Estetica nell'etica
-La forma di un'esistenza degna
(Etica teologica oggi)EAN 9788810406106
Esiste un rapporto tra bellezza e bontà? È possibile assimilare l’azione morale a un’opera d’arte? Il senso di un gesto, come l’intera forma di un’esistenza, seduce per la sua dignità o ripugna per la sua falsità, rinviando simbolicamente a un orizzonte di valori, che impone una decisione: dargli o rifiutargli credito, abitarlo o fuggirlo, incarnarlo o dissolverlo. Come la bellezza, il bene si rivela in opere, il cui fascino ha una valenza universale e nel contempo si colora della singolare cifra di una vicenda umana. L’azione buona merita di essere posta senza riserve, perché è l’azione che solo io potrei porre in quel modo di fronte a tutti, onorando il mio desiderio di felicità e assieme la mia passione per la giustizia. Cadono conseguentemente le opposizioni, che hanno gettato la bioetica contemporanea in un imbarazzante stallo: qualità contro sacralità della vita, laici contro cattolici, arbitrio soggettivo e universalità del dovere, diritti individuali e doveri sociali. Un’etica della dignità sceglie di aver cura di ogni condizione di sofferenza, propria e altrui.
Tratto dalla Rivista Il Regno 2011 n. 2
(http://www.ilregno.it)
Interessanti e molto stimolanti, come sempre del resto, le pubblicazioni di Paolo Cattorini, docente di bioetica presso la facoltà di medicina e chirurgia di Varese. Non fa eccezione questo suo ultimo lavoro nel quale si raccomanda – ma sarebbe più corretto dire: si torna a raccomandare – di coltivare di più e meglio, in bioetica, il rapporto tra forma e contenuto, tra bellezza e bontà, tra estetica ed etica. Una raccomandazione che merita attenzione e apprezzamento per due motivi soprattutto: la competenza teorica e metodologica con cui l’A. affronta il tema della narratività in etica e la sua disponibilità a dimostrarne concretamente la pertinenza mediante analisi ed esemplificazioni attuali, oltre che puntuali. Il volume è diviso in due parti. Nella prima parte, di carattere più teorico e metodologico, l’A. analizza il rapporto tra Bellezza, bontà e criteri di giudizio (pp. 11-116) e illustra in modo chiaro e convincente l’architettura della sua impostazione tesa recuperare in bioetica la rilevanza del linguaggio estetico, narrativo, simbolico, come unico o quantomeno più fecondo modo di portare la riflessione etica «oltre gli effetti, oltre l’intenzione» (p. 65).
E cioè, oltre le consuete e sterili discussioni incapaci di superare la contrapposizione tra razionalismo e relativismo, etica normativa ed etica della situazione. Nella seconda parte, Welby, l’etica di Dio (pp. 117-188), di carattere più concreto e pratico, l’A. mette per così dire alla prova la sua teoria mediante l’esemplificazione e l’analisi di un caso clinico famoso che tante discussioni e divisioni ha suscitato nella pubblica opinione italiana e nella stessa chiesa cattolica. Alla difficile domanda che in riferimento a questo caso e ad altri analoghi viene posta: «La nutrizione artificiale è sempre doverosa?», l’A. risponde introducendo una distinzione dirimente tra «aiutare a morire» e «avere cura nel morire». «Aiutare qualcuno nel morire quando si sia consentito al processo patologico di aggravarsi (poiché le alternative di cura offrono ormai più svantaggi che vantaggi), non significa affatto aiutarlo a morire nel senso di dargli colpevolmente morte» (p. 143).
Una distinzione in base alla quale casi clinici famosi come quello di Welby ed Englaro mostrano, secondo l’A., l’esigenza e l’urgenza di acquisire, in etica, una nuova sensibilità estetica. Dove per «etica» si intende capacità di vivere non soltanto secondo norme, regole, ma più radicalmente secondo la «forma» di vita che abbiamo scelto e quel «desiderio» che precede la nostra scelta «imprimendo inclinazioni inattese alla nostra stessa vita» (p. 10). Inclinazioni che – e qui sta la rilevanza teoretica della proposta – possono essere universalizzate in quanto fondate sulla «dignità dell’esistenza» e quel «personalismo ontologico» che l’A. invita a distinguere bene dal «personalismo ontologicamente fondato», intendendolo come «da un lato lo svolgimento di tutte le potenzialità personalistiche dell’esistenzialismo e dall’altro come una qualificazione rigorosamente esistenzialistica del personalismo» (p. 187).
