Chiesa e postmoderno
-Domande per l'ecclesiologia del nostro tempo
(Scienze religiose)EAN 9788810415153
Se per la Chiesa non fu facile affrontare le questioni della modernità – epoca segnata dalle pretese del sapere scientifico – oggi essa sembra muoversi con difficoltà anche nei confronti della postmodernità, caratterizzata da incertezza e frammentarietà. L’a. ritiene che dopo il Vaticano II la Chiesa cattolica sia come rimasta in una sorta di limbo, in attesa di formarsi una visione chiara della sua missione e del suo futuro. Ma data l’urgenza di un’ecclesiologia che proietti la Chiesa verso il futuro, l’a. – già docente a Oxford e Lovanio – offre, «con carità ecclesiale», piste e suggerimenti perché essa giunga a una migliore e più armoniosa autocomprensione, riscopra un’ecclesiologia più positiva, attui una prassi quotidiana più coerente.
Tratto dalla Rivista Il Regno 2009 n. 16
(http://www.ilregno.it)
Gerard Mannion ha insegnato come professore associato di Ecclesiologia e di Etica nella Liverpool Hope University. Attualmente è alla guida dell’Ecclesiological Investigations International Reserarch Network presso l’Università di Leuven (Belgio), oltre a essere co-presidente dell’Ecclesiology Program Group of the American Academy of Religion. La lista delle sue referenze è lunga, ma riteniamo che queste siano sufficienti per tracciare la figura dell’autore e la genesi di questo libro, il cui scopo è l’esplorazione della nozione, della natura e dei compiti della chiesa nell’epoca attuale, e l’individuazione di vie percorribili perché essa possa uscire da quella sorta di limbo in cui, secondo Mannion, sarebbe caduta all’indomani del Concilio Vaticano II (cf. p. 13).
L’autore apre la prima parte della sua riflessione con l’analisi della nozione di “postmodernità”. Egli vede nel pluralismo e nel relativismo culturale gli elementi che contraddistinguono questo tempo. Purtroppo, nella chiesa, c’è paura, e un certo clima di tensione non favorisce il dialogo con un’epoca che ha sancito l’impraticabilità delle “grandi narrazioni”, cioè il rifiuto delle ipotesi di spiegazione del reale dominanti e universali, siano esse fedi religiose, ideologie politiche o paradigmi scientifici (cf. p. 24). Ogni tradizione è denunciata, così, quale esercizio di autoinganno, perché cerca di offrire un fondamento che sia valido per tutti. In quest’orizzonte, l’uniformità non è più un valore, ma lo sono la diversità e la differenza. Anche l’etica e la religione tendono a frammentarsi: la morale non è più unica e lo spazio della fede si caratterizza sempre più per un certo bricolage religioso, una religione e una spiritualità “fai da te” (cf. pp. 38-39).
In risposta alla postmodernità e alle sue sfide, molti teologi hanno percepito la necessità di rifugiarsi in un paradigma istituzionale, dominante, uniforme e privilegiato, quali sembrano essere i modelli ecclesiologici “esclusivisti”, sostenitori di una pretesa superiorità, sul piano della salvezza e della verità, della Chiesa cattolica rispetto alle altre confessioni e alle religioni presenti nel mondo. Tutti gli sforzi metodologici di Mannion, al contrario, sono indirizzati al superamento di quest’ecclesiologia, definita e sostenuta in modo centralizzato, a favore di un modello più genuinamente “comunitario”, che aiuti davvero a superare le differenze ecclesiologiche e sia un modo più adatto per far fronte alle sfide della postmodernità.
Secondo l’autore, l’irriducibile molteplicità alla base della nostra cultura è un dato di fatto da accettare e non una malattia da combattere. In altri termini, è una presa d’atto l’esistenza di una pluralità che non può essere ridotta all’interno di un’unica narrazione valida per tutti. Solo assumendo questa consapevolezza critica postmoderna si può iniziare a ripensare la teologia e la missione della chiesa nel nostro tempo.
