Il Decalogo
-Uno sguardo retrospettivo
(Scienze religiose)EAN 9788810415214
Il Decalogo è un testo frainteso. Nel corso dei secoli, infatti, esso è divenuto un paradigma del formalismo etico e politico, mentre a un’indagine più attenta si dimostra essere qualcosa di diverso. Nonostante compaia all’interno di un corpus di testi ritenuti sacri, il Decalogo è un testo eminentemente politico: il primo manifesto d’indipendenza, un vero ordinamento sociale e politico. Per comprenderlo è tuttavia necessario soffermarsi non solo su cosa il testo dice, ma sul modo in cui lo esprime. Posto al termine di un cammino di liberazione come chiave di volta del processo di autoconsapevolezza religiosa e, soprattutto, politica di Israele, sarebbe una contraddizione interna voler leggere il Decalogo come una nuova forma di costrizione, di schiavitù. Le «dieci parole», lungi dall’essere un pesante fardello, sono il segno e l’espressione di una vita nuova, delimitano e garantiscono lo spazio della libertà.
Tratto dalla Rivista Il Regno 2011 n. 2
(http://www.ilregno.it)
In questo libro Debora Tonelli, che svolge attività di ricerca presso il Centro per le scienze religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento, non ha intenzione di negare l’aspetto imperativo e vincolante del decalogo, bensì di dimostrare che esso è tale in un senso diverso. Studio ben documentato e innovativo su un tema centrale della esegesi anticotestamentaria.
Tratto dalla rivista Concilium n. 1/2011
(http://www.queriniana.it/rivista/concilium/991)
Il libro monografico dell’A., legata alla “teologia pubblica” dell’area anglosassone, affronta uno dei passi più studiati in ambito biblico e soprattutto diventato un testo classico per la tradizione ebraica e cristiana; il Decalogo, infatti, fa ormai parte del patrimonio comune. Tuttavia rimane uno dei testi più fraintesi e di cui spesso non se ne coglie la profondità, avendolo “spogliato” e “privato” del proprio contesto biblico, a partire dai vari Catechismi, dove è stato ridotto a «una semplice sequenza di comandamenti» (22).
L’A. conduce uno studio molto convincente e stimolante, a partire dalla constatazione che la “lettura” e la comprensione del Decalogo è stata condizionata dalle idee dei commentatori; così, si è giunti, spesso, a interpretazioni falsate e ridotte del testo biblico (9). In altri termini, il Decalogo è stato «privato della propria dimensione storico-culturale» (17). Lo scopo dello studio è quindi evidente e chiarito fin dall’introduzione: giungere a una comprensione del testo e parimenti “smascherare un tale meccanismo”. Si parte da un’analisi accurata di Es 20,1-17, di cui si evidenziano le false o parziali interpretazioni del Decalogo, conseguenza di una lettura al di fuori del proprio contesto. Si procede poi a una rilettura e interpretazione all’interno della propria trama narrativa dell’alleanza al Sinai. Segue il confronto con questioni riguardanti il dibattito attuale dell’ambito sociopolitico e giuridico. Si evidenzia, infine, la prospettiva del passo biblico inteso non solo come testo religioso ma anche politico-sociale, «primo manifesto dell’indipendenza politica di Israele» (16).
Il libro è strutturato in quattro parti: nel primo capitolo sono presentati gli obiettivi e il metodo della ricerca, premessa necessaria all’indagine successiva. L’A. parte dallo stato attuale della ricerca, usufruendo di una bibliografia aggiornata; si confronta con i vari metodi esegetici e le varie interpretazioni del Decalogo, per poter evidenziare alcune complessità del testo: i problemi relativi alla redazione e al lungo processo storico-letterario; la scelta del testo di Es 20 e non di Dt 5, testo parallelo e probabilmente più antico. L’A. conclude sottolineando le caratteristiche del brano, per mostrare come per una vera interpretazione del testo bisogna partire del contesto letterario. Il Decalogo, infatti, è definito «un testo di confine» (57), frutto di una lunga tradizione, ma anche di una nuova tradizione, «resoconto di una storia passata e orientamento per il futuro» (59), dove «il passato rende il presente vincolante per il futuro» (60). Il secondo capitolo è un commento esegetico-giuridico, che intende partire dall’analisi del testo per studiarne soprattutto il lessico e far emergere la valenza giuridica, sebbene il testo non abbia un significato unicamente legislativo. A tal proposito occorre, infatti, non dimenticare il contesto narrativo dell’alleanza, e, quindi, il legame «tra esperienza della liberazione e il dono della legge, intesa quale strumento per conservarla» (79).