Un personalismo, per intenderci, alla Pareyson, che l’A. si premura di giustificare così: «Preferiamo alla nozione di persona, talora identificata in una ‘sostanza di natura razionale’ e intesa come un essere per sé e non in altro (un essere di cui l’intelletto potrebbe univocamente e storicamente definire confini, struttura, proprietà, fini), quella di esistenza, che è invece una nozione costitutivamente relazionale e che vive negli affetti e nelle passioni corporee le cifre della propria originale apertura al bene» (pp. 187-188). Come si può constatare, la proposta di Cattorini per un’«estetica nell’etica» ha come perno teoretico l’esistenza e a seguire la rilevanza del linguaggio narrativo, simbolico, quale modalità e strumento per descrivere e interpretare nel modo più adeguato possibile il vissuto etico o bioetico quale forma originaria dell’esistenza.
L’A. richiama e ripropone in tal modo all’attenzione e alla riflessione degli eticisti, dei bioeticisti, e perché no?, anche dei teologi morali, i grandi temi dell’esistenza e del linguaggio narrativo. Linguaggio che da sempre è una modalità e un veicolo di cui lo studioso di etica, anche di etica teologica, cristiana, si serve per riformulare e ripresentare nel modo più chiaro e incisivo possibile un insegnamento o un messaggio morale. Chi non ricorda la famosa «morale della favola»dell’antichità classica? O le non meno famose parabole evangeliche di Gesú? Ma attenzione: altro è chiarire i contenuti di un determinato insegnamento o messaggio, sia esso morale o religioso, altro è esortare la persona ad accogliere, a far proprio, tale insegnamento o messaggio. In ambito scientifico, che è poi quello nel quale si colloca l’A., il ricorso al linguaggio narrativo non mira tanto a rendere accattivante e coinvolgente i contenuti che si desidera trasmettere, quanto a renderli il più possibile chiari e convincenti. In tale direzione la doppia finalità di un discorso di tipo narrativo, simbolico, potrebbe contribuire non poco a liberare la casuistica etica e bioetica da interpretazioni riduttive sia in senso legalistico che relativistico.
Senza per altro rinunciare, anzi recuperando una riflessione etico-normativa rigorosa e argomentata, in grado non solo di ricostruire un contesto operativo nel quale interagiscono azioni espressive, produttive e distributive, ma anche di scegliere tra diverse serie o scale di valori più o meno alti, più o meno fondamentali, più o meno urgenti, che rimandano a scelte, a volte difficili, altre volte conflittuali, altre volte ancora compromissorie. Non sempre così «belle», almeno in apparenza, come desidereremmo e tuttavia corrispondenti alla forma di un’esistenza degna.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" n. 2/2011
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
Il volume, inserito nella collana, diretta da L. Lorenzetti, “Etica teologica oggi”, in cui si possono trovare testi degni di interesse, si apre col racconto accattivante di una ricerca sulla bellezza che l’autore ha elaborato dalla casuale lettura di una scritta pubblicitaria (cf. 5). Si deve riflettere sul fatto che episodi apparentemente di scarso rilievo possano costituire occasioni per conseguire risultati importanti, per quanti siano in grado di coglierne e svilupparne le potenzialità: un esempio a tutti noto è quello della famosa mela di I.
Newton (pur nell’incertezza che sia realmente accaduto). Il vero ricercatore è colui che non prende con superficialità quanto il quotidiano gli suggerisce. Il volume è sostanzialmente diviso in due parti: la prima, Bellezza, bontà e criteri di giudizio (11), più teoretica ed elaborata; la seconda, Welby, l’etica e Dio (117), con risvolti più pratici. Nell’introduzione, l’autore evidenzia l’esistenza di «analogie fra l’operare artistico e l’agire etico» (8): riflessione per nulla banale e con ampie ricadute sulle problematiche concrete; su alcune delle quali si sofferma nella seconda parte del testo, come già accennato. Pur ponendo delle riserve sul concetto di arte che attualmente circola ed in merito al quale, talvolta, si equivoca, spacciando per arte ciò che come arte non può essere riconosciuta.
A meno che il suddetto concetto non venga ampliato ad un livello tale da escludere ogni aspetto di eccezionalità. Cerco di chiarire il mio pensiero: è evidente che l’estetica coinvolga ogni elemento dell’esistenza in genere ed umana in particolare; ma se non si concede al concetto in questione un’opportuna dignità, si finisce per banalizzarlo. Come dire che in tal caso è facile svilirlo, fino ad elevare ad opera d’arte quanto con essa ha ben poco a che vedere. Non intendo certo inserirmi nella discussione su cosa si debba intendere per opera d’arte, ma visto che l’autore vi fa riferimento all’inizio della sua opera, ne vanno fatti rilevare due aspetti.