Nella seconda parte Mannion passa in rassegna Le risposte problematiche dell’ecclesiologia alla postmodernità (pp. 65-131). Egli descrive la situazione attuale come un passaggio da una “chiesa aperta” a una chiesa intrisa di neo-esclusionismo (cf. p. 67). In mezzo a questi due estremi, pone la vasta gamma di sfumature che sono emerse dal dibattito ecclesiale degli anni successivi al Concilio. Una vera e propria fioritura di ecclesiologie, distinte in ecclesiologie dall’alto e dal basso che, in seguito all’intensificarsi di un certo dibattito sulla definizione di che cosa sia un’autentica “ecclesiologia di comunione”, si differenziarono – anche secondo l’impostazione delle riviste Concilium e Communio – in ecclesiologie progressiste o conservatrici, sebbene tale terminologia e tale distinzione siano, ovviamente, troppo sommarie e limitative.
Secondo Mannion, tra tutte queste prospettive postconciliari, il modello che attualmente vige nella Chiesa cattolica è quello di un’ecclesiologia dall’alto, ma tale concezione sarebbe un’interpretazione restrittiva dell’ecclesiologia conciliare, se non addirittura un ritorno al passato, per il suo eccessivo tradizionalismo e la sua pretesa superiorità. Il limite, secondo l’autore, sta nel fatto che questo modello «esamina il concetto di comunione sempre attraverso il medesimo prisma, quello della chiesa istituzionale. E poiché si tratta sempre di una percezione dall’alto, pensata principalmente a servizio delle priorità e degli obiettivi dell’istituzione, essa accentua il primato dell’universale nei confronti del locale» (p. 83). È evidente, allora, che il modello in questione non fa che porsi in contrasto con una delle fondamentali esigenze della stessa postmodernità: il bisogno, per la realtà locale, della dovuta autonomia e libertà nei confronti della realtà universale e delle narrazioni dominanti e totalizzanti. Questa prospettiva ecclesiale, ben diversa dal modello fondato sulla nozione di chiesa popolo di Dio (ecclesiologia dal basso), appare, secondo Mannion, inadeguata di fronte alle sfide della nostra cultura pluralista e globalizzata.
L’autore ci tiene a precisare che l’ecclesiologia esclusivista, definita anche “modellocentrica”, è stato il modello preferito del cardinale Joseph Ratzinger ai tempi in cui era alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede. In quel periodo furono promulgati due documenti in cui si riflette un modello di chiesa fondazionalista: la Communis notio nel 1992 e la Dominus Iesus nel 2000. Il primo documento afferma il primato della chiesa universale su quella particolare, mentre il secondo sancisce, da un lato il primato indiscusso dell’opera di salvezza di Cristo e della chiesa contro le tendenze relativistiche, dall’altro il riconoscimento della nozione di chiesa solo per quelle che avessero mantenuto la validità dell’episcopato e la celebrazione del mistero eucaristico. Affermazioni, queste, che hanno prodotto l’inevitabile effetto di raggelare il dialogo interreligioso e interconfessionale.
