Il professor Giuseppe Barbaglio (1934-2007) ha rappresentato per i biblisti italiani – e non solo – un punto di riferimento per la sua acclarata capacità di coniugare l’acribia scientifica con l’ansia della divulgazione. Brillante conferenziere, scrittore erudito e competente, ha contribuito in maniera incisiva alla diffusione della Parola non solo nell’ambito scientifico, ma anche presso comunità parrocchiali, religiose e missionarie. Il volume si presenta come una collezione di venti contributi che Barbaglio ha redatto nel corso degli anni per alcune riviste scientifiche e pastorali. Il titolo della raccolta di studi – La Parola si moltiplicava – non costituisce il tema unificante degli interventi, ma il modello di riferimento tratto da At 6,7, al quale è stata accostata l’opera di divulgazione del noto biblista italiano. L’ambito della ricerca esegetica di Barbaglio riguarda il Nuovo Testamento, in special modo il contesto e il messaggio dei Vangeli sinottici e del Corpus paulinum. I titoli degli articoli raccolti in questo volume offrono un’ampia indagine panoramica sulla teologia (cc. 1.14); la cristologia (cc. 6.12.13.16); la pneumatologia (cc. 4.5); l’ecclesiologia (cc. 3.7.8.9); l’antropologia, l’etica e l’escatologia (cc. 2.10.11.18.19.20); il ministero paolino (cc. 15.17).
Tra gli articoli presenti nel testo, intendiamo porre in evidenza tre saggi di particolare rilievo: Il Nuovo Testamento: immagini di Dio (c. 1); L’uomo non osi separare ciò che