Questa prospettiva fa emergere il vero significato delle Parole donate, cioè non propriamente “norme”, “leggi”, ma “proposte”, «criteri che diventano normativi perché esprimono la verità di quanto è accaduto: l’esperienza di liberazione» (99). Ecco lo “sguardo retrospettivo” del Decalogo, che fa memoria del passato, della relazione tra Dio e il popolo di Israele, come risultato di un’esperienza vissuta che dice il presente e l’identità stessa del popolo. Il terzo capitolo allarga l’orizzonte nel contesto culturale dell’antico Medio Oriente, in uno sguardo retrospettivo in chiave politica; qui l’A. sottolinea la «funzione del Decalogo nell’evoluzione del diritto occidentale» (144) e la trasformazione del testo in un «rigido sistema normativo» (145). Si comprende perciò l’origine del concetto di norma e del senso normativo del brano che la nostra cultura ha ereditato. Infine, l’A. nell’ultimo capitolo analizza il concetto di “alleanza” e di “uguaglianza” in autori moderni e nel confronto con il mondo greco, per porre in rilievo, in particolare, l’apporto che potrebbe offrire il Decalogo, la cui strategia «si traduce nella tutela della vita» (199) e in una «concezione relazionale dell’uomo» (202). Un merito dell’A. è quello di essere riuscita a non confondere gli ambiti, ma di aver integrato le di versi prospettive, a partire dall’interpretazione esegetica e da uno studio ben accurato del lessico biblico; riesce, così, ad eseguire uno studio “interdisciplinare”, avvalendosi non solo della sua preparazione e competenza in ambito giuridico e filosofico- politico, ma anche mediante uno studio esegetico ben fondato.
In questo modo, partendo dal contesto storico-letterario del Decalogo letto non più come un elenco di comandamenti, ma all’interno del contesto dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, si giunge a manifestare problematiche molto attuali. In particolare, il passo affrontato sui due livelli, letterario e storico-culturale da una parte, e speculativo-filosofico-argomentativo dall’altra, evidenzia il legame tra legge e dono della liberazione; la legge è donata a conclusione di un cammino di liberazione, in un contesto relazionale tra Dio e il suo popolo. «L’etica nasce dal dono della liberazione e non il contrario, così come la legge è data dopo l’esperienza dell’Esodo, non prima ed è per questo che essa è veramente dono: Israele deve rispettare la legge non per essere salvato, ma perché è stato salvato» (20).
Tratto dalla rivista "Rassegna di Teologia" n. 2/2013
(www.rassegnaditeologia.it)
Il volume è inserito nella collana “Scienze Religiose. Nuova serie” della Fondazione Bruno Kessler di Trento e trova la sua origine nella tesi che l’autrice ha difeso presso l’Università degli Studi - Roma Tre; caratteristica che permane anche nella sua redazione attuale. Esempi: l’ampia Bibliografia finale (203-231); per contro, si rileva qualche carenza nell’Indice dei nomi di persona (233-235); le note sono numerose, ma talvolta eccessivamente ampie; alcune ripetizioni.
In sostanza, presenta l’inevitabile acerbità delle opere prime, ma è tutt’altro che una ricerca superficiale o scontata. Un aspetto di notevole interesse è l’articolarsi del lavoro con metodo interdisciplinare (diritto, teologia ed in particolare esegesi biblica, filosofia, politica…; come emerge dai suoi interessi, essendo l’autrice dottoranda per un lato in Filosofia politica, in Italia, e per un altro in Esegesi dell’AT, in Germania), che ne amplia ed approfondisce l’orizzonte in merito alla pericope di Es 20,1-17; la quale è la sola trattata, mentre è omessa Dt 5,6-21, come esplicitato a p. 17.