Nella terza e quarta parte del libro, Mannion suggerisce alternative possibili al modello istituzionale. In particolare, propone che si passi dalla disputa al confronto culturale attraverso l’arte di costruire i ponti (titolo dato alla III sezione). Alla domanda “ma è possibile onorare la verità della propria tradizione religiosa restando genuinamente aperti alle altre grandi strade?”, Mannion risponde di “sì” a patto che si realizzi una vera e propria rivoluzione copernicana che trasformi l’intera agenda teologica: dall’epistemologia teologica al concetto di missione, di pastorale, di autorità e di ministerialità nella chiesa. Di fronte all’urgenza di quest’epoca, Mannion si sforza di cercare i fondamenti teologici, morali ed ecclesiologici per un’ecclesiologia post-moderna che sappia realizzare questa “non facile alleanza” con il pluralismo o policentrismo culturale e religioso. Egli chiarisce, fin dall’inizio, che si tratta di ipotesi provvisorie, che non vogliono cristallizzarsi in un modello chiuso, ma rimanere aperte a sempre nuovi adattamenti con la realtà. Stando a quanto ipotizza, un nuovo progetto ecclesiologico può germogliare e maturare se ci si lascia guidare da teologi cattolici come Karl Rahner, Gregory Baum e David Tracy. Ma nella lista dei pensatori egli include anche l’anglicano Christopher Duraisingh e il metodista episcopaliano Stanley Hauerwas. Infine, troviamo anche Hans Küng, Charles Curran, il gesuita Roger Haigt e Leonardo Boff che, per le loro idee, sono stati condannati o ammoniti, come nel caso di quest’ultimo.
Così, dall’ecclesiologia comparativa di Tracy, il nostro autore riprende l’idea che è possibile imparare dalle altre culture senza però perdere di vista la propria tradizione. L’approfondimento costante della propria religione è di certo importante, ma esso si deve accompagnare anche a un movimento di confronto. Il mito di Ulisse che vaga prima di tornare a Itaca, utilizzato da Tracy in Al di là del fondazionalismo e relativismo, è qui ripreso da Mannion (cf. p. 191) per indicare che, dal confronto con il partner del dialogo, la teologia cristiana e l’autocomprensione della propria fede ne possono uscire solo più arricchite e consapevoli; allo stesso modo si possono trovare anche punti su cui poter lavorare insieme per la crescita del bene comune.
Mannion appoggia Curran e Boff quando scrivono che il nostro tempo richiede ecclesiologie che non siano solo dialogiche ma anche profetiche, attente cioè a far sintesi tra teologia e prassi (cf. p. 169). Di Baum condivide la proposta di un ecumenismo allargato che abbracci l’intera famiglia umana (cf. p. 173), un’idea che richiama il macroecumenismo di Haight. Ancora sulla scia di Tracy, pensa che si potrà produrre una soddisfacente teologia cristiana soltanto se il cristianesimo sarà compreso in modi culturalmente e politicamente non eurocentrici (cf. p. 190), e se si avrà il coraggio di affermare in teologia il principio ecumenico di Haight, cioè l’assunto che è solo nella chiesa intera e totale che abita tutta la verità rivelata. Ciò significa che una teologia, per dirsi veramente cristiana, deve essere anche inevitabilmente una teologia ecumenica. In quest’ottica, una comunione particolare e il suo magistero non possono di per sé essere criterio ultimo o esclusivo (pretesa assolutistica) nella costruzione di una teologia contemporanea che voglia dirsi autenticamente cristiana (cf. p. 201). Sul versante ecclesiale lo sviluppo di queste tesi porta alla nascita dell’ecclesiologia comparativa. Essa consiste nell’analizzare e nel descrivere in modo organico e sistematico due o più diverse ecclesiologie, cosicché possano essere tra loro comparate per cogliere ciò che le accomuna e ciò che le differenzia. Inoltre, se il pensiero teologico vuole essere rilevante, deve parlare alla vita reale degli esseri umani in questo mondo, esprimendo il proprio significato non solo sul piano trascendente ma anche su quello interpersonale, storico e sociale (cf. p. 209).
Ancora da Tracy, Mannion riprende l’idea che si deve considerare il confronto, la discussione, il conflitto come parte integrante di un dialogo sano e costruttivo, che la continuità e discontinuità presenti nel contesto pluralista dovrebbero essere riconosciute e accettate attraverso il ricorso all’immaginazione analogica, ossia ammettendo il fondamentale carattere analogico della teologia cristiana, fatta appunto di magisteri confessionali che possono solo dire in maniera analogica qualcosa di Dio. In conformità a questa tesi ogni prospettiva è importante, perché ci aiuta a cogliere qualcosa della verità di Dio che, per sua natura, non si lascia mai catturare del tutto dagli uomini.
