In cerca di Dio. Il significato e il messaggio dei nomi eterni
(Studi religiosi)EAN 9788810417041
I nomi del Dio d’Israele nell’Antico Testamento costituiscono il principio organizzatore dell’analisi dell’a. La trattazione esegetica dei nomi più rappresentativi gli consente d’indagare l’idea di Dio e le concezioni teologiche a essi sottostanti. I nomi divini sono infatti simboli che parlano di Dio, ma con categorie che appartengono al mondo dell’esperienza umana: essi consentono di trasporre l’Ineffabile a un livello che può essere percepito dalle creature.
Tratto dalla rivista Il Regno n. 20 del 2009
(http://www.ilregno.it)
Il volume di Mettinger, professore emerito di Bibbia ebraica all’Università di Lund (Svezia), con un titolo accattivante ed è altresì pubblicizzato in quarta pagina di copertina, con enfasi impropria, come «un volume destinato a lasciare un’impronta duratura». L’A. si prefigge «di offrire una trattazione esegetica dei nomi divini più rappresentativi, allo scopo di rivelare le concezioni teologiche sottostanti» (5). L’opera si compone di 10 capitoli in cui si prendono in esame i seguenti nomi divini: "Io Sono"- YHWH; Dio dei Padri - El Shaddai; il Dio vivente; il Signore come re; il Signore degli eserciti - YHWH Sabaoth; Dio come redentore, salvatore e creatore nel Deuteroisaia; Giobbe e il suo Dio.
Ogni capitolo prevede un riepilogo finale o degli excursus di sintesi. Lo stile esegetico, analitico, ripetitivo, arricchito da 15 figure, 4 cartine e 25 excursus, più un glossario, tradisce la sua origine accademica ove il linguaggio scientifico prevale su un’elaborazione teologica di più largo respiro. Il metodo adottato è quello filologico-concettuale, basato sull’analisi dei singoli vocaboli. Un tale metodo oggi però non è ritenuto molto attendibile, come mostrano gli studi di semantica del linguaggio biblico di J. Barr (London 1962; Bologna 1968) e il metodo dell’analisi narrativa affermatosi negli anni '80. L’A. richiama l’importanza dei nomi nella cultura antica e ricollegandosi agli studi di C. Westermann riconosce nell’AT due concetti essenziali per descrivere il Dio di Israele: 1) Dio è colui che salva; 2) Dio è colui che benedice ed è attivo nella creazione. Particolare rilievo (31-75) è dato al nome più sacro di tutti e il più usato nell .AT: YHWH, a cui lo stesso Paolo allude in Fil 2,9. Il Nome, divenuto presto impronunciabile (Shem hammephoras), viene riconosciuto esistente già prima di Mosè (XIII sec. a.C.) tra le tribù beduine del Sinai meridionale, ma fatto conoscere agli israeliti da Mosè. Mentre il Dio dei Padri, pur essendo un Dio legato alle persone, non solo è «senza nome», ma anche «senza luogo» - cioè non è affatto legato a un luogo determinato -, il Dio che si rivela a Mosè sul monte si mostra legato a un luogo sacro ed è geloso, non consente cioè il riconoscimento di altri dèi.
La differenza tra «il Dio dei padri» e «YHWH» testimonia il fatto che la comprensione che Israele ha di Dio non è statica (109). Molteplici sono le interpretazioni offerte del nome El Shaddai (103-106), ma manca il confronto con la bibliografia ebraica. Per esempio non si accenna al suggestivo collegamento con shad, mammella, secondo cui «El Shaddài indicherebbe un Dio con le mammelle, [...] intendendo così dire che Dio offre sostentamento a sufficienza a tutti coloro che ne hanno necessit à» (A. Green, Queste sono le parole, Giuntina, Firenze 2002, 60). Notevole è la trattazione del titolo di Re attribuito a Dio. Mediante questa attivit à Dio estende la sua forza dalla creazione al compimento escatologico. In tal senso protologia, storia ed escatologia sono unificate in Dio e governate da Dio, il re guerriero (cf 168). Il nome «Signore degli eserciti», YHWH tséba.òt, è riconosciuto strettamente collegato al Tempio di Gerusalemme e all’ambiente sacerdotale (185).