Il primo, invita a porre attenzione all’arte che il quotidiano ci propone, magari nelle forme e nelle circostanze più comuni: ad esempio, non soltanto il classico fiore, ma anche la pietra o il filo d’erba che, attentamente osservati, mostrano delle forme affascinanti; ed in tal senso l’arte si muove in un panorama molto ampio. Il secondo, per contro, ci invita a considerare le differenze che necessariamente debbono sussistere tra le vere opere d’arte e quelle fittizie. Se è vero che un filo d’erba è un’opera d’arte dal valore eccezionale, altrettanto vero è che uno scarabocchio è e rimane uno scarabocchio, e volervi scorgere un’opera d’arte è una falsità. Come dire che non solo non si possono porre sullo stesso piano il suddetto scarabocchio con il Giudizio Universale di Michelangelo, ma il farlo comporterebbe l’annullare ogni parametro di comparazione e quindi di valutazione.
Qualcosa di analogo potrebbe accadere sviluppando in modo scorretto l’affermazione dell’autore: «non ci sono fatti non-morali» (74), nel senso che tutto possiede una connotazione morale; ovviamente, ciò non significa affatto che detta connotazione sia sempre moralmente valida (buona). Il primo capitolo inerisce lo stretto legame intercorrente tra etica e narrazione », intuizione ricca di interesse, che prende le mosse dal rapporto intercorrente tra estetica e morale: due ambiti collegati vicendevolmente, che il nostro studioso aveva già indagato in precedenti lavori (cf. nota n. 8, 15). Sviluppando la considerazione, condivisa da non pochi autori che «la bellezza conta, nel valutare la bontà di un’azione o di un’intera vita» (17), afferma subito dopo che «il significato di un’azione si lascia infatti comprendere […] solo collocando tale azione in una storia».
In merito al valore della bellezza, come ignorare il noto detto: verum, bonum, iustum et (rettamente inteso) pulchrum: convertuntur? E prosegue: «L’agire morale […] comporta la fiducia in un racconto, più esattamente in un insieme di simboli e storie. […] I due versanti, quello cognitivo e quello pratico, possono essere pensati distintamente, ma si danno in un’originaria connessione» (22), fermo restando che «il racconto è il dirsi dell’essere» (23). Indagando poi il rapporto tra estetica e morale, a partire da Aristotele, l’autore tratta dei bisogni primari. «Fra questi ultimi vi è anche il bisogno di bellezza» (42).
Questa considerazione non sempre è scontata; se così fosse, l’arte dovrebbe proiettarsi obbligatoriamente nella direzione della bellezza. Si riapre la riflessione accennata all’inizio: l’arte deve necessariamente tendere al bello, con tutte le conseguenze derivanti? Se sì allora il brutto può definirsi arte? A p. 48, si legge: «non c’è alcun dolore che sia solo fisico», da qui, attraverso ulteriori considerazioni, l’autore giunge all’affermazione: «è la tesi del presente volume […] che la produzione e l’interpretazione artistica forniscano un paradigma privilegiato per intendere in modo unitario i rapporti tra etica finalistica ed etica del dovere» (51).
Vi si deve riflettere, perché può costituire una valida chiave di lettura per risolvere quesiti morali talvolta non così scontati. Sviluppando, ancora, ricerche di altri autori, tra cui Ricoeur e L. Pareyson, prosegue l’indagine circa il rapporto tra morale ed arte. Ne riporto soltanto, per limitazioni di spazio la conclusione: «l’aspirazione a porre un’azione buona è simile all’impegno artistico di realizzare un’opera d’arte riuscita, un’opera che meriti […] la qualifica di bella» (53). Forse sarebbe da indagare ulteriormente l’affermazione, che ritorna in più punti: «ogni invenzione implica in parte la scoperta di qualcosa che “era già lì”» (60). Una interessante riflessione, su cui è opportuno soffermarsi, viene (ri) proposta alle pagine 80-81: «L’azione buona esprime qualcosa che è più degli effetti che produce. […] Se il moralista si limita a descrivere esteriormente un atto, perde questa densità di rimandi […].