L’idea che anche alla chiesa si possa applicare una nozione analogica, Mannion la riprende da Thomas Howland Sanks, ma mentre questi la vede come un analogato del corpo mistico di Cristo – in quanto la chiesa si è concretizzata sempre in forme storicamente condizionate e, nello stesso tempo, sempre analogamente correlate le une con le altre –, Mannion, invece, la considera come un analogato della Trinità, e per questo sottolinea la dimensione trinitaria dell’analogia ecclesiae, ricollegandosi a Marie-Dominique Chenu e ai padri conciliari, che giunsero a ricomprendere le implicazioni trinitarie per l’ecclesiologia, specialmente grazie alla riscoperta della tradizione orientale. Ora, secondo Mannion, se “chiesa” è un termine analogico, allora ogni ecclesiologia “uniforme” imposta “dall’alto”, che sia di comunione o meno, non potrà che risultare inadatta per il nostro tempo e per qualsiasi tempo. La dimensione trinitaria dell’analogia ecclesiae è un principio teologico ed ecclesiologico molto importante, che Mannion propone come alternativa nei confronti di qualsiasi ecclesiologia basata sui binomi aut-aut o giusto-sbagliato (pensiero dicotomico), che punti a un’uniformità imposta e univoca, negando la necessità di incontrare, accogliere e celebrare le differenze. Il rischio è quello di evitare un’autentica ermeneutica ecclesiologica, rifiutando, quindi, l’urgenza ecclesiale del dialogo.
Mannion ritiene anche che il risultato pratico e teoretico di un’analogia ecclesiae di tipo trinitario è il concetto di “ecclesiologia delle virtù”. La chiesa, infatti, nel suo agire dovrà tendere a essere una comunità virtuosa o non sarà autentica immagine della Trinità. Ciò significa che, nel suo agire quotidiano, la chiesa, anche se in maniera imperfetta, «dovrebbe sempre sforzarsi di dare testimonianza, cioè di essere il segno e la mediazione della stessa autocomunicazione di Dio al mondo, oltre che sacramento della grazia e della salvezza, perché Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo unico Figlio. Il cristianesimo crede in un Dio la cui realtà profonda è una comunità di amore, una beata perichoresis, un’unità nella diversità».
È in quest’andare verso l’altro e in quest’atteggiamento pericoretico a immagine della Trinità, che l’autore vede l’essere e il “senso” della “chiesa pellegrinante” (cf. p. 224). Di fatto, esistono parecchie versioni di trinitarismo sociale ed ecclesiale, ma Mannion rifiuta tutti i modelli di tipo subordinazionista, così come quelli che tendono al triteismo, perché finiscono per avere dei risvolti negativi sul rapporto fede-prassi, mentre lo attira il modello proposto da Boff, proprio per il particolare accento posto sulla perichoresis e sulle implicazioni sociali per le varie comunità umane.