L’estensione di questo concetto la si ritrova all’inizio dell’Introduzione (15-16); che, per altro, risulta degna di attenzione nel suo complesso e di cui evidenzierò alcuni aspetti. Per maggiori indicazioni circa il metodo, cf. 25-30. D. Zordan nella Prefazione scrive: «prima che sia precisato a Israele quello che deve fare e come deve essere, gli viene ricordato ciò che è già: un popolo libero. La libertà ha al tempo stesso la forma dello spazio aperto e dell’ingiunzione [ecc.]» (11); con queste parole ha ben sintetizzato l’essenza dello studio in questione. Altro elemento su cui riflettere è quanto l’autrice afferma: «sono profondamente convinta che il Decalogo sia un testo eminentemente politico: il primo manifesto dell’indipendenza politica di Israele» (16); linea rossa che si svolge per tutto il lavoro.
Più avanti prosegue: «L’obiettivo di questo lavoro consiste, in primo luogo, nel prendere coscienza e dimostrare che questo testo è molto diverso da come lo abbiamo conosciuto finora, quale elenco di precetti che può essere estrapolato dal contesto nel quale si trova» (19). Ed ancora: «è necessario ri-comprendere questo testo all’interno di un percorso storico-politico nel quale l’adesione interiore dell’individuo gioca un ruolo determinante. La legge stabilita […] è il risultato della crescita di una relazione tra Dio e il suo popolo e della liberazione dalla schiavitù» (20). Evidenzio che ne scaturisce una concezione profonda dell’intera dimensione morale; la quale non può essere ridotta all’osservanza rigida (pena: la punizione) di una serie di norme imposte dall’Alto.
Diviene piuttosto il cammino del popolo (in una visione più ampia, la stessa umanità) che, nella storia, procede alla ricerca (incontro) col suo Dio; il Quale, a sua volta, non ha altro interesse se non il farsi trovare e conoscere; in un cammino di liberazione dell’uomo dai suoi limiti e paure; «Le dieci parole, lungi dall’essere un pesante fardello, sono il segno e l’espressione di una vita nuova, la via che mantiene l’uomo libero» (21). Ed ecco che sono stati posti i fondamenti affinché Dio diventi padre (meglio, “abbà”). Il primo cap. (cf. 31-61) possiede un carattere in qualche modo introduttivo, in cui affronta questioni inerenti alla redazione del testo ed allo stato attuale della ricerca, in merito ad esso; stato attuale su cui si sofferma in particolar modo alle pp. 48-56. Il secondo cap. (cf. 63-102) esamina il testo biblico in questione, di cui riporta la traduzione italiana alle pp. 64-66; ed è la parte in cui maggiormente si evidenzia l’interesse dell’autrice per l’Esegesi dell’AT, pur non tralasciando la scienza giuridica: questa sezione è caratterizzata dalle due prospettive.
Tra l’altro, risulta interessante, particolarmente per i non specialisti, lo studio sui termini biblici (ebraici, rapportati agli omologhi greci). A p. 73 si legge: «Rispetto alla cultura dell’epoca, il Decalogo presenta un altro elemento di novità e forse il più importante: mentre le altre divinità fondavano un santuario o una città e, quindi, erano legate a un luogo o a un territorio, Jhwh lega la sua sovranità ad un’esperienza»; sottolineatura che apre un orizzonte originale, valido non soltanto per l’antichità, ma anche per l’uomo moderno e contemporaneo. Evidentemente, risulta molto più semplice, in quanto meno coinvolgente, l’osservanza di un precetto esteriore (il fare qualcosa), che non la condivisione di un rapporto; il quale comporta un radicale cambiamento non soltanto del comportamento (esteriore, appunto), bensì del modo di essere (interiore).
La prospettiva (morale), proprio in quanto innovativa, risulta più difficile non unicamente sotto il profilo della comprensione razionale, bensì soprattutto sotto quello dell’impegno che il metterla in pratica comporta: proietta l’uomo in una visione dinamica nei confronti di Dio, con il quale è chiamato ad interagire. Quindi, l’autrice riporta brevemente delle ipotesi proposte da vari specialisti in merito al significato del tetragramma (cf. 73-75). Verosimilmente ci si sarebbe aspettati la sottolineatura che proprio la poliedricità di significati, legati al Nome, suggerisce; ovvero che a fondamento dell’innominabilità del suddetto (tetragramma) vi sia l’incapacità per l’uomo di esprimere la multiforme essenza dell’Essere, proprio appunto del Dio d’Israele. Come dire che il pronunciarlo avrebbe necessariamente comportato, proprio per la limitatezza umana, il ridurne la portata e, quindi, si sarebbe tradotta in una vera e propria bestemmia.