Per esprimere una valutazione etica, fornendone le ragioni, occorre piuttosto lasciarsi sedurre dalla potenza simbolica del gesto». È importante oltrepassare la barriera del semplice evento per poter fornire una valutazione morale (termine dalla portata più ampia dell’analogo, ma non sinonimo, “etica”) dell’evento stesso. Come l’autore ha in più punti evidenziato, ridurre il gesto umano a semplice fatto, cosificato e, perciò, quasi ridotto ad oggetto classificabile ed estraneo alla persona che lo ha prodotto ed al suo mondo, significa non soltanto banalizzarlo, ma anche perderne quell’insieme di sfumature che possono caratterizzarlo in quanto tale. In altri termini si potrebbe sostenere (con i dovuti approfondimenti e distinguo) che la valutazione del gesto umano comporti l’accoglienza del mondo che detto gesto circonda; mondo, che l’autore rapporta alla “narrazione”; come dire: «Nel mondo della vita non incontriamo originariamente malattie, ma malati» (91).
Nel cap. 10, che si apre con la domanda: «che cos’è la bellezza?» (97), si legge: «il progresso morale […] implica l’esplosione di contraddizioni e quindi l’emergenza di disvalori che ripugnano alla coscienza morale» (99); una considerazione sulla quale sarebbe opportuno riflettere con attenzione, perché, se da un lato potrebbe portare a conclusioni avventate dalle conseguenze quanto mai pericolose, dall’altro potrebbe allargare orizzonti, altrimenti pericolosamente ristretti. Per altro, non si può certo sostenere che non sia un tema dibattuto, ma riportarvi l’attenzione ed indagarlo ulteriormente, ne rafforza l’importanza. La seconda parte, come già indicato, possiede un taglio più specifico e prende spunto da Welby, la cui fatica di vivere, che lo portò alla morte assistita, è a tutti nota. A tale proposito l’autore evidenzia che «il racconto aiuta a comprendere il significato di vissuti» (120) e che «è una forma di lotta, […] resistenza all’assurdo» (121); aspetto su cui non vi è da eccepire, fermo restando l’uso che di detto racconto si possa attuare. In merito, vale la pena di sviluppare che, ove ci si domandi se applicare o meno una terapia, nella fase terminale della vita, ci si deve piuttosto chiedere non tanto come vogliamo morire, quanto piuttosto «chi vogliamo essere e per quali buone cause vogliamo spenderci […] non soltanto in forza dell’adempimento di regole materiali, ma nella fedeltà a qualcosa di prezioso» (125). Ovviamente, assume rilievo fondante quale sia la caratteristica del prezioso; infatti se si fonda su un valore falso, le conseguenze saranno deleterie; viceversa se il fondamento sarà posto su di un valore oggettivo, realmente tale, allora non soltanto ci si realizzerà, ma si costruirà un edificio, grande o piccolo avrà un’importanza relativa, sul quale i posteri potranno a loro volta edificare, costituendo in tal modo un bene per l’intera umanità: ed ecco, allora, che il racconto oltrepassa la barriere del personale per proiettarsi oltre.
Il capitolo 14 affronta la complessa questione: «La nutrizione artificiale è sempre doverosa?» (131); e, riferendosi a Welby, l’autore si domanda se «era proprio necessario […] quel muro contro muro» tra opposte visioni, che si possono sbrigativamente liquidare con gli aggettivi di “cattolica” e “laica”. Prendendo spunto da un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede del 2007, che definisce «la somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali […] un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita» (133), sottolinea che «l’aggettivo “proporzionato” ha una radice estetica » (134); e, subito sotto: «È singolare quanto poco sia riconosciuta questa radice estetica di uno dei termini più impiegati dall’etica clinica».
Sviluppando ulteriormente queste riflessioni, afferma: «la proporzione di una cura si misura rispetto al bene complessivo della persona sofferente e non rispetto all’efficacia nell’ottenere un effetto parziale (nutrire prolungando la vita)» (136). Non è questa la sede per un adeguato ampliamento della questione, che presenta luci ed ombre e che necessiterebbe di uno spazio idoneo; è, però, molto interessante la provocazione introdotta da Cattorini, che indica un orizzonte per nulla marginale, il quale sarebbe davvero superficiale trascurare. Fermo restando che nella scienza, in genere, ma quando essa si riflette sull’esistenza di esseri umani ancora di più, la superficialità possiede una matrice fortemente morale; per cui la si deve combattere energicamente. In definitiva, un testo su cui meditare.
Tratto dalla rivista Lateranum n.1/2012
(http://www.pul.it)
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