positiva dell’ideale di vita cristiana. La continuazione, anche soggiacente, di questo modello è incompatibile con la mens conciliare.
Il testo ricorda in modo intelligente e stimolante la questione, non solo per gli specialisti, ma anche per coloro che frequentano volentieri le tematiche teologiche odierne. L’autore a più riprese e in diversi tempi e contesti si è cimentato con il tema: qui è raccolta e presentata la riflessione prodotta, che trova il suo fulcro e il suo culmine, così mi sembra, nel terzo capitolo, dove avanza l’interessante proposta, che trova anche una certa accoglienza soprattutto in ambito teologico-morale e tuttavia ulteriormente da approfondire, della sostanziale unità delle due discipline teologiche in questione, che dovrebbero perciò rinvenire, per la loro distinzione, dei criteri epistemologici diversi rispetto a quelli finora vigenti, talora stancamente ripetuti e riproposti.
Al lettore attento non sfugge che la posta in gioco non consiste in una semplice disquisizione accademica, destinata ad avere scarso rilievo fuori dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori, ma insiste invece sulla considerazione dell’impatto formativo e sociale di un modello cognitivo, che può confermare e veicolare precomprensioni, che inducono atteggiamenti e vissuti precari o scadenti. Infatti, la permanenza della divaricazione tra lettura morale e lettura spirituale del vissuto cristiano, potrebbe indurre percorsi formativi ed educativi, che se da una parte arrivano a ritenere facoltativo l’ottimale cristiano, dall’altra incorrono nella fallacia di poterlo perseguire a prescindere dall’obbligatorietà vincolante del minimale morale. Si avrebbe allora il duplice esito di una sorta di giustificazione “spirituale” all’evasione della morale cristiana e una sorta di giustificazione morale all’evasione della spiritualità cristiana.
Affrontata – come si diceva – nel terzo capitolo il centro della questione, i due precedenti e il quarto conclusivo, la seguono in percorsi esemplificativi significativi, quali l’ineludibile riferimento alla persona e alla missione dello Spirito Santo – lex nova vita Sancti Spiriti –, come anima della vita cristiana, la pratica della lectio divina, come momento formativo coinvolgente la persona cristiana nella decisione di fronte a se stessa e al Dio di Gesù Cristo, e infine la considerazione del metodo teologico nelle sue implicazioni etiche e spirituali nel presente frangente della vita della Chiesa e delle nostre società occidentali. Proprio negli itinerari precisi, come quelli appena sopra elencati, è possibile anche seguire da vicino uno sviluppo situato e concreto della proposta, che si cimenta anche con altre dimensioni, formali e materiali, di quel discorso che procede dalla teologia qua talis.
In un contesto non solo culturale, ma anche intellettuale, fluido e frammentato, come oggi si suol indicare il nostro Occidente da parte di alcuni filoni della sociologia empirica, la preoccupazione che il volume esprime, quella di una unità argomentata e pensata della teologia pratica, è non solo utile e conveniente, ma, per certi versi, necessaria e urgente. Un’unità non da perseguire in modo decisionistico, ma da ricercare al modo pazientemente ragionato e argomentato di chi sa orientarsi su orizzonti ampi e in tempi lunghi: l’incremento comprensivo ottenuto qualifica anche quella quotidianità cristiana ed ecclesiale da cui sembra lontano o addirittura estraneo.
Un’ultima osservazione merita di essere addotta e consiste nell’intenzione, che guida il volume, di voler evitare drasticamente, sulla scia di Gaudium et spes, 30, la figura di un’etica individualistica o addirittura intimistica, come di per sé la tematica potrebbe in alcuni lasciar adombrare. Seppur prevalentemente attinente al versante formativo, il dialogo tra teologia morale e spirituale, ha obiettive e ampie ricadute sociali e culturali, se solo si pensa che il miglior stato del mondo ha cessato di essere pensato in esclusiva o prevalente chiave strutturale, mentre, in questa promettente contingenza postsecolare, si dà maggior e miglior credito all’opinione che la sua qualificazione sta o cade con la qualificazione – morale – delle persone che lo abitano.
Il volume si presenta stimolante in vista di una completezza che può essere raggiunta qualora il dialogo si sviluppi unitamente alla sorgente della vita spirituale, il culto. Qui la riflessione ha bisogno di essere approfondita – proprio a partire da Optatam totius 16 – , soprattutto alla luce di quanto «Rivista Liturgica» ha elaborato e proposto nel fascicolo 91/3 (2004) sotto il titolo: Una morale senza i sacramenti? La ricerca e soprattutto il dialogo tra competenze sono aperti.
Tratto da "Letteratura liturgica" n. 5/2009 della "Rivista liturgica"
(http://www.rivistaliturgica.it)
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