Tanto più che il concetto del nome, per l’ebreo, è di gran lunga più vasto che non per il greco (e per noi), in quanto non soltanto nomina, in un’accezione popolare, qualcuno, bensì lo caratterizza in quanto tale; per cui il termine “nominare” possiede piuttosto una valenza assimilabile a quella utilizzata in ambito filosofico. In tale linea, a p. 91, si legge: «il pensiero ebraico risulta più interessato a tenere insieme la totalità». Detto ciò, l’autrice scrive: «servire Jhwh significa mantenere vivo il ricordo dell’evento fondativo che ha permesso la nascita di Israele: il credo religioso acquista gradualmente i contorni di un’esigenza politica, l’autonomia [ecc.] il loro tono è esortativo, più che imperativo» (75); per continuare: «il Nome […] viene ora rivelato a tutto il popolo: chiunque potrà invocarlo. Più che di rivelazione, qui si potrebbe persino parlare: […] Dio si affida al popolo, si rende vulnerabile all’abuso» (76).
In relazione al termine “politica”, sarebbe opportuna un’adeguata disamina, impossibile in questa sede; mi preme, però, sottolineare che la (apparente) debolezza di Dio, il quale «si rende vulnerabile» costituisce un vero e proprio balzo in avanti nella ricerca da parte dell’uomo del suo creatore (ma non solo). Egli si rende debole per poter essere invocato dalla creatura, che quindi non può essere definita unica mente tale (ovvero separata dal Creatore), bensì già sono posti i fondamenti di quell’essere padre (ancora, meglio: abbà) di cui Cristo parlerà con tanta ampiezza: fermo restando che nel “parlare” di Cristo si potrà riconoscere la consonanza piuttosto con il “dire” creatore del Padre, che non con il “far conoscere” dell’uomo.
Infine, una breve nota circa il carattere «esortativo, più che imperativo» legato al Decalogo e, di conseguenza, al volere di Dio nei riguardi dell’uomo: aspetto che va sempre tenuto presente. «Il dio che fa la storia e la rende decifrabile è il medesimo che rende il futuro di Israele possibile ed è in questo carattere di mancata certezza – perché anche Israele deve giocare la sua parte – che si situa la libertà del popolo credente. La libertà continuerà a realizzarsi non per potere di Dio, ma per volontà del popolo, nella misura in cui Israele continuerà a riconoscere Jhwh come il Dio che lo ha liberato» (111-112).
Emerge chiaramente il nesso che lega la politica alla fede, in una connessione reciproca, laddove necessariamente la politica non va considerata unicamente come riguardante il popolo, valutato soltanto come un’unica entità, bensì anche come unione dei singoli. Ognuno dei quali è influenzato dalla comunità, ma pure ognuno dei quali condiziona la comunità col proprio comportamento: i due mondi, quello della fede e quello della politica, in realtà non soltanto non sono separati, ma costituiscono sostanzialmente un tutt’uno, in quanto l’insieme dei credenti, col proprio comportamento, costituisce la politica.
E la libertà del singolo credente rappresenta una possibilità, e quindi un’incertezza che richiede impegno, ma anche l’opportunità per realizzarsi secondo le proprie potenzialità, in un’accezione al tempo stesso soggettiva e comunitaria. Tant’è vero che, a p. 116, si legge: «Alla staticità degli idoli, Israele deve contrapporre la dinamicità di una fede che si realizza nella storia». Volendo, si potrebbe aggiungere: «L’Adam della genesi è l’umanità come tale e non il solo israelita [ecc.]» (118), che amplia ulteriormente l’orizzonte di un Dio, padre non di un solo popolo, bensì dell’umanità intera. In tal modo si esce dalla visione di divinità proprie di ciascuna popolazione, come avveniva nel tempo della redazione del Decalogo per le nazioni coeve di Israele, per giungere, sia pure con un lungo processo di gestazione, a quello che sarà il Dio cristiano.
