In rerum natura esse in rebus humanis nondum esse. L'identità del concepito nel pensiero giurisprudenziale classico
(Univ.Trieste-Fac.giuridica)EAN 9788814136108
1. – La monografia di Paolo Ferretti pare, dal titolo, considerare una questione terminologica già di per sé d’interesse, ma l’apparenza – come lascia intendere il sottotitolo – viene subito superata a favore di riscontri concettuali di carattere generale di cui l’opera è assai densa. La monografia si articola in tre capitoli e la completano l’indice delle fonti (pp. 197-213) e quello degli autori (pp. 215-222). Lo studio è condotto con un apparato critico assai ricco, ma sempre pertinente ai temi trattati. Il lavoro si colloca nel recente filone che riconsidera complessivamente la figura del concepito nel diritto romano confutando, sotto diversi e specifici profili, un’opinione, sino a pochi anni or sono, largamente condivisa, che trova le sue basi in alcune considerazioni dei giuristi medievali e che poi – transitando attraverso i secoli – si rafforza nel Novecento, grazie soprattutto alle riflessioni dell’Albertario (1), secondo cui al nondum natus non sarebbe stata riconosciuta una sua propria materialità e, tanto meno, una sua propria individualità, sebbene – in determinati ambiti del diritto – egli venga rappresentato, per dirla in termini di moderna dogmatica, quale titolare di aspettative, che si consolidano in diritti o che sfumano, a seconda che poi avvenga o meno la sua nascita. Invero, anche in passato, alcuni studiosi non parevano aver del tutto condiviso tali conclusioni: basti, tra quelli del secolo scorso, rammentare l’Albanese (2). Ora, però, sembra in atto una netta inversione di tendenza che ha principiato con alcune riflessioni svolte anzitutto dal Catalano (3) e dal Waldstein (4) e che, più di recente, è proseguita con alcuni studi, quali, a mero livello esemplificativo, quelli della Sanna (5), della Baccari (6), della Terreni (7) e del medesimo recensore (8). Pur con varietà di accenti, si tende, infatti, ad indicare il concepimento quale fenomeno cui la giurisprudenza romana riconobbe altissimo rilievo e colui che viene concepito come entità dotata, beninteso, entro determinati limiti, di propria esistenza e di propria individualità (9). Non si tratta, peraltro, di un orientamento monolitico, ma di una reazione a quello rammentato e tuttora diffuso, che si va sviluppando su tematiche diverse e con approcci metodologici differenti e che non sempre presenta risultati in tutto coincidenti. Né si può dire che l’avverso convincimento sia stato completamente abbandonato, come dimostrano, sempre a titolo d’esempio, le posizioni assunte dal Thomas (10) e quelle, invero, assai più seriamente espresse dalla Lamberti (11).
Nel solco di questa recente corrente, diversi lavori hanno anche affrontato questioni terminologiche concernenti il concepito: è il caso della monografia proposta pochi anni or sono dal Fontana (12) e, del resto, lo stesso Ferretti si era già occupato, da differente angolazione, di alcuni problemi afferenti il nascituro (13). L’a. torna, dunque, al tema del nondun natus proponendosi di riscontrare – analiticamente – la diversa valenza delle due locuzioni ‘in rerum natura’ e ‘in rebus humanis’, le quali sono frequentemente impiegate nei testi della giurisprudenza classica che trattano del concepito, essendo, tuttavia, ritenute – ancora in opere recenti – sostanzialmente equivalenti (14). 2. – Nella premessa (pp. XIII-XIV) l’a. denuncia come, intorno al concepito, si sia registrata nei secoli che separano l’esperienza giuridica romana da quella moderna una stratificazione di postulati che hanno reso «le ricerche successive prigioniere dei risultati acquisiti», portando a credere che la giurisprudenza romana abbia negato a ‘qui in utero est’ una propria individualità o lo abbia ritenuto addirittura un quid inesistente. L’a. si propone, quindi, di verificare la correttezza di queste tradizionali opinioni attraverso un attento vaglio delle fonti, in quanto possibile, operato senza «preconcetti modelli interpretativi». Da un lato, questo – così lo chiama il Ferretti – «approccio leale» pare certamente condivisibile e, tuttavia, mi verrebbe da credere che esso debba esser dato per dovuto e per scontato in tutti i lavori che pretendano per sé la qualifica di scientifici, dall’altro, mi si affacciano alcune perplessità sulla stessa possibilità di osservare le esperienze giuridiche antiche se non – come il Betti affermava – attraverso la nostra attuale dogmatica. Non è il mio un cedimento ad una visione ‘relativistica’ dei fenomeni storico-giuridici, ma la constatazione della difficoltà di separare consapevolmente gli strumenti d’indagine dall’oggetto indagato, specie ove questo sia costituito da tematiche tanto complesse quanto quelle afferenti, tra l’altro, i sempre labili confini delle stesse nozioni di persona e di soggetto di diritto (15). Nell’introduzione (pp. 1-10) l’a. svolge un excursus – sintetico, ma assai ricco di riferimenti a fonti e a dottrina – sulla percezione che del concepito si ebbe nel mondo antico.
