Il Pentateuco è un «cantiere sempre aperto», come dimostrano ampiamente gli studi biblici degli ultimi decenni. Lo stato dei lavori viene illustrato dal volume attraverso alcuni sondaggi che prendono in esame aspetti letterari, storici e teologici. Ad aspetti più propriamente letterari si riferiscono i capitoli I, II e V, dedicati a Genesi 1-11, a Genesi 2-3 e ad alcuni problemi di fondo che riguardano il libro dell'Esodo. Ad aspetti letterari che chiamano direttamente in causa problemi storici è invece dedicato il capitolo IV sulle genealogie nella Genesi. Temi più propriamente teologici sono proposti nel capitolo III sull'uomo e la sua dignità nella Bibbia, e nel capitolo VI sulla distinzione tra diritto e legge, un tema che attraversa tutta la Scrittura, ma che diventa fondamentale per la corretta lettura dei grandi blocchi legislativi presenti all'interno del Pentateuco.
PREFAZIONE
«De la musique avant tonte chose», «Musica prima di ogni cosa» — così inizia l'Arte poetica di Paul Verlaine (1844-1896),' uno dei mentori della corrente simbolista nella letteratura francese. Prendo spunto dalla riflessione programmatica di Paul Verlaine per spiegare qual è lo scopo di questa raccolta di saggi sul Pentateuco. L'esegesi del Pentateuco ha ben poco da vedere con la musica, mi diranno molti, e gli esempi di mancata armonia abbondano nella Bibbia, almeno per il nostro gusto. Perché allora parlare di musica?
Le mie ragioni sono due. La prima mi viene da Hermann Gunkel, uno dei grandi conoscitori della letteratura vetero testamentaria. In uno scritto poco noto sugli scopi e i metodi dell'esegesi biblica, egli diceva che la detta esegesi è più vicina all'arte che non alla scienza.' Aggiungeva, per tornare al nostro argomento, che lo scopo dell'esegesi è di riuscire ad ascoltare una musica antica e lontana.3 Ci vuole un orecchio fine e attento per percepire le melodie bibliche e la loro armonia. Sulla scia di Gunkel, posso dire che le analogie fra linguaggio e musica sono molte. Il linguaggio, in effetti, consta di elementi sonori. Il suo significato proviene da una successione di suoni e richiede pertanto un esercizio dell'orecchio, anche se ormai siamo più abituati a leggere che ad ascoltare. L'esegeta, tuttavia, non deve dimenticare — e Gunkel lo ricorda a sufficienza — che la comunicazione orale era notevolmente più importante della comunicazione scritta nel mondo antico.4 La musica ci offre pertanto un'analogia utile per entrare nel mondo dell'Antico Testamento.
Aggiungo che la musica dell'Antico Testamento è ben diversa dalla nostra. I ritmi sono spesso più lenti, i brani più brevi, e le composizioni seguono regole che ci sono spesso sconosciute.
La costruzione armonica può, in certe occasioni, creare addirittura un certo disagio. Rimane però vero che le musiche bibliche sono alle origini delle nostre. Chi conosce la storia dell'arte, sia pittura, scultura, musica che letteratura, sa quanto la Bibbia è stata fonte di ispirazione per gli artisti di tutti i tempi. Inoltre, possiamo dire che è ormai difficile capire la storiografia moderna, il diritto occidentale e la filosofia odierna senza alcun ricorso alle fonti bibliche. Certo, il mondo classico, greco-latino, è stato una fonte spesso più importante per il pensiero occidentale, in particolare nel campo della filosofia e del pensiero teorico. Nondimeno non possiamo dimenticare che la Bibbia è stata uno dei libri più letti, discussi e commentati per secoli nel nostro mondo.
In modo diretto o indiretto, siamo stati tutti influenzati dalle immagini, dai personaggi e dai vari tipi di letteratura che la Bibbia contiene.
Il secondo elemento che mi pare essenziale tocca la comprensione dei testi biblici. Intendo dire che il loro significato si coglie quando se ne percepisce la musica. In parole semplici, la nostra esegesi è troppo spesso esegesi di parole, di brani brevi, o di particolari estratti dal loro contesto. Per riprendere la mia immagine, ascoltiamo, studiamo e discutiamo le note, e dimentichiamo la musica. Il significato di un concerto non è in alcune note, in un movimento, in una melodia particolare. Il significato è inseparabile dal concerto stesso, ascoltato per intero. Nella Bibbia, non sarà sempre facile identificare il concerto e le sue diverse fasi, o capirne l'architettura. Non potremo capirne il significato, però, se non riusciamo ad avere una certa percezione dell'insieme. I dettagli hanno la loro importanza, e — come dice Sherlock Holmes — «Niente è più importante di una bagattella». I dettagli hanno la loro importanza, però, solo se sono raccolti, vagliati e organizzati per concludere l'indagine e risolvere il caso. Anzi, un solo particolare può essere decisivo perché permette di chiarire un problema complesso e di condurre alla sua soluzione. Nonostante ciò, il dettaglio ha valore, anche se risolutivo, solo all'interno di un'inchiesta che ha uno scopo ben preciso.
