Le Astuzie dello scriba
-Studio di una tecnica redazionale tardiva di riscrittura
(Supplementi alla rivista biblica)EAN 9788810302460
Questo libro recepisce «in larga parte» (p. 7) la tesi dottorale, difesa il 12 giugno 2013 al Pontificio Istituto Biblico di Roma. Essa «può essere così formulata: in un periodo tardivo della storia testuale sono stati inseriti nella Scrittura, grazie all’intervento scribale, alcuni passaggi con lo scopo di completare i brani, racconti e/o leggi, aggiungendo materia che avrebbe permesso una lettura pianificata, meglio corrispondente, degli stessi. La finalità, sottesa in questo lavoro di redazione, sarebbe stata quella di completamento/ bilanciamento dei testi» (p. 22). Ancora: «Il margine di manovra del redattore allora è libero ma allo stesso tempo relativamente libero. Libero perché può leggere e interpretare la lacuna del testo sacro e decidere di intervenire in esso. Relativamente libero perché non può mettere in gioco la propria fantasia e scrivere a piacimento, essendo vincolato da testi che sono già formati e hanno già la loro autorevolezza all’interno di un insieme di testi considerati come normativi e sacri […]. È libero di osservare le lacune presenti nel testo, le mancanze, eppure vincolato a colmarle con testi che la tradizione gli offre. In tal senso, il suo lavoro è molto più vicino al “mestiere” di scriba piuttosto che alla concezione di autore così come oggi si potrebbe intendere» (p. 155).
La tesi di Leonardo Lepore non solo adotta la teoria del Tetrateuco e della Storia deuteronomistica, lanciata da Martin Noth nel 1943 e accolta con molto favore anche in ambito cattolico fino a far sorgere l’attuale “pandeuteronomismo”, ma anche riprende, apportandovi opportune integrazioni personali, l’ipotesi che si è sviluppata negli anni ’90, in seguito all’intuizione dei due veterotestamentaristi Alexander Rofè e Ulrich Fistill. Questi due studiosi «hanno dimostrato la presenza di una precisa volontà di riscrittura analizzando le due pericopi della conquista del regno di Og, re di Basan, da parte di Mosè e di Israele: due testi che riferiscono lo stesso racconto» (p. 19). Infatti, questi due testi (Nm 21,33-35 e Dt 3,1-3.12) narrano lo stesso episodio, però Dt è il testo-madre (la fonte) e Nm ne è la copia.
Muovendosi su questa linea interpretativa, l’autore analizza in maniera puntigliosa tre pericopi del libro dell’Esodo con i rispettivi paralleli nel libro del Deuteronomio, dedicando a ciascuno di essi i tre capitoli che costituiscono la struttura portante di tutto il libro. Il capitolo primo (pp. 25-74) studia l’episodio della manna sinaitica (Es 16), Innanzitutto, «da un lato il racconto è di marca Pg, ossia sacerdotale, a motivo dello stile e del vocabolario; inoltre dall’altro lato il racconto ha come scopo quello di portare il popolo alla scoperta del sabato, quale giorno e tempo di riposo» (p. 60). Però l’analisi scrupolosa dei vv. 4-5.27-28 di Es 16 porta a concludere che essi siano un’unica aggiunta operata «da un redattore tardivo il cui intento era quello di riorientare il racconto verso una lettura che tenesse conto delle categorie esposte in altri testi, in particolare Dt 8» (p. 74).
Il capitolo secondo, il più ampio (pp. 75-128), è dedicato al Decalogo (cf. Es 20,1-17). Ecco le conclusioni di Lepore, qui rese schematicamente in cinque punti: 1) il decalogo è stato inserito in Esodo 20 solo in un secondo momento; 2) i riferimenti del libro dell’Esodo al Decalogo sono o tardivi (cf. Es 34,28) o inesistenti (cf. Es 24); 3) il comando del sabato non è stato inserito posteriormente nel Decalogo, ma è originale, perché esso permette di collocare l’inserimento del Decalogo dopo la composizione del primo racconto genesiaco della creazione; 4) quest’inserzione sarebbe avvenuta in epoca tardiva, dopo l’unificazione del Deuteronomio nel Tetrateuco; 5) lo scriba ebreo, responsabile dell’inserzione tardiva del Decalogo in Es 20, utilizzò il testo del Decalogo di Deuteronomio 5, però vi introdusse alcuni cambiamenti, tra cui spicca l’utilizzazione di Genesi 2,2, che riguarda il sabato.