Meglio sarebbe a dire sulle diverse concezioni e sulle differenti percezioni che del concepito ebbero filosofi greci, pensatori e teologi cristiani (non sono omesse le influenze loro derivate dalla traduzione alessandrina della Torah) e scuole mediche dell’antichità greca e romana. Specie dalla differenza delle valutazioni espresse a proposito del fatto che il concepito dovesse esser considerato come dotato di autonoma rilevanza o, all’opposto, quale semplice parte di un corpo altrui (è questa, sostanzialmente, la posizione della scuola stoica (16)), il Ferretti profila anzitutto l’esigenza di verificare se esista un’analoga contrapposizione di visioni nell’ambito del diritto romano e se corrisponda a verità che il pensiero giuridico romano – come vorrebbero diversi studiosi rammentati dall’a. – sia stato influenzato dalle diverse concezioni filosofiche e mediche. Nel primo e breve capitolo (‘L’identità del concepito: la ‘contraddizione’ del pensiero giurisprudenziale classico nelle diverse letture della dottrina’: pp. 11-30) il Ferretti riporta anzitutto i numerosi passi che, in dottrina, spesso sono stati indicati quali attestazioni di una ‘contraddizione’ del pensiero giurisprudenziale classico a proposito del concepito (sono i frammenti in cui si registrano le affermazioni che il concepito è solo ‘considerato’ essere ‘in rerum natura’ ovvero ch’egli non è ‘in rebus humanis’) e dalla cui lettura, di primo acchito, apparirebbe il disconoscimento al conceptus di una sua individualità e addirittura di una sua realtà ontologica. A questa conclusione giungevano – come osserva l’a. – già alcune riflessioni ravvisabili in Alciato e in Cuiacio, ma essa venne formulata in termini ancor più netti dal Savigny (il quale, come si ricorderà, parlò a proposito del concepito di una ‘finzione’ (17), salvo che si potrebbe osservare – come ho altrove avvertito – che il fondatore della scuola storica tedesca, ne parlava in termini generici, stante che la definizione tecnica di finzione giuridica o fictio iuris, che dir si voglia, risale ai decenni successivi a quelli in cui egli visse ed operò (18)). Di seguito, vengono poi sinteticamente illustrate anche le posizioni assunte dall’Albertario (19), dal Maschi, il quale aderiva solo parzialmente alle opinioni del primo e ravvisava nei giuristi romani il riconoscimento del concepito quando potenziale soggetto di diritti, non quando oggetto di un diritto altrui20 e dall’Arnò, che – com’è noto – era piuttosto propenso a individuare un qualche segno di differente orientamento tra muciani e serviani nel senso che, pur tendenzialmente, i primi avrebbero considerato il concepito una semplice parte del ventre materno, mentre i secondi lo avrebbero ritenuto quale entità autonoma21, ponendo così le basi che avrebbero successivamente consentito la formazione del brocardo ‘conceptus pro iam nato habetur’ (22).
Nell’ampio secondo capitolo (‘L’identità del concepito: in rerum natura esse’: pp. 31- 159) l’a. prosegue la sua analisi considerando le varie fonti nelle quali si registra la locuzione ‘in rerum natura’ (o consimile), premettendo una breve rassegna di altri passi tesa a discutere criticamente l’equivalenza dell’espressione ‘in rerum natura esse / non esse’ e di quella ‘in rebus humanis esse / non esse’, così che il lettore non sia posto nella condizione di dar per scontata la corrispondenza delle due senza aver operato un puntuale riscontro. I primi passi che vengono, in proposito, esaminati sono D. 1.5.26 (Iul. l. 69 Dig.) e D. 1.5.7 (Paul. l. s. de port., q. lib. damn. conc.) contenenti, l’uno l’espressione ‘in rerum natura’, l’altro quella ‘in rebus humanis’. È qui assai meritorio che il Ferretti, oltre che proporre una stringata esegesi delle due fonti, ne riscontri la lettura e l’interpretazione che ne furono date nei Basilici e negli Scolii. Si legge, infatti, aß nt?ù texue¥ntov in Bas. 46.1.22 (21) e 46.1.5 corrispondenti, rispettivamente, al frammento di Giuliano (in rerum natura esse) e a quello di Paolo (in rebus humanis). Ma, fa rilevare l’a., in Schol. 1. ad Bas. 46.1.22, anziché quella aß nt?ù texue¥ntov, si legge l’espressione o™ eßn fy¥sei, corrispondente, come vuole l’Heimbach e come, del resto, appare autoevidente, alla latina ‘in rerum natura’. Il che, da un lato, mostra che la tendenza a sovrapporre le due locuzioni è assai risalente, ma, dall’altro, indica che anche nel lontano passato non mancò chi rilevò la loro diversità sul piano concettuale. L’interpretazione dei due passi del Digesto viene poi proseguita attraverso l’esposizione delle diverse letture che ne furono offerte dalla Glossa, da Baldo degli Ubaldi, da Gotofredo, da Cuiacio per arrivare a quelle della dottrina contemporanea, tra le quali spicca quella di Francesca Lamberti. Anche in questo caso il Ferretti rileva che i comuni denominatori di queste letture antiche e moderne sono offerti dalla valutazione della sostanziale equivalenza delle due locuzioni e, in genere, dalla sussunzione della figura del conceptus nell’ambito della finzione. A quest’ultimo proposito, si può, tuttavia, osservare – come ha avuto modo di evidenziare, in critica allo stesso Ferretti, lo Zuccotti – che non va eccessivamente stigmatizzato il ricorso al termine ‘fictio’, in quanto non solo le letture antiche – lo si è già detto – ma anche alcune delle moderne equivocano tra la valenza debole del termine ‘finzione’ e quella, invece, altamente tecnica di ‘finzione giuridica’23 e che questa seconda accezione non è, in genere, riscontrabile con riguardo alla figura del concepito. A proposito della dottrina più recente si potrebbe, poi, notare che taluni autori usano l’espressione nella sua valenza propriamente tecnica: è il caso della Lamberti che asserisce la presenza di autentiche finzioni sia a proposito dei postumi sia a riguardo dei concepiti, ma che per far ciò deve proporre ipotesi – a mio avviso – non supportate dalle fonti (24), laddove altri studiosi – è il caso del Thomas – fanno ricorso, tanto per i postumi quanto per i nondum nati, alla nozione di finzione senza alcuna cognizione di causa (25).