Il tempio nella cultura antica del vicino Oriente rappresentava il palazzo reale di Dio, il luogo d.incontro tra cielo e terra, il "cielo in terra", "le porte del cielo", "le cime del cielo". «Per gli israeliti il tempio era il luogo in cui venivano superati i confini, in cui cioè erano trascese le dimensioni dello spazio. In un punto di tutto il creato, il cielo e la terra si incontravano, nel tempio il cielo e la terra erano concepiti come una cosa sola. Il tempio era la parte terrena della realtà celeste» (186). Pertanto il nome Sabaoth parla di Dio come «YHWH delle schiere celesti» (189) e divenne un elemento centrale nelle lodi rivolte a Dio durante l’adorazione nel tempio. L’alta frequenza del nome in Isaia (56 volte), Aggeo (14 volte) e Zaccaria (53 volte) è spiegata dal fatto che questi profeti rappresentavano il Mikdash, la casa di santità, il tempio. Il Dio della teologia del Sabaoth è il Dio presente, colui che siede come re sul trono dei cherubini, fatti costruire da Salomone sul coperchio dell’arca dell’alleanza, collocata nel Devir o Qodesh ha- Qodashim, Santo dei Santi.
A questo punto l’A. non resiste alla tentazione digressiva di approfondire la profezia dell’Emmanuele in Is 7, la promessa davidica e la promessa su Sion (193-208). Degna di attenzione è invece la conclusione sul tema della regalità di Dio: «il ritratto monarchico di Dio che troviamo nella Bibbia non comporta l’arbitrarietà e la violenza di un despota orientale, ma il potere esercitato al servizio della vita» (209). La concezione regale di Dio è positivamente collegata a ideali egalitari, che evidenziano la speciale sollecitudine di Dio per le vedove, gli orfani e gli stranieri residenti, cioè per coloro che sono privi di potere. La particolare attenzione per il Deuteroisaia ritorna nel capitolo ottavo, ove l’A. esamina i titoli di go.el/redentore, moshia./ salvatore, e creatore reso a volte con l’espressione yotsér mibbeten, «colui che ti ha formato nel grembo» (Is 44,2.24; 49,5). Infine, nell’ultimo capitolo, è possibile leggere una lunga disamina sulla concezione di Dio nel libro di Giobbe, considerato il libro più singolare dell’AT (239-270).
Il libro si chiude con l’excursus 25 dal titolo: «Il linguaggio su Dio e il genere sessuale». Dopo aver ricordato che «nell'antico Vicino Oriente [.] le varie divinit à erano spesso dipinte come esseri sessuati », l’A. conclude che in ogni caso è «difficile dimostrare che lo yahvismo ufficiale abbia mai avuto spazio per l’idea di una coppia divina, cioè per l’idea che YHWH avesse una consorte» (276). Affer mazione questa però un po' precipitosa, non confermata, ad esempio, da uno specialista come Moshe Idel (Eros e Qabbalah, Adelphi, Milano 2007), il quale così si esprime: «i cabbalisti teosofici hanno sviluppato più di ogni precedente scuola nell’ebraismo il concetto di ipostasi femminile » (147). Dopo aver ribadito la concezione classica che Dio è da ritenersi asessuato, l’A. sente il bisogno di precisare «che l’idea secondo la quale gli israeliti possono aver immaginato Dio come androgino è totalmente priva di fondamento» (276). Anche su questo argomento, si può vedere Moshe Idel (Eros e Qabbalah, 147), e analogamente, G. Laras (Meglio in due che da soli, Garzanti, Milano 2009, 19-28).
Il libro si chiude con un’abbondante bibliografia (285-309), piuttosto datata, in cui sorprende la totale mancanza di riferimenti ad autori di area ebraica. Dopo la bibliografia seguono gli indici dei passi biblici, dei nomi e degli argomenti, dei termini ebraici, delle figure, delle cartine, e degli excursus. Alcuni rilievi critici conclusivi: oggi risulta superato parlare di «periodo intertestamentario » (35), mentre si preferisce parlare di «medio-giudaismo del secondo Tempio» (cf P. Sacchi, G. Boccaccini). Per spiegare le origini del Pentateuco si fa solo riferimento al modello esplicativo proposto da J. Wellhausen (1844-1918) (JEDP = Jahwista - Eloista - Deuteronomio - Documento sacerdotale [Priesterschrift]) e universalmente riconosciuto fin verso gli anni ‘70 del secolo scorso.
Oggi sono riconosciuti solo il Deuteronomio e il Documento sacerdotale, mentre l’Eloista (E) ha semplicemente cessato di esistere. L’A. sembra ignorare l’importante opera di P. Weimar ed E. Zenger, studiosi che hanno proposto l’innovativo «Modello del Pentateuco di Münster», (Münsteraner Pentateuch-Modell); nello spiegare il Nome "Io Sono" (57) sarebbe stato interessante menzionare anche il contributo di M. Buber. Il testo resta comunque un buono strumento per coloro fossero interessati ad approfondire la conoscenza dei “nomi eterni”.
Tratto dalla rivista "Rassegna di Teologia" n. 4/2011
(www.rassegnaditeologia.it)
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