Critica della teologia politica
-Da Agostino a Peterson. La fine dell'era costantiniana
(Saggistica) [Libro in brossura]EAN 9788821193187
La diversità degli stili di Papa Francesco e di Papa Benedetto non impedisce di tracciare una direttrice comune, un filo rosso che unisce i due pontificati. Tra quello del fine teologo Ratzinger, che con la sua rinunzia, vero esempio di humilitas agostiniana, si è opposto in maniera decisiva al processo di mondanizzazione-burocratizzazione della vita ecclesiale negli ultimi anni; e quello del gesuita Bergoglio, il quale, attraverso la sua testimonianza nelle pieghe della realtà, restituisce ai più la dimensione evangelica, nei gesti prima ancora che nelle parole.
In questa prospettiva si inscrive il recente volume che qui presentiamo. Per l’Autore il testo è nato dall’indignazione per l’uso-abuso che si fa del nome di Dio, di una teologia politica che si serve di Dio per accrescere il potere dell’uomo. Dopo l’11 settembre 2001, infatti, assistiamo al ritorno nella scena del mondo del conflitto teologico-politico, dopo una breve pausa che si era protratta fino ad allora dall’89, dalla caduta del Muro di Berlino, nella quale la teologia politica era stata in qualche modo “neutralizzata” in mancanza di un “nemico”, di un avversario, come correttamente aveva già intuito in altre congiunture storiche Carl Schmitt, il teorico della teologia politica nel Novecento. L’era della globalizzazione, sconfitto il comunismo, non aveva avuto più bisogno, fino al crollo delle Twins Towers, della consacrazione religiosa.
Lo avevo capito bene, a proprie spese, anche Giovanni Paolo II. Dopo l’89 il potere “occidentale” non aveva più bisogno del Pontefice romano. Lo si è visto anche in tempi più recenti, quando l’amministrazione Bush con la teologia politica teocon, occidentalista, in opposizione a quella dell’islamismo radicale, risulterà insensibile, nella guerra dichiarata contro l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003, ai richiami di dissuasione di Papa Wojtyla, anche attraverso il messo personale, il cardinale Pio Laghi, inviato a Washington (pp. 261-262). Il Papa “teologo-politico” (Böckenförde), colui che aveva sognato la rinascita dell’Europa cristiana dalla fine del materialismo sovietico, doveva così diventare il principale critico della teologia politica occidentalista (p. 260). Nessuna giusti- ficazione di una guerra “religiosa” contro l’Islam, nessuna “crociata” cristiana: questo è il tratto saliente del seconda fase del pontificato di Giovanni Paolo II.
Papa Benedetto XVI, seguendo la linea del suo predecessore, aveva criticato nel celebre e discusso discorso di Ratisbona del 2006 l’uso della forza, fissando nella citazione dell’imperatore bizantino Michele II Paleologo, al di là di ogni interpretazione fuorviante, i confini che separano il momento teologico da quello politico, nel dialogo con l’Islam e non solo (pp.16-17).
E come non dimenticare in questi ultimi giorni scanditi dalla “crisi siriana” il deciso “no alla guerra” di Papa Bergoglio pronunciato all’Angelus dell’8 settembre 2013, con la ferma condanna all’uso delle armi non solo per interessi politici ma anche economici? L’intervento accorato di Papa Francesco è un esempio di teologia “della” politica, nella quale viene messa in luce la “trascendenza” del momento teologico su quello politico, una teologia che si occupa “indirettamente” della dimensione politica in funzione del bene comune e attraverso una mediazione etico-giuridica, una teologia che non si identifica con il politico, grazie allo scarto agostiniano tra Grazia e natura.
Massimo Borghesi evidenzia come il teologo Ratzinger si avvicini idealmente a colui che nel Novecento aveva maggiormente contribuito alla “liquidazione” della teologia politica: il cattolico tedesco Erik Peterson, in particolare il Peterson de Il monoteismo come problema politico del 1935. È lui l’autore che nel dibattito teologico-politico novecentesco ha dissociato il nome di Agostino da ogni possibile uso teocratico, di fronte al cortocircuito che si era creato tra i cristiani tedeschi e il Nazionalsocialismo, nesso tuttavia che fu caldeggiato da Carl Schmitt nella sua Politische Theologie (p. 78). Ed è attraverso la lettura “mediata” da Peterson che Papa Benedetto rilegge Sant’Agostino nella sua versione “liberale” (p. 17), l’Agostino del De civitate Dei, non quello dell’Epistolarium, l’Agostino che distingue le due civitates determinate da due tipi di amore, l’amor Dei e l’amor sui, la caritas e la cupiditas.
Con il De civitate Dei il Vescovo di Ippona risponde alla provocazione pagana: “perché il Dio dei cristiani non ha protetto Roma?”, opponendosi ai “costantiniani”, alla teologia cristiano-imperiale di Eusebio di Cesarea, separando teologia e politica, Regno e storia in chiave escatologica, fede e polis, religione e potenza, Grazia e natura. Scritto come risposta da parte cristiana alle accuse dei pagani di aver infranto la pax deorum, dopo il sacco di Roma da parte dei Goti di Alarico nel 410, il De civitate Dei diviene dunque la prima grande critica della teologia politica (p. 19).
Se nella Città di Dio la civitas mundi precede e genera i suoi dèi per consacrare la potenza della città e il benessere dei regni umani, la civitas Dei al contrario è creata da Dio, viene prima della civitas (p. 134). Proprio dalla coscienza di questa dualitas è permeata la grande tradizione patristica dei primi quattro secoli, consapevole della distinzione tra Chiesa e Stato e della richiesta di libertà religiosa per tutti.