Svolta questa rassegna delle riflessioni dottrinarie che si son venute a stratificare nel corso dei secoli, l’a. affronta esegeticamente i due passi iniziando da quello di Giuliano e, qui, analiticamente esaminando le quattro fattispecie che nell’esposizione del giurista adrianeo dimostrano, in via esemplificativa, l’affermazione che «qui in utero sunt, in toto paene (26) iure civili esse intelleguntur in rerum natura esse». Si inizia, dunque, dal ruolo riconosciuto al concepito nell’ambito della successione legittima, per passare al caso del postliminium che compete a colui che sia stato concepito da una mulier praegnas libera allorché questa sia stata capta ab hostibus (il figlio che nascerà in prigionia, tornato in libertà, per effetto appunto del postliminium, seguirà la condizione del padre o della madre – patris vel matris sequitur – a seconda che, a suo tempo, egli sia stato concepito da giuste nozze o meno (27)) e, poi, a quello dell’ancilla praegnas, che viene subrepta, il cui figlio, pure se nato presso un acquirente di buona fede, non può essere da questo usucapito in quanto ‘tamquam furtivum’ (28) e, infine, si conclude rammentando che il rapporto di patronato non si estingue ove, pur morto il patrono, gli possa nascere un figlio (29). Se il tratto comune delle diverse fattispecie considerate è dato dal riconoscimento della realtà ontologica del concepito, il Ferretti giustamente confuta che esso sia da porsi in relazione al criterio dei commoda. L’a. rammenta, anzitutto, la lettura del Fabro, il quale con ragione dubitava che l’ipotesi riguardante le questioni dell’usucapibilità del conceptus potesse essere ricondotta ai criteri del commodum del nondum natus, ma presentava, tra le fattispecie profilate da Giuliano, quella riguardante l’ancilla praegnas subrepta quale eccezione esplicando, invece, le altre tre alla luce dei commoda. Del che il Ferretti giustamente dubita. L’a. è indotto, infatti, a ritenere che il riconoscimento dell’esistenza del concepito vada disgiunto dalla mancata realizzazione – sin tanto ch’egli non è nato – dei benefici che potrebbero aversi in capo ai terzi e che sia appunto soltanto la rilevanza giuridica della sua esistenza a costituire l’elemento unificante delle esemplificazioni proposte dal giurista adrianeo. Di seguito, l’a. introduce alcuni elementi volti a provare la lettura proposta.
Così egli esamina, da un lato, i numerosi testi in cui compare l’espressione ‘in rerum natura esse / non esse’ e, dall’altro, la diversa terminologia impiegata nelle fonti per indicare il nascituro, confutando puntualmente i vari argomenti richiamati da coloro che sostengono l’inesistenza del nondum natus. Tra le ragioni che spesso in dottrina sono state addotte quali indici di una pretesa inesistenza, spicca quella che insiste sul frequente ricorso da parte della giurisprudenza classica, per indicare il concepito, al genere neutro. A questo proposito il Ferretti non manca, da una parte, di sottolineare che lo stesso genere è sovente impiegato anche per colui che è già nato (così, ad esempio, in D. 1.5.26; 40.5.41.5; 43.33.1pr.) e, dall’altra, di far notare che, in molteplici casi, l’uso del neutro si esplica facilmente per l’incertezza del sesso del nascituro o per la possibilità che il parto sia plurigemellare. A ragione, conclude il Ferretti, non si può trarre dall’impiego del genere neutro l’indice di un disconoscimento dell’individualità del concepito da parte dei giuristi romani. Tra gli ultimi passi considerati nel secondo capitolo figura anche D. 25.4.1pr.-1 (Ulp. l. 24 Ad Edict.), relativo ad un caso complesso e privo di precedenti (‘nova res’), risolto dai Divi Fratres, ove si conserva, a proposito del concepito, un’espressione celeberrima: ‘mulieris portio est vel viscerum (30)’, che – come è stato sottolineato – godette di grandissima fortuna in età medievale venendo elevata a rango di definizione con valenza generale (31). Invero, Ulpiano sta precisando che non è possibile alla donna, che avendo divorziato, nasconda la propria gravidanza o, addirittura, la neghi, svolgere una richiesta di alimenti sulla base dei senatusconsulta de liberis agnoscendis (32). In questo stato di cose si precisa che il partus ‘mulieris portio est vel viscerum’, vale a dire, un tutt’uno con la madre – la sola legittimata in forza dei senatoconsulti – a formulare la richiesta. Tanto il feto costituisce un tutt’uno con la donna, che – conclude il giurista – solo dopo il parto sarà possibile al padre chiedere che il figlio sia a lui esibito o da lui condotto. Su queste basi il Ferretti propende per la lettura che una parte minoritaria e, tuttavia, significativa della dottrina ha dato (33) e alla quale io pure ho aderito (34): la specificità e la finalità espositiva del passo rendono del tutto forzato trarre dalle parole del giurista severiano una definizione di carattere generale. L’espressione si riscontra, infatti, in quest’unica fonte e trova giustificazione solo nel suo preciso contesto.
Nel terzo e ultimo capitolo (‘L’identità del concepito: in rebus humanis nondum esse’: pp. 161-186) il Ferretti passa ad esaminare le fonti giuridiche contenenti l’espressione ‘in rebus humanis nondum esse’ o equivalenti e qui torna in rilievo il rapporto tra esistenza / inesistenza del concepito, da un lato, e criterio dei commoda, dall’altro. Si inizia, infatti, da D. 1.5.7 (Paul. l. s. de port., q. lib. damn. conc.), il notissimo passo in cui si afferma che «qui in utero est» riceve tutela «perinde ac si in rebus humanis esset» quando si tratti dei commoda del concepito, laddove «quamquam alii antequam nascatur nequaquam prosit». Si svolgono per questo passo alcuni acuti spunti esegetici: infatti, richiamata l’interpretazione offerta al sintagma ‘in rebus humanis’ dai Basilici, dalla Glossa, dal Cuiacio, dai pandettisti e da molti studiosi recenti, concordemente inteso quale rimando all’individuo già nato, il Ferretti rimarca come il criterio dei commoda non rilevi quanto alla questione dell’esistenza del concepito – data per scontata nelle parole di Paolo – ma debba esser connesso all’utilità che i terzi non possono trarre sin tanto che la nascita non sia avvenuta. Il criterio dei commoda non inficia, in altri termini, la realtà ontologica del conceptus, ma consente che questi soltanto – e non altri – ne possa trarre vantaggio. Il punto mi pare di grande importanza, perché evita ingiustificate confusioni, sovente riscontrabili in dottrina, su due questioni che, invero, sono concettualmente assai differenti. A confortare che il significato da dare alla locuzione ‘in rebus humanis’ rinvii all’individuo già nato – cui il concepito è sovente parificato sul piano della tutela giuridica ricevuta – soccorrono i numerosi passi, soprattutto ulpianei, che l’a. richiama: anzitutto: D. 37.9.1 (Ulp. l. 41 Ad Edict.), relativo alla disciplina accordata dal pretore a coloro che «nondum nati sint» similmente a coloro che «iam in rebus humanis sunt»; sono poi richiamati: D. 37.9.7 (Ulp. l. 47 Ad Edict.), ove, svolgendosi un parallelo tra la successione ab intestato e la bonorum possessio, si afferma che anche il concepito riceve tutela, ove, nel caso fosse già ‘in rebus humanis’, fosse cioè già nato, potrebbe chiedere la bonorum possessio; D. 38.16.1.8 (Ulp. l. 12 Ad Sab.), dove, nel tratto finale, si legge che, per succedere in qualità di sui heredes, occorre che si sia «vel in rebus humanis vel saltem concepti», vale a dire, se non si sia ancora nati, si sia almeno concepiti. E ancora – rileva l’a. – conducono inevitabilmente alla medesima valenza del sintagma considerato altri frammenti sempre di Ulpiano che sono stati conservati nel Digesto: D. 50.16.164 (Ulp. l. 15 Ad Sab.); D. 28.6.10.1 (Ulp. l. 4 Ad Sab.); D. 40.5.24.4 (Ulp. l. 5 Fideicom.).
