Chora

Chora, questo spazio in cui il demiurgo del Timeo di Platone inscrive le copie delle idee pure, non appartiene né all’intelligibile né al sensibile. E’ una matrice, senza natura, privo di origine. Lei può accogliere tutto, ma non è informata da nulla; apre e disloca, sposta, tutte le categorie che governano la produzione di quel mondo, dalla denominazione al genere. Qualunque traduzione (“luogo”, “posto”, “area”, “regione”, “contrada”) o qualunque figura già indicata da Platone, e cioè “madre”, “nutrice”, “ricettacolo”, “impronta”, resta impigliata nelle strettoie dell’interpretazione. Ne consegue la difficoltà a proporre non solo un significato “giusto”, ma addirittura una parola giusta per chora. Essa non ha essenza e, anzi, anacronizza l’essere, non proponendosi né come soggetto, né come oggetto di interpretazione. Sottraendosi a qualunque determinazione, sfugge ad ogni operazione ermeneutica.