Il capitolo terzo (pp. 129-152), dedicato all’intercessione di Mosè perché Dio non punisca gli israeliti colpevoli di aver reso il culto al vitello d’oro (cf. Es 32,7-14), è quello in cui l’autore rivela il suo maggior contributo personale nel ricostruire l’origine di questa pericope. Mentre molti commentatori ammettono che nel capitolo 32 dell’Esodo, oltre alle ripetizioni, esistano aggiunte avvenute in epoche successive, ad opera di autori diversi, invece egli (in parziale accordo con Thomas B. Dozeman) pensa che ci sia stata una sola aggiunta, precisamente quella relativa all’intercessione di Mosè (cf. Es 32,714), che presenta tratti affini, ma anche dissimili, con Dt 9,7-29. Essa però non sarebbe opera di un rappresentante di questa corrente deuteronomistica (il cosiddetto Dtr), ma di uno scriba ebreo, che operò l’aggiunta «in un periodo tardivo, quando cioè si aveva possibilità di una lettura ampia e il più possibile continuata. Difatti, in epoca recente è attestata la volontà di integrare, rileggere, armonizzare e completare i testi per farli essere vicini il più possibile» (p. 151). Solo Es 32,9 dev’essere considerato una glossa successiva.
Nei capitoli dedicati all’esame dei tre brani dell’Esodo Lepore ripete con insistenza che le aggiunte scribali risalgono a epoca tardiva; però, solo nella conclusione c’è un paragrafo (pp. 160-163) che fissa il tempo in cui queste aggiunte sarebbero state praticate. Ecco il suo punto di vista, espresso in forma ipotetica: «Un possibile sfondo storico entro cui inserire questa espressione tipica dell’attività redazionale può essere costituito a larghe fasce da quel periodo che abbraccia il post-esilio (terminus a quo) e l’attività scribale così come percepita dalle testimonianze testuali dei ritrovamenti di Qumran (terminus ad quem)» (p. 162). Però questo secondo termine «è più difficile da individuare» (ivi).
Manco a dirlo, trattandosi di materia molto controversa, l’autore espone i suoi punti di vista nell’esame dei tre brani esodali, solo dopo essersi sempre confrontato con gli studiosi più qualificati dei libri dell’Esodo e del Deuteronomio. Lo mostrano chiaramente l’attenzione loro dedicata lungo tutto il corso della trattazione e la copiosa bibliografia finale, effettivamente utilizzata, come rivelano le continue note a pie’ di pagina, che offrono stralci in lingua originale dei libri e degli articoli utilizzati. Molto apprezzabile è anche la prudenza con la quale egli presenta i suoi punti di vista che, quasi sempre, meritano d’essere presi in seria considerazione.
Come vuole la prassi, il recensore non può esimersi dal rilevare qualche imperfezione e dissenso di poco conto, riscontrati nell’attenta lettura del libro preso in esame. Riguardo all’episodio del vitello d’oro (cf. Es 32) mi sembra che non si possa parlare di vera e propria “apostasia”, che costituirebbe “il peccato originale” del popolo ebraico (cf. p. 129). Il motivo è che, contrariamente a quello che si è soliti pensare, almeno per l’ideatore Aronne e per gli israeliti a lui vicini, il vitello (non il bue Api dell’antico Egitto, ma il toro, legato a Baal, il dio cananeo della fecondità) era una semplice immagine di Jhwh, che essi ritenevano più efficace dell’arca e di altri segni immateriali della presenza divina. Per di più, mentre in passato si riteneva che il vitello incarnasse la divinità, oggi è preferibile considerarlo un semplice piedistallo, come mostrano alcuni reperti archeologici trovati nell’area cananea, in cui il dio Baal è presentato ritto in piedi su un toro. Stando così le cose, la presenza invisibile di Jhwh si sarebbe poggiata sul “vitello”, come poggiava sui cherubini dell’arca nel tempio di Gerusalemme. Questa raffigurazione plastica, però, apriva la via al sincretismo religioso (non a una vera apostasia!) tra il popolo, per cui Mosè la eliminò con estrema violenza frantumando la statua e sterminando, con l’aiuto dei leviti, quelli che volevano conservare il culto del “vitello” come fosse Dio (cf. Es 32,21).
Dal punto di vista tipografico il libro non presenta mende di rilievo. Fa eccezione solo il testo ebraico di Es 32,9 e Dt 9,13, che non corrisponde al testo masoretico (cf. p. 142), però non so se si tratti di un rifuso tipografico o di una intenzionale inversione (maldestra!) delle due parti della frase allo scopo di evidenziarne il parallelismo. Inoltre, l’eccessiva articolazione della tesi rende talvolta difficile cogliere il filo del discorso. Per fortuna Lepore viene in aiuto del lettore con le sue sintesi disseminate lungo tutto lo scritto. Infine, il libro avrebbe guadagnato in compattezza se si fossero eliminate molte fastidiose ripetizioni e, soprattutto, se lo stile, pur sempre chiaro, fosse stato meno ridondante.
A parte questi piccoli nei, il testo mostra che il suo autore ha la stoffa dello studioso serio e meticoloso. A suo merito, bisogna riconoscere che egli è riuscito a condurre felicemente a termine la sua lunga e faticosa ricerca mentre attendeva alla cura pastorale di una parrocchia. Non rimane che augurargli di poter sviluppare ulteriormente quest’innata predisposizione, senza essere troppo distolto da altri impegni!
Tratto dalla rivista "Aprenas" n. 4/2015
(http://www.pftim.it)
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