Non sempre, tuttavia, paiano condivisibili i rilievi esegetici svolti dall’a.: è il caso dell’ultimo passo ulpianeo che viene proposto per dimostrare che l’espressione ‘in rebus humanis’ rinvii sempre a colui che è nato (per stabilire, tra costui e il nondum natus, una equivalenza di trattamento giuridico) e non ad un’inesistenza assoluta: D. 44.2.7.2 (Ulp. l. 75 Ad Edict.). Per questo frammento l’a. (p. 171), aderendo all’interpretazione che ne danno altri studiosi35, valuta l’espressione ‘in rebus humanis’ nel senso di ‘già nato’, senso che – in linea generale – può esserle attribuito, ma che nel caso specifico, a mio avviso, non trova riscontro. Nel passo è esaminata una questione afferente l’exceptio rei iudicatae: come ho altrove osservato (36), la lettura di quanto Ulpiano afferma nel frammento precedente, relativamente al caso in cui taluno ‘cum totum petisset, partem petat’ (37), chiarisce che ora il giurista sta esaminando quello in cui taluno chieda cose che ‘ex ea re sunt, quae petita est’, cose, cioè, che provengano da quella che era già stata richiesta con la prima domanda. In particolare, l’ipotesi presa in considerazione è quella in cui era stata precedentemente richiesta un’ancilla che – al momento della litis contestatio del primo giudizio – non era ancora praegnas. Analogamente al caso in cui fosse stato – in un primo giudizio – rivendicato un fondo, ove ancora non erano neppure germinati dei frutti, Ulpiano sottolinea che alla domanda nuovamente proposta non potrà essere opposta l’exceptio rei iudicatae, salvo che, nel primo giudizio, siano stati richiesti con apposita domanda e apposita aestimatio i frutti o il partus, pur all’epoca inesistenti, salvo, cioè, che la potenzialità del fondo di produrre frutti o la potenzialità dell’ancilla di partorire siano state specificamente considerate nel giudizio instaurato in precedenza.
Dalla lettura integrale del pensiero di Ulpiano si ricava necessariamente che, in D. 44.2.7.2, con la locuzione ‘in rebus humanis’ (tra l’altro, qui riferita, oltre che al partus, anche ai fructus) si fa riferimento all’inesistenza, all’epoca del primo giudizio, di ciò che, nel nuovo, è richiesto. Si può, anzi, osservare che il passo non si riferisce a colui che era già stato concepito all’epoca in cui venne instaurato il primo giudizio, ma a colui che ancora non lo era stato, vale a dire, a colui che, con espressione ignota al lessico giuridico romano, sarà – in epoca medievale – indicato col termine concepturus. Nel caso di D. 44.2.7.2 è, quindi, ad un’inesistenza ontologica che rinvia l’espressione ‘in rebus humanis’ (alludendo sia a colui che non è stato ancora concepito da illa ancilla sia ai fructus che ancora non sono venuti ad esistenza in illo fundo). E, tuttavia, sotto un profilo generale, il Ferretti mi pare cogliere nel vero, perché proprio considerando complessivamente quanto Ulpiano espone in relazione ai casi in cui si chieda con il secondo giudizio tanto ciò che era stato parte della domanda del primo, quanto ciò che, a quel momento, ancora non esisteva, ma che proviene da ciò che era stato oggetto della prima lite, se ne trae – forse con ancor maggior evidenza – che colui che è stato concepito ha una propria consistenza e – direi anche – una propria individualità. Il passo offre, dunque, un’eccezione rispetto all’abituale valenza della locuzione ‘in rebus humanis’, la quale, in genere, allude alla situazione di colui che è già nato, ma che qui si riferisce all’insistenza assoluta di chi ancora neppure è stato concepito. Di seguito il Ferretti propone una lettura comparativa tra il passo di Paolo (D. 1.5.7) da cui ha preso le mosse il terzo capitolo per l’esame del sintagma ‘in rebus humanis’ e i frammenti di Giuliano (1.5.26) e di Celso (D. 38.16.7), i quali ultimi conservano la locuzione ‘in rerum natura’ e che erano già stati considerati nel secondo, al fine di desumerne complessivamente l’attestazione dell’esistenza del concepito e di confutare l’opinione per cui costui dovrebbe esser inquadrato negli schemi della finzione giuridica. Al riguardo, l’argomentazione dell’a. consiste – soprattutto – in una critica della correlazione che sovente viene (impropriamente) posta tra l’impiego di alcuni elementi lessicali (proinde ac, pro, etc.) e la presenza di una fictio, critica che condivido ampiamente e sulla quale in passato, a più riprese, io pure ho insistito (38). L’a., infine, sempre considerando i medesimi passi Paolo, di Giuliano e di Celso, rileva che gli ultimi due giuristi «sarebbero giunti al riconoscimento dell’‘ esistenza’ del concepito», mentre la regola espressa da Paolo «sarebbe stata suggerita dalla necessità di introdurre un argine» al fine di evitare che, dallo stesso riconoscimento, i terzi fossero avvantaggiati. Di ciò darebbe prova non solo un testo dello stesso Paolo di commento al senatoconsulto Tertulliano (D. 50.16.231), ove il criterio dei commoda è ribadito escludendosi che la madre possa trarre benefici dallo stato di gravidanza, ma – secondo il Ferretti – anche un frammento di Modestino (D. 27.1.2.6), ove non si ammette che il padre di colui che ancora non è nato possa addurre il mero concepimento tra le excusationes dai munera civilia e uno di Papiniano (D. 35.2.9), ove non si accetta che colui che è soltanto stato concepito porti vantaggio ai legatari.