E nello spazio dinamico creato tra le due civitates, nella tensione tra il regno di Dio e quello di Cesare è pensabile – secondo Borghesi – una “critica della teologia politica”: quest’orizzonte è solo del cristianesimo, nelle parole
di Cristo a Pilato: “Il mio regno non è di questo mondo”, che segnano la distinzione tra fede e spada che nessuna “teologia politica” può eliminare (p. 10).
La “svolta” non di Costantino e del pagano Licinio, ma di Teodosio con l’Editto di Tessalonica del 380, che imponeva il cattolicesimo come unica religione dell’Impero, segna tuttavia una rottura con tale tradizione (p. 12). Da qui l’idea del Sacrum Imperium fino agli Stati confessionali moderni. E sullo sfondo, non meno importante, l’acume insanguinato delle guerre di religione da cui è pungolata la modernità.
Ma Papa Benedetto, richiamandosi ai primi quattrocento anni di cristianesimo, “libera” Agostino e la sua Città di Dio dall’“agostinismo” politico medievale, a cui una certa ermeneutica (novecentesca) si era rifatta accostandosi al nome del Vescovo di Ippona per giustificare l’identificazione (impropria) tra “regno di Dio” e programma politico. In effetti, l’equidistanza di Agostino dalla legittimazione sacrale del potere (Eusebio di Cesarea) e dalla escatologia rivoluzionaria gnostica della delegittimazione degli ordinamenti terreni (Origene) è il punto che, nella prospettiva di Peterson e di Ratzinger, rende la sua lettura preziosa e attuale (p. 110).
Perché il ritorno alla tradizione patristica dei primi quattro secoli permette un dialogo fecondo con il moderno (Benedetto XVI). È qui la chiave di lettura. Sarà il paradigma pre-teodosiano infatti che verrà ritrovato dal Concilio Vaticano II: questo recupero della tradizione più antica si pone al di là della stessa dialettica progressisti-tradizionalisti, i quali, su fronti opposti, auspicavano invece una rottura con l’intera tradizione della Chiesa.
L’assise conciliare volle così chiudere il capitolo del contrasto frontale con il moderno, dialogando su temi come libertà e democrazia. Superando l’idea di Sacrum Imperium, l’incontro con la modernità avveniva cioè sul terreno stesso della libertà religiosa, che i Padri della Chiesa aveva così tanto difeso (pp. 58-59).
È stato Papa Benedetto a parlare a riguardo nel discorso alla Curia del Natale del 2005, a quarant’anni dalla fine del Concilio, di “ermeneutica della riforma”, di “rinnovamento nella continuità nell’unico soggetto-Chiesa”. Nei cento anni che dividono il Sillabo di Pio IX dalle dichiarazioni conciliari Dignitatis humanae e Nostra aetate, il mutamento di giudizio della Chiesa nei confronti del moderno è evidente. La Chiesa infatti si è pian piano liberata dalla pregiudiziale medievalista antimoderna, di cui Illuminismo e Rivoluzione francese avevano segnato lo spartiacque, con ateismo e anticlericalismo, innestando lo scontro frontale cristianesimo-modernità.
Ma non è solo la Chiesa a mutare il giudizio. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, infatti, uomini di Stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno Stato moderno laico (come le moderne democrazie cristiane europee
di De Gasperi, Adenauer, Schumann) non neutro ai valori, quei valori umani che rendono possibili un fecondo dualismo di Stato e Chiesa, in cui la libertà della fede è distinta dall’ordinamento giuridico borghese.
L’Illuminismo si era così fatto “critico”, cioè consapevole dei propri limiti, e la modernità “riflessiva” (Habermas) pervenendo alla concezione della libertà e della ragione non più pregiudizialmente ostili alla religione. Viene cioè meno, soprattutto dopo il 1989, l’idea che la religione appartenga alla sfera privata, infantile e premoderna dell’umanità (p. 272)
Facendo propria la grazie lezione di Jacques Maritain e del suo Umanesimo Integrale, Joseph Ratzinger distingue tra fede e dottrina cristiana (i principi) da un lato e le espressioni, contingenti e storiche, della cristianità dall’altro. In questo senso, seguendo questa prospettiva, il Vaticano II chiude veramente un’epoca, quello della cristianità intesa come identificazione tra cristiano e civitas, evitando di trasferire surrettiziamente le prerogative della Grazia al piano della natura (p. 131).
E nel confronto tradizione-modernità, fede e mondo moderno, oltre ogni teologia politica, si apre un terreno di dialogo non più di tipo “restaurativo”, costantiniano, tra due poteri in crisi che cercano mutuo sostegno. Il modello di confronto – concludiamo con le parole dell’Autore – è quello offerto da Papa Benedetto XVI “per il quale l’Agostino del De civitate Dei e l’illuminismo ‘riflessivo’ possono dialogare dando luogo ad un incontro fecondo e critico tra cristianesimo e modernità” (p. 282).
Tratto dalla rivista Aquinas n. 1/2013
(http://www.pul.it/">http://www.pul.it)
-
-
-
-
17,00 €→ 16,15 € -
-
-
-
34,00 €→ 32,30 € -
29,00 €→ 27,55 € -
20,00 €→ 19,00 € -
28,00 €→ 26,60 € -
22,00 €→ 20,90 € -
20,00 €→ 19,00 € -
14,50 €→ 13,77 €