Vorrei aggiungere un ultimo elemento e, per questo, riprendo ancora una volta la mia immagine della musica. Mi permetto persino una battuta. Secondo me, l'autore del Pentateuco e di tanti testi biblici è Giovanni Pierluigi da Palestrina. Perché? Per il semplice motivo che la Bibbia è polifonia. E una cantata a più voci. Le voci o gli strumenti sono tanti, e per entrare nel mondo della Bibbia occorre essere avvezzo alla musica, ove s'intrecciano molte voci o molti strumenti per creare un'architettura musicale in cui la totalità è sempre più della somma dei singoli elementi. La musica della Bibbia sfrutta tutte le risorse del contrappunto, delle variazioni sullo stesso tema' e delle riscritture di melodie conosciute.' Di questo, però, parlo in dettagli nel primo capitolo.
E' arrivato quindi il tempo di presentare il volume per sommi capi.
Il primo capitolo, principi per leggere l'AnticoTestamento», e di tipo più generico e funge da ouverture.
Spiego, con immagini ed esempi scelti, quelle che mi sembrano es sere alcune delle regole più fondamentali per un'esegesi dell'Antico Testamento che si vuole nello stesso tempo rispettosa dei testi analizzati e della mentalità moderna, con le sue esigenze e il suo spirito critico. Sono cinque i principi elencati che forniscono ciascuno una chiave per orientarsi nelle folte foreste bibliche.
Molto spesso si parla della fiducia di Abramo o di Mosè nel loro Dio. Mi pare importante parlare anche della fiducia di Dio verso Abramo e Mosè; anzi, dell'audacia di Dio nel chiedere ai suoi amici cose difficili se non, di primo acchito, impossibili. D'altra parte, Abramo e Mosè osano entrambi discutere con Dio quando intercedono per i loro cari. Rimettono in questione, diremmo oggi, immagini tradizionali di un Dio onnipotente, le cui decisioni sono sempre irrevocabili. Infine, la morte di Mosè ci invita a riflettere sulla sinfonia incompiuta dell'amicizia di Dio con il suo più fedele servitore. Le ultime note sono affidate al silenzio misterioso che avvolge l'ultimo capitolo della sua vita, scritto sulla cima del monte Nebo, nel deserto e a due passi della terra promessa, che per lui rimane per l'eternità promessa.
Il capitolo quarto sarà più impegnativo. L'argomento trattato è molto discusso perché tocca uno dei nodi principali dell'identità d'Israele, vale a dire la Legge. La Legge o Torah è per altro l'eredità più preziosa che Mosè consegna al popolo d'Israele prima di morire.
La domanda essenziale alla quale cerco di rispondere si può formulare in modo semplice: da dove viene il «libro della Legge di Mosè» che lo scriba Esdra legge dopo il ritorno dall'esilio, davanti alla folla, a Gerusalemme, il settimo mese di un anno non ulteriormente precisato, secondo Ne 9? Un elemento del racconto sorprende: il fatto che la Legge sembra totalmente sconosciuta. I libri di Esdra e Neemia descrivono con dovizia di particolari quanto fu difficile far osservare una legge che era stata — sembra — ignorata per tanto tempo. La seconda parte del capitolo vuol mostrare che la Bibbia stessa attesta l'esistenza di una serie di «voci del dissenso» all'interno della provincia persiana di Giudea. Un esempio chiaro è quello del matrimonio di Rut, che si fa secondo altri principi, non «secondo quanto sta scritto» nella legge portata da Esdra (Ne 8,14.15; cf. 8,13-14; 10,35.37; Esd 3,2), bensì piuttosto secondo la consuetudine e i modi di interpretarla dei quali si fa avvocata la stessa Rut (Rt 4,7). La terzaarte intende mostrare visti i conflitti all'interno della comunità postesilica come le autorità hanno cercato di giustificare la legge dal gruppo tornato dalla Babilonia.