Per superare l’attuale confusione ecclesiologica, le divisioni presenti nella chiesa e la mentalità esclusivista, non basta, per Mannion, la riscoperta di un’ecclesiologia trinitaria, ma occorre che essa sia anche un’ecclesiologia delle virtù. Questo significa che la comunità deve fare leva sull’etica delle virtù. Egli segue qui il pensiero di Alaisdair MacIntyre, autore del celebre saggio di teoria morale Dopo la virtù (Milano 1988), e pensa che la proposta del filosofo scozzese, di un ritorno all’etica delle virtù, possa essere utile anche per il dibattito ecclesiologico. Il fatto che Aristotele consideri le virtù come via di mezzo, un punto mediano tra gli eccessi, che queste virtù non possano mai essere stabilite in modo universale e assoluto, ma siano sempre relative al singolo e a una data comunità, fa sì che l’etica delle virtù ben si adatti a una società pluralista, perché non obbliga a un modello stereotipato, avulso dalla storia, ma tiene conto delle sfumature. In realtà, a Mannion non interessa il tipo di virtù, ma l’approccio virtuoso che, unito a un metodo analogico ed ermeneutico, possa davvero farci evitare gli estremi e tendere verso l’obiettivo veramente buono, e non solo verso quello meno problematico o più “politicamente corretto”. Ciò che serve non è un programma o un modello rigidi, oppure un paradigma da imporre, ma una visione di ampio respiro che sostituisca le maldestre sintesi soggettive e la retorica sulla realtà. C’è bisogno di un’ecclesiologia “disposizionale”, basata sulle virtù, perché le virtù sono quelle disposizioni che non solo sorreggono le pratiche e ci consentono di raggiungere i valori interni a esse, ma ci aiutano anche nella ricerca del bene comune, in forza del quale ogni male, ogni ostacolo, ogni divisione può essere superata a vantaggio di una conoscenza crescente di noi stessi, degli altri e del bene. Secondo Mannion, però, la ricerca di un’etica delle virtù da sola non basta per realizzare una nuova prospettiva ecclesiologica come risposta alla postmodernità e in opposizione al modello esclusivista, essa deve anche basarsi sull’eredità del Concilio e sulla grande tradizione cristiana riguardante le virtù. Agostino, Bernardo di Chiaravalle, Tommaso d’Aquino… hanno invitato l’umanità a mantenersi sempre attenta al primato dell’amore. Soprattutto la carità, nella visione dell’Aquinate, è la forma di tutte le virtù ed è ciò che ci avvicina al volere di Dio.
Molti secoli dopo, in maniera profetica, anche Rahner ha affrontato il discorso sulle virtù e ha proposto quella virtù rimasta “anonima”, perché mai trattata da nessuno, eppure così preziosa per il suo essere “via media” tra due estremi: il relativismo scettico e il fanatismo ideologico. Rahner scrive che «questa virtù anonima è difficile da praticare, e persino da discernere eppure così necessaria. Questa virtù è la virtù del rispetto attivo, del mutuo rapporto tra teoria e prassi, tra conoscenza e libertà, e della contemporanea irriducibilità dell’una all’altra. E la virtù dell’unità e della diversità delle due entità, che non sacrifica l’una a favore dell’altra» (p. 278). Secondo Mannion,
«nessuno può essere così presuntuoso da tentare di dare un nome a questa virtù ma, almeno per quanto concerne la sua forma e il suo esercizio nella chiesa, l’analogia ecclesiae e un’ecclesiologia delle virtù devono promuoverne il discernimento e la sua pratica» (p. 279).
In definitiva, il merito dell’autore è di aver raccolto nel suo libro le idee di moltissimi teologi e di averle rielaborate in modo creativo, adducendole come espressione di quel sensus fidelium che è della chiesa intera e non solo di una sua parte. Questo, però, costituisce anche il suo limite, perché il suo pensiero non appare mai al di fuori di un coro di voci. Egli rivela la preoccupazione di salvare la sua immagine proprio quando evita di usare toni diretti, così quando vuole difendere il pensiero di Haight si premunisce di usare il condizionale (cf. p. 203); o, quando, nelle conclusioni, provvede a citare l’Aquinate per sdoganare in maniera lecita un pensiero che lo potrebbe compromettere (cf. p. 268). L’opera di Mannion è una finestra aperta sugli scenari dell’ecclesiologia moderna e sulle prospettive di una sua rifondazione nei termini di un’ecclesiologia comparativa, fondata su un’ermeneutica ecumenica e interreligiosa, dal carattere trinitario e “virtuoso”.
Tratto dalla rivista "Aprenas" n. 1-2/2011
(http://www.pftim.it)
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