In realtà, c’è una profonda differenza tra lo stesso fondamento biblico e la contestualizzazione di quel concetto nella vita, vissuta non soltanto del singolo, bensì dell’intera comunità dei credenti; tant’è vero che anche oggi, a distanza di molti secoli (con tutta la ricchezza di esperienza che essi hanno comportato), implica una notevole fatica recepirlo nella vita vissuta. L’autrice afferma: «Non ho dedicato la stessa attenzione a tutti i versetti perché […] l’intento […] [è] una riflessione sul modo in cui, in questi versetti, si configura il concetto di norma» (120) e poco dopo continua: «la presenza di due ambiti di riferimento, teologico e sociale, che sono strettamente legati tra loro» (121); ed ancora: «i principi che regolano l’ordine sociale hanno la loro ragione d’essere nella relazione con Dio» (122).
Sono proprio le due dimensioni, teologica e sociale, ad essere strettamente legate tra loro e, quindi, a determinare lo sviluppo della coscienza di un popolo che ha apportato un contributo fondamentale, certamente per l’approccio al divino dell’intera umanità, ma anche per le inevitabili ricadute che detto approccio comporta nel quotidiano del singolo. All’interno di un breve excursus sui codici medio orientali sostanzialmente coevi, si legge che «tali codici non vincolavano in alcun modo l’attuazione della giustizia concreta» (128), e poco sotto, «il concetto di legge, per i mesopotami, […] non era un enunciato, ma una tendenza. […]
Questo modo di vivere la legge come tendenza esercitò la sua influenza anche sugli ebrei». Un tale approfondimento, che l’autrice amplia (cf. 126-135), apre orizzonti che meriterebbero di essere estesi, specie in una ricerca che volesse volgersi verso l’atteggiamento morale, il suo rapporto con la legge in genere, e quella divina in particolare. All’interno del cap. terzo (cf. 103-160), in cui già mi sono introdotto, v’è un ampio paragrafo che affronta il tema La nascita della scienza giuridica moderna (135-160); in esso, tra l’altro, si legge: «il diritto occidentale nasce da tre fonti principali: il diritto romano, quello germanico e il diritto biblico» (138): quadro che viene sviluppato con riflessioni degne di interesse.
Particolarmente, in riferimento ad Es 20,1-17, l’autrice osserva «che quando si legge un testo del quale non si conosce la genesi né il contesto di appartenenza, inevitabilmente lo si interpreta in base alla prospettiva corrente» (152): affermazione apparentemente scontata, ma sulla quale sarebbe bene riflettere costantemente, onde evitare errori che non solo sono stati spesso commessi nel passato, ma dai quali anche il presente non è esente. L’ultimo cap. (il IV), contiene ampie riflessioni sul concetto di “alleanza” (cf. 161-182), cui ne seguono sull’“isonomia” (cf. 182-198), definita, secondo C. Meier: «quel preludio … alla democrazia nella quale vasti strati di cittadini lottarono e riuscirono a strappare all’aristocrazia, allora dominante,un’attiva partecipazione alla vita politica» (182, nota n. 50). A p. 193, si legge: «La caratteristica del diritto non è la sua universalità, ma la capacità di adattarsi al particolare»; evidentemente, ciò apre un vasto orizzonte che meriterebbe di essere ulteriormente ampliato, in quanto sottesa vi è la considerazione che il diritto debba tenere conto dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, ma anche della loro disuguaglianza, intesa, ad esempio, come l’insieme di quegli aspetti che rendono i deboli più bisognosi di quanti non lo siano (deboli).
A tale proposito, D. Tonelli afferma: «L’uguaglianza che nasce dall’esperienza biblica non è esteriore, formale, ma si costruisce sulla attualità delle persone concrete, tiene conto delle loro differenze. […] L’uguaglianza formale […] è, invece, un prodotto illuministico che segue alla nascita dell’astratto soggetto giuridico» (201). In definitiva, un testo ricco di suggestioni e spunti passibili di ulteriori sviluppi da parte del lettore.
Tratto dalla rivista Lateranum n.1/2012
(http://www.pul.it)
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