Secondo la mentalità antica, si voleva dimostrare l'antichità della Torah. Sarà lo scopo di due racconti in particolare. Il primo, 2Re 22, dimostra che il libro della Legge è stato scoperto nel tempio, sotto il regno di Giosia, il che vuol dire che esisteva già prima della presa di Gerusalemme e della distruzione del tempio. Il secondo, Es 24,3-8 (cf. 24,4), fuga l'ultimo dubbio in merito alla «Legge»: lo stesso Mosè scrisse in un libro «tutte le parole del Signore», vale a dire la Legge trasmessagli da Dio in persona sul monte Sinai. Il libro della Legge di Mosè è stato redatto dal più grande dei profeti, nel deserto, e risale pertanto al periodo normativo del passato d'Israele.
Il quarto capitolo affronta una domanda più specifica a proposito del libro del Deuteronomio e del personaggio di Mosè. di cui ci occupiamo nel secondo e nel terzo capitolo. Il punto di partenza della riflessione proviene dai numerosi studi che hanno evidenziato la parentela stretta del Deuteronomio con un testo ormai famoso del Vicino Oriente antico, il trattato di vassallaggio di Esarhaddon, re di Assiria e padre di Assurbanipal. L'intenzione del trattato è di assicurare la successione del trono a favore di Assurbanipal, benché non sia il primogenito. Il problema della successione è ugualmente centrale nel Deuteronomio. La domanda è: chi sarà il successore di Mosè? Difendo la 'tesi che tutto il libro del Deuteronomio abbia come scopo di fare della Torah, la Legge, la vera erede di Mosè.
Nel quinto capitolo intavolo una discussione con un'opinione sull'origine del Pentateuco che ha avuto parecchio successo intorno agli anni '90 del secolo passato: la teoria dell'autorizzazione imperiale persiana. In poche parole, le autorità dell'immenso impero persiano avrebbero riconosciuto ufficialmente le legislazioni locali e avrebbero addirittura conferito loro il rango di legge imperiale, valida per i membri di un dato popolo in tutto l'impero persiano. La Torah sarebbe nata, quindi, su richiesta delle autorità persiane alla provincia di Giudea. Quest'ultima avrebbe composto il Pentateuco - in una forma quasi identica a quella che conosciamo - per fornire alle autorità persiane un documento ufficiale che potesse essere «autorizzato», vale a dire approvato e assurto a dignità di legge imperiale per la provincia di Giudea e per tutti gli ebrei dell'impero persiano. Rimango molto scettico nei confronti di questa idea e mi sono spiegato a più riprese in merito. Il capitolo propone una sintesi dei miei motivi più seri. In poche parole, il Pentateuco è un documento troppo lungo, troppo complesso, troppo variegato per servire ai fini di una «autorizzazione imperiale», dato, ma non concesso, che vi sia mai stata una vera politica persiana di «autorizzazione imperiale» delle legislazioni locali.
Con il sesto e il settimo capitolo sviluppo due aspetti antitetici della Torah, in particolare nell'oracolo di Osea, spesso citato in merito: «Voglio l'amore e non i sacrifici, la conoscenza di Dio e non gli olocausti» (Os 6,6). Il capitolo sesto riprende il testo di una conferenza tenuta all'università di Pisa nel gennaio del 2010, ma non pubblicata, che aveva come titolo proprio la citazione di Osea appena citata. Ritroviamo, ancora una volta, una grande varietà di opinioni a proposito dei sacrifici - un concerto di voci quasi discordanti - sia nella Bibbia stessa che nei suoi interpreti, dai primi secoli della nostra era fino ad oggi. Passo in rassegna le diverse teorie sull'origine e la funzione dei sacrifici, dico in particolare una parola sulla teoria del capro espiatorio resa famosa dall'antropologo francese René Girard, per sviluppare infine un'idea cara ai libri centrali del Pentateuco in particolare Esodo e Levitico.
Troviamo in questi libri ,, in effetti, una concezione del culto molto vicina a quella del Nuovo Testamento, una teoria secondo la quale il «servizio di Dio» non è più limitato ad alcuni momenti e alcuni gesti ben specifici, bensì si estende a tutti i settori dell'esistenza. Ogni gesto della vita quotidiana diventa «servizio di Dio», vale a dire culto, e ogni membro del popolo è chiamato a fare parte di un «regno sacerdotale» destinato al servizio esclusivo del suo Dio e Signore (Es 19,6). In questo modo, culto e solidarietà all'interno del popolo, liturgia e impegno per la giustizia, cerimonie festive e vita quotidiana, misericordia e sacrifici non sono più opposti. Sono diverse facce di una sola realtà: la consacrazione del popolo d'Israele al servizio del suo Dio.