Si tratta di un’esplicazione certo suggestiva e assai interessante della genesi del criterio dei commoda, che pare capovolgere la visione tradizionale che, piuttosto, vede nel commodum il punto d’equilibrio per un ampliamento del riconoscimento dei potenziali diritti del concepito. Si tratta, naturalmente, di una proposta interpretativa che, in aggiunta a quelli, pur significativi, forniti dall’a., abbisognerà di ulteriori riscontri (39). La conclusione che, dopo il vaglio dei passi che conservano l’espressione, l’a. trae, vale a dire, che con la locuzione ‘in rebus humanis’ – quando impiegata a proposito del concepito – i giuristi volessero alludere, per evidenziare un’identità di trattamento giuridico, a coloro che sono già nati mi pare pienamente convincente e, altrove, vi ho espressamente aderito (40). A parte il caso di D. 44.2.7.2 – di cui ho detto – concordo con l’a. sul dato che nelle altre fonti esaminate che conservano la locuzione ‘in rebus humanis’, questa indica coloro che sono già nati. Così mi sembra non possano che essere intesi D. 37.9.1pr. (Ulp. l. 41 Ad Edict.), D. 37.9.7pr. (Ulp. l. 47 Ad Edict.) e tutti gli altri passi considerati in relazione ai quali il Ferretti ha modo di ribadire con ottime ragioni la profonda differenza concettuale che corre tra la locuzione ‘in rebus humanis esse / non esse’ e quella ‘in rerum natura esse / non esse’, che aveva esaminato nel capitolo precedente. Nelle conclusioni (pp. 187-193) il Ferretti sottolinea come dalle fonti complessivamente esaminate non venga a risultare – così come, soprattutto sulla scorta dell’Albertario, ha voluto una larga parte della dottrina – la presenza nella giurisprudenza romana di un dualismo di concezioni a proposito del concepito, ora percepito come un quid inesistente, ora rappresentato come esistente, ma emerga piuttosto «una linea di pensiero unitario» che principiando dall’età arcaica si sviluppa nel corso dell’epoca repubblicana e confluisce nelle riflessioni della giurisprudenza classica. Con riguardo a quest’ultima, l’a. rimarca – mi pare – convincentemente come non ci si debba lasciar trarre in inganno dalle varie testimonianze che collegano taluni (potenziali) diritti del nascituro al criterio dei commoda, dovendosi l’introduzione di tale criterio imputare non già alla considerazione di entità ora esistente ora inesistente che si ebbe del concepito, ma all’inopportunità che altri – prima della sua nascita – possano beneficiare dei diritti a lui solo riservati.
3. – Si può certo considerare il lavoro del Ferretti un serio e importante contributo per l’approfondimento critico delle varie e complesse vicende connesse, in diritto romano, alla figura del concepito. Non di tutti i passi esaminati né di tutte le questioni affrontate si è potuto dar pienamente conto nel breve spazio di questa recensione, ma va detto che l’opera si caratterizza per attenzione esegetica, ottima conoscenza delle fonti, padronanza della pur sterminata ed eterogenea letteratura e originalità di diverse delle soluzioni proposte (tra le quali, a mo’ d’esempio, quella riguardante l’espressione ‘spes animantis’ che si legge in un noto passo di Marcello (41)). A giudizio del recensore, è significativo il risultato raggiunto dal lavoro con la conferma sul piano esegetico dell’intuizione del Catalano circa la differente valenza delle espressioni ‘in rerum natura’ e ‘in rebus humanis’, le quali, anzi, vengono a rappresentare i due poli, per dirla con l’a., «i due fuochi» intorno ai quali si svolge gran parte della riflessione giurisprudenziale classica: il conceptus è sempre riconosciuto in rerum natura e, in molti ambiti del diritto, riceve trattamento giuridico al pari di coloro che sono in rebus humanis. A seguito dell’analitica indagine del Ferretti, si dovranno così evitare superficiali equiparazioni tra le due locuzioni.
Credo anche che le vie d’ulteriore ricerca dovranno avere a loro oggetto, non già l’esistenza / inesistenza del concepito, ma proprio quanto deriva dalla contrapposizione delle due espressioni. Restano, infatti, da individuare gli esatti limiti dell’equiparazione tra i nondum nati e coloro che sono ‘in rebus humanis’, né si tratterà di facili indagini sia per la specificità degli ambiti giuridici in cui l’equiparazione viene declinata sia, soprattutto, per le suggestioni che elementi metagiuridici, sempre immanenti allorché si lambisce il tema di pur potenziali soggetti di diritto – la materiale individualità del conceptus non comporta, infatti, la sua identificazione sul piano giuridico con l’homo (42) – potranno in esse giocare. Altro è, infatti, constatare che i giuristi romani riconobbero materialità e individualità al nondum natus, altro è dedurre da ciò che lo rappresentarono quale uomo o, addirittura, quale persona (43). Infine, ad avviso del recensore, altro merito del lavoro del Ferretti è quello di aver posto in rilievo la necessità di scindere nelle indagini future, almeno in linea concettuale, il riconoscimento della realtà ontologica del conceptus dal criterio dei commoda e di aver suggerito che quest’ultimo vada, piuttosto, assunto quale limitazione nei confronti dei terzi degli effetti che derivano dalla fisica (o per dirla con l’Albertario, ‘fisiologica’) esistenza del nondum natus, esistenza che è riconosciuta – come, all’unisono, informano le fonti un nostro possesso – sin dall’età più remota del diritto romano.
Tratto dalla rivista "Studia et Documenta" n. 1/2011
(http://e-lup.com)
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1 E. ALBERTARIO, Conceptus pro iam nato habetur (Linee di una ricerca storico-dommatica), in Studi di diritto romano, 1, Milano, 1939 [già in BIDR. 33 (1923) 1 ss. e – successivamente – in AG. 99 (1928) 151 ss.] 48 ss. L’a. ravvisava nelle fonti due gruppi di passi: un primo in cui sarebbe conservata l’affermazione che il ‘conceptus’ non è ‘in rerum natura’ e che denomina concezione «fisiologica»; un secondo gruppo in cui il ‘conceptus’ sarebbe considerato esistente, ma solo a determinati fini del diritto, che qualifica come concezione «giuridica». L’Albertario lasciava intendere che di questo dualismo di concezioni i giuristi romani non avrebbero avuto contezza, ma soprattutto egli sottolineava che si sarebbe trattato non di un’effettiva, ma di un’apparente contrapposizione, sostenendo che – nel primo gruppo di passi – si riscontrerebbe l’affermazione dell’inesistenza sul piano fisiologico del concepito, mentre – nel secondo – si rileverebbe l’affermazione della sua esistenza solo sul piano del diritto. Il concepito sarebbe stato dunque considerato, in sé e di per sé, inesistente, ma – ciò nondimeno – una realtà ‘giuridica’. È da notare che la costruzione dell’Albertario si è a tal punto diffusa da trovarsi recepita – senza alcun riferimento all’autore che la formulò – in lavori di carattere divulgativo. Così, ad esempio, J. P. BAUD, L’affaire de la main volée. Une histoire juridique du corps, Paris 1993, 67.
2 B. ALBANESE, Le persone nel diritto privato romano, Palermo 1979, 11 e n. 19, il quale, peraltro, pur attribuendo valore di definizione alla locuzione ‘portio mulieris vel viscerum’ di D. 25.4.1.1, confuta, poi, che il concepito fosse ritenuto «un nulla giuridico».
3 P. A. CATALANO, Osservazioni sulla “persona” dei nascituri alla luce del diritto romano (da Giuliano a Teixeira de Freitas), già in Rassegna di diritto civile, 9 (1988) 45 ss. e ora in ID., Diritto e Persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, 195 ss. (cui si deve anche l’intuizione della non equivalenza delle espressioni ‘in rerum natura’ e ‘in rebus humanis’ che danno il titolo all’opera recensita); cfr. ID., L’enfant conçu “sujet de droit” selon le système juridique romain, in Enfant et Romanité. Analyse comparée de la condiction de l’enfant, Paris 2007, 91 ss. In precedenza mi pare siano state registrate posizioni che non assumevano espressamente la diversità delle due locuzioni, ma che, implicitamente, la presupponevano: è il caso, ad esempio, di ALBANESE, Le persone, cit, 19.
4 W. WALDSTEIN, Das Menschenrecht zum Leben. Beiträge zu Fragen des Schutzes menschlichen Lebens, Berlin 1982, 21; ID., Zur Stellung des nasciturus im römischen Recht, in A bonis bona discere. Festgabe für Janós Zlinszky zum 70. Geburtstag, Miskolc 1998, 48 ss.
5 M. V. SANNA, Conceptus pro iam nato habetur e nozione di frutto, in AA.VV., Il Diritto Giustinianeo fra tradizione classica e innovazione. Atti del Convegno Cagliari 13-14 ottobre 2000 [cur. F. BOTTA], Torino 2003, 223 e s.; ID., La rilevanza del concepimento nel diritto romano classico, in SDHI. 75 (2009) 147 ss.
6 M. P. BACCARI, Concepito: l’antico diritto per il nuovo millennio, Torino 2004.
7 C. TERRENI, Me puero venter erat solarium. Studi sul concepito nell’esperienza giuridica romana, Pisa 2009.
8 E. BIANCHI, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova 1997, 429 ss.; ID., Astrazioni e finzioni in tema di «personae». Il concepito. Attualità e concretezza del pensiero lapiriano, in Index 34 (2006) 122 ss.; ID., Per un’indagine sul principio ‘conceptus pro iam nato habetur’ (Fondamenti arcaici e classici), Milano 2009, passim, ma praecipue, 273 ss.
9 Si può ricordare che, anche a livello manualistico, il denunziato orientamento si va rafforzando: vd., ad es., A. BURDESE, Manuale di diritto romano privato4, Torino 1987, 137, secondo il quale «il momento del concepimento» è, a determinati effetti, specie favorevoli al nascituro, quello «d’inizio dell’esistenza».
10 Y. THOMAS, Le «ventre». Corps maternel, droit paternel, in Le genre humain, 14 (1986) 223 ss., il quale, tra l’altro, parla – a proposito del concepito – di una «pure abstraction». Allo studioso sfugge, evidentemente, la nozione di ‘astrazione’ (sulla quale, per tutti, vd. G. JELLINEK, System der subjektiven öffentlichen Rechte2, Tübingen 1912 – rist. anast. Darmastadt 1963 – 17 ss.) come pure quella di ‘finzione giuridica’, vd. infra n. 25.
11 F. LAMBERTI, Studi sui «postumi» nell’esperienza giuridica romana. I [d’ora in poi indicato Studi sui «postumi» I] Napoli 1996, 46 ss., pur facendo rilevare la maggior risalenza dell’espressione ‘in rerum natura’, già impiegata presso i giuristi repubblicani, rispetto a quella ‘in rebus humanis’, assai diffusa presso i giurisperiti dell’età classica, ritiene che entrambe le locuzioni siano «relative all’esistenza o inesistenza materiale di una persona o di un bene...»; vd. anche ID., Studi sui «postumi» nell’esperienza giuridica romana. 2. Profili del regime classico [d’ora in poi indicato Studi sui «postumi» II] Napoli 2001, passim.
12 G. FONTANA, Qui in utero sunt. Concetti antichi e considerazione giuridica del nascituro nella codificazione di Giustiniano, Torino 1994.
13 P. FERRETTI, Diritto romano e diritto europeo: alcune considerazioni in tema di qui in utero sunt, in AUFE. 13 (1999).
14 LAMBERTI, Studi sui «postumi» I, cit., 46 ss.
15 Su questi temi ha, di recente, proposto l’opportunità di un ripensamento da parte della dottrina: P. SCHLESINGER, Il concepito e l’inizio della persona, in Rivista di Diritto Civile, 54, 3a (2008) 247 ss.; ID., La persona (rilevanza della nozione e opportunità di rivederne le principali caratteristiche), in Rivista di Diritto Civile, 54, 4a (2008) 379 e s. Sulla nozione di soggetto del diritto e anche sulla diversa terminologia che, in proposito, si registra negli ordinamenti di common law rispetto a quelli di civil law, vd. S. AMATO, Il soggetto e il soggetto giuridico, Torino 1990, passim, ma praecipue, 48 ss.
16 Sul punto di recente: A. LEFEBVRE-TEILLARD, Infans conceptus. Existence physique et existence juridique, in RHDFE. 72 (1994) 499 ss.
17 F. C. VON SAVIGNY, System des heutigen römischen Rechts – trad. it. a cura di V. SCIALOJA – Sistema di diritto romano attuale, I, Torino 1888, 11 ss.
18 BIANCHI, Per un’indagine sul principio ‘conceptus pro iam nato habetur’, cit., 15 n. 20.
19 Supra n. 1.
20 C. A. MASCHI, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, Milano 1937, 65 e s. In proposito, vd. BIANCHI, Per un’indagine sul principio ‘conceptus pro iam nato habetur’, cit., 277 ss.
21 C. ARNÒ, Partus nondum editus, in Atti del IV Convegno di studi romani, IV, Roma 1938, 84 ss. Per una critica di queste conclusioni rimando a BIANCHI, Per un’indagine sul principio ‘conceptus pro iam nato habetur’, cit., 330 ss.
22 Principio la cui genesi è, in dottrina, solitamente ascritta all’età post-giustinianea: così ALBERTARIO Conceptus, cit., 48 e s.; ALBANESE, Le persone, cit., 13 e n. 29, il quale definisce la regola «medievale»; cfr. M. BALESTRI FUMAGALLI, ‘Spes vitae’, in SDHI. 49 (1983) 339 e s.; vd. anche F. SCHULZ, Classical Roman Law, Oxford 1951, 76.
23 F. ZUCCOTTI, In rerum natura et in rebus humanis esse non esse?, in Vivagni VIII , in Rivista di Diritto Romano 8 (2008) 15.
24 Va, infatti, rammentato che la Lamberti, con argomentazioni assai articolate, intravede nel diritto romano arcaico un’autentica finzione riguardante il postumo che ne avrebbe consentito la chiamata all’eredità legittima (così Studi sui «postumi» I, cit., 112 ss.; cfr. Studi sui «postumi» II, cit., 6 n. 12), mentre, per quanto concerne il concepito, pur sostanzialmente recependo la posizione dell’Albertario (il quale, però, non parlò in proposito di finzioni), ravvisa nel diritto classico una fictio che avrebbe parificato – a determinati effetti – il nondum natus al iam natus (così Studi sui «postumi» I, cit., 24 ss.; 45 ss. e praecipue, 52 ss.). Rimando a BIANCHI, Per un’indagine sul principio ‘conceptus pro iam nato habetur’, cit., 101 ss. per la critica della prima ipotesi; 248 ss. e 299 ss. per quella della seconda.
25 Y. THOMAS, «Fictio legis». L’empire de la fiction romaine et ses limites médiévales, in Droits. Revue française de théorie juridique, 21 (1995), passim, ma praecipue, 21 ss. Le considerazioni dell’a. non sono supportate da fonti; sovente, anzi, le sue conclusioni contraddicono i dati testuali (è, il caso, ad es., di quella – errata – per cui nel diritto arcaico sarebbero insorte dapprima finzioni negative ed emerse successivamente quelle positive). Sul punto rimando a BIANCHI, Fictio iuris, cit., 19 n. 34; cfr. ID. Astrazioni e finzioni in tema di «personae», cit., 121 n. 7.
26 ALBERTARIO, Conceptus, cit., 6 ss, espungeva «in toto paene», così da leggere il primo periodo come di seguito riportato: «Qui in utero sunt iure civili intelleguntur in rerum natura esse». Si può, tuttavia, osservare che la limitazione posta dall’espressione «in toto paene» è giustificata dal fatto che l’equiparazione del trattamento riservato al concepito a quello che è disposto per il iam natus non è assoluta in ogni ambito del ius civile. Ad accettare il sospetto d’interpolazione ne conseguirebbe che l’affermazione di Giuliano diventerebbe di valenza ancor più generale.
27 Dalla lettura di altre fonti, la questione si presenta più complessa, giocando anzitutto il postliminium a favore del legitime conceptus e non del vulgo conceptus, per il quale si può ipotizzare che l’estensione del regime disposto per il legitime conceptus sia frutto di una riflessione operatasi successivamente. Si vedano i passi riportati da R. ORESTANO, La struttura giuridica del matrimonio romano dal diritto classico al diritto giustinianeo, Milano 1951, 125 e s. e n. 349, il quale, tra l’altro, avanza al riguardo un sospetto d’interpolazione, non affermando il passo che il ritorno in libertà del figlio si deve accompagnare a quello della madre e la diversa opinione di V. ARANGIO-RUIZ, Recensione a E. Albertario. Studi di Diritto Romano. I: Persone e famiglia, Milano, 1932, in AG. 113 (1935) 81. Invero, ALBERTARIO, Conceptus, cit., 20 ritiene che il postliminium fosse concesso in età classica al solo concepito da giuste nozze ed espunge conseguentemente il ‘vel matris’. L’opinione pare seguita da E. BUND, Untersuchungen zur Methode Julians, Köln-Graz 1965, 15 n. 45; contra U. RATTI, Studi sulla captivitas (II) Patria potestà – Tutela – Matrimonio, in BIDR. 35 (1927) 165 ss.
28 Sul punto assai perspicacemente SANNA, Conceptus pro iam nato habetur, cit., 223 e s. Tuttavia, diversamente da quanto sostiene quest’autrice, il passo di Giuliano è, a mio avviso, complementare e non in contraddizione con D. 47.2.48.5 (Ulp. l. 42 Ad Sabin.). In merito rinvio a BIANCHI, Per un’indagine sul principio ‘conceptus pro iam nato habetur’, cit., 293 ss. e nn. 55 e 56.
29 Il principio qui dettato in tema di patronato è confermato anche in altri ambiti e così, ad esempio, da D. 1.9.7.1 (Ulp. l. 1 Ad leg. Iul. et Pap.) concernente la condizione senatoria che compete – come già aveva ritenuto Labeone – al figlio che nasce dopo la morte del padre senatore e che spetta anche a colui che è stato concepito prima della rimozione del padre dal senato.
30 Invero, ALBERTARIO, Conceptus cit. 6, ritiene ‘vel viscerum’ un glossema, vd. anche Index Interpolationum quae in Iustiniani Digestis inesse dicuntur [cur. L. MITTEIS-E. LEVY-E. RABEL] I, Weimar 1929, 113.
31 F. LANFRANCHI, sv. ‘Nascituri’, in NNDI. 11 (1965) 14.
32 Sul passo e sul regime disposto dai senatusconsulta de liberis agnoscendis, vd. ALBANESE, Le persone, cit., 260 ss. e, praecipue, nn. 275-76.
33 Si ricordino, ad es., le notazioni di C. APPLETON, Histoire de la propriété prétorienne et de l’action Publicienne, I, Paris 1889, 251 n. 47; cfr. F. STELLA MARANCA, Intorno al fr. 7 Dig. 15, in BIDR. 42 (1934) 243 e s.; C. A. MASCHI, Il concepito e il procurato aborto nell’esperienza antica, in Jus, 22 (1975) 387 e s.; più recentemente, vd. W. WALDSTEIN, Quelleninterpretation und status des nasciturus, in Status Familiae. Festschrift für Andreas Wacke zum 65. Geburtstag, München 2001, 520; SANNA, La rilevanza del concepimento, cit., 147. Per l’avversa e predominante opinione, che attribuisce all’espressione valore di definizione generale, tra le opere di taglio istituzionale, si può ricordare D. DALLA-R. LAMBERTINI, Istituzioni di diritto romano2, Torino 2001, 49. Il passo è richiamato anche – ma sotto il profilo delle questioni legate all’aborto – da E. CANTARELLA, in AA.VV., Diritto privato romano [cur. A. SCHIAVONE] Torino 2003, 178, 209.
34 BIANCHI, Per un’indagine sul principio ‘conceptus pro iam nato habetur’ cit. 316 ss.
35 In questo senso SANNA, Conceptus pro iam nato habetur, cit., 250. Invece, ritiene – a mio avviso – correttamente che l’espressione significhi cose che «non esistono in nessun modo» F. MANCALEONI, Studi sull’acquisto dei frutti in forza dei diritti reali sulla cosa fruttifera, Sassari 1896, 32.
36 BIANCHI, Per un’indagine sul principio ‘conceptus pro iam nato habetur’, cit., 310 e s. e n. 102.
37 D. 44.2.7.1 (Ulp. l. 75 Ad Edict.).
38 BIANCHI, Fictio iuris, cit., 32, 180 ss.; ID., Per un’indagine sul principio ‘conceptus pro iam nato habetur’, cit., 300 ss. In proposito si potrebbe osservare che gli elementi meramente lessicali sono stati ritenuti insufficienti per il sicuro riscontro di una finzione anche nell’ambito di altri ordinamenti giuridici dell’antichità: è il caso, ad esempio, del diritto rabbinico ove – soprattutto nella letteratura tannaitica – sovente ricorre l’espressione ‘ke-illu’, che corrisponde semanticamente a quella latina ‘ac si’. Sul punto, vd. L. MOSCOVITZ, Legal Fictions in Rabbinic Law and Roman Law: Some Comparative Observations, in Rabbinic Law in its Roman and Near Eastern Context, Tübingen 2003, 115. Sulla debolezza dell’argomentazione ‘lessicale’ e con un riscontro concettuale di carattere generale, vd. H. KELSEN, Zur Theorie der juristischen Fiktionen, mit besonder Berücksichtigung von Vaihingers Philosophie des als ob, in Annalen der Philosophie, 1 (1919) 630 ss.
39 Il criterio dei commoda è ipotizzato come una restrizione del riconoscimento del concepito quale realtà anche da S. BRASLOFF, Aetas legitima, in ZSS. 22 (1901) 180 ss. L’opinione è, però, criticata da TERRENI, Me puero venter erat solarium, cit., 205 ss., la quale, provvedendo ad un’ampia disamina della letteratura in tema, opina che la giurisprudenza del principato, quando avrebbe posto l’equiparazione tra concepito e già nato, avrebbe anche determinato la genesi del criterio.
40 BIANCHI, Per un’indagine sul principio ‘conceptus pro iam nato habetur’, cit., 316 ss.
41 D. 11.8.2 (Marcell. l. 28 Dig.). Quella del Ferretti risulta, tra l’altro, ineccepibile anche sul piano del senso stretto attribuito alle parole di Marcello, la si veda – insieme alle altre letture, antiche e moderne, del passo – a p. 83 ss. dell’opera recensita.
42 Paradigmatico per l’età classica D. 35.2.9.1 (Papin. l. 19 Quaest.): «Circa ventrem ancillae nulla temporis admissa distinctio est nec immerito, quia partus nondum editus homo non recte fuisse dicitur». Tuttavia, il passo è, a mio avviso, significativo sul piano tecnico del diritto e non lo si potrebbe correttamente invocare riguardo a profili etici o sociali; vd., sul punto, BIANCHI, Per un’indagine sul principio ‘conceptus pro iam nato habetur’, cit., 329.
43 Si può ricordare che G. LA PIRA, Cosa è la persona umana, in Scritti Editi, Firenze 1970 [già in Azione Fucina 33 (1941)] 301 e s., sulla scorta di Tommaso, Summa Theol. I.29.4, ha giustamente osservato che il concetto di individuo precede – in linea logica – quello di persona. D’altro canto, come – tra gli altri – sottolinea B. BIONDI, Istituzioni di diritto romano4, Milano 1965, 109 ss., in diritto romano, la stessa «condizione di uomo non è di per sé attributiva di capacità». Si rammenti, infine, con F. DE MARTINO, ‘Persona fisica’ [Diritto romano], in NDI. 9 (1939) 928 ss., che, in ogni fase della storia romana, vi è assenza di un concetto corrispondente a quello proprio del moderno termine ‘persona’.
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