L'ultimo capitolo è dedicato all'altra faccia della medaglia. Dopo i sacrifici, parlo quindi della misericordia e del comandamento dell'amore di Dio. Il punto di partenza proviene da alcune riflessioni sull'alleanza nel Vicino Oriente antico. Nel mondo antico, relazioni pubbliche e relazioni private erano spesso mescolate, in particolare quando si trattava dei sovrani. Un'alleanza politica era spesso suggellata da un'unione matrimoniale. Il verbo «amare» è d'altronde molto frequente nei trattati di vassallaggio per stipulare quali sono i doveri di lealtà e di fedeltà di un vassallo nei confronti del suo sovrano. Il linguaggio diplomatico in voga in quel tempo fu ripreso da Israele nell'ambito della riforma di Giosia (622 a.C.), così come in seguito, per un motivo particolare.
«Israele» - o il popolo che si definiva come tale - decide di ricuperare la sua autonomia politica e di salvaguardare la sua identità culturale e religiosa. A tale fine, non stringe un'alleanza con nessuna potenza umana, bensì solo con il suo Dio, che diventa il suo unico sovrano. Amore di Dio significa, in questo contesto, stabilire un legame esclusivo con il Dio delle sue tradizioni più antiche e rifiutare ogni tipo di legame con altre potenze o superpotenze del tempo. Nel mondo antico, religione e politica erano inseparabili e perciò il rifiuto di alleanze con potenze straniere era sinonimo di rifiuto degli dèi stranieri. Un'ultima conseguenza di tale teologia, forse inaspettata per il lettore moderno, fu la nascita del monoteismo. Israele promette fedeltà assoluta a un solo sovrano, il suo Dio e Signore. Per Israele, ci può essere un solo sovrano e, quindi, un solo Dio. La teologia dell'alleanza è all'origine del comandamento dell'amore che troviamo nel Nuovo Testamento, ma anche del monoteismo che trionfa dopo l'esilio, ad esempio in Isaia 40-55.
Il volume, nonostante le differenze fra i diversi contributi nati in circostanze spesso eterogenee, ha una sua unità «sinfonica», potrei dire. Dopo i principi della lettura presentati nel primo capitolo, il volume è centrato su alcuni elementi nodali del Pentateuco. Ho in mente il secondo capitolo sui due personaggi chiave del Pentateuco, Abramo e Mosè. I capitoli seguenti sono tutti centrati sull'eredità di Mosè, vale a dire la sua Legge. Prima cerco di capire da dove viene la Legge di Mosè che s'impone dopo l'esilio, poi mi chiedo se sia il prodotto di una particolare politica dell'impero persiano, per interrogarmi infine su due aspetti abbastanza importanti della legislazione del Pentateuco: i sacrifici, da una parte, e, dall'altra, il primo comandamento, quello dell'amore.
Concludo con un'ultima immagine, sempre ripresa dalla musica. L'austero Siracide inserisce questo consiglio in una serie di regole di comportamento durante i banchetti: «Parla, o anziano, perché ti si addice, ma con saggezza e senza intralciare la musica» (Sir 32,3). Ho fatto il possibile, in questo volume, per dare ai lettori il gusto di leggere e rileggere alcune pagine fondamentali del Pentateuco per capire quali sono le radici della nostra fede e della nostra cultura. Spero di esservi riuscito. Spero di essere riuscito anche nell'impresa di fare ascoltare le musiche antiche del Pentateuco. Ora mi rimane il compito di tacere per lasciar la parola ai testi e per non intralciare la loro musica.
ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO
CINQUE PRINCIPI PER LEGGERE L'ANTICO TESTAMENTO
L'Antico Testamento non si legge, o si legge poco. Chi osa predicare su un testo dell'Antico Testamento la domenica? Siamo cristiani, così si dice, e perciò quello che conta per noi non è l'Antico, è il Nuovo Testamento. Il predicatore, quando parla dell'Antico Testamento, lo fa in genere in due casi. Nel primo, utilizza alcuni testi dell'Antico Testamento che annunziano o prefigurano Cristo in un modo o nell'altro. Sono le profezie messianiche, i personaggi e gli elementi utilizzati dai tempi più antichi come «figure», in particolare di Cristo. Nel secondo caso, elementi dell'Antico Testamento sono interpretati come «figure» della vita della Chiesa, in particolare dei sacramenti. Ad esempio il pane e il vino offerto ad Abramo da Melchisedek (Gen 14,18) e la manna del deserto sono figure dell'eucaristia (Es 16). Non si va molto oltre. Perché? Vorrei mostrare che vale la pena esplorare la ricchezza di un libro antico, ma sempre nuovo; ostico, ma nello stesso tempo appassionante. Vi sono alcuni importanti principi di lettura e ne elencherò alcuni. Ne ho scelti cinque che mi sembrano più utili e più essenziali.
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enza della volpe il 15 settembre 2019 alle 13:01 ha scritto:
Un libro di studio che però mi sento di consigliare anche per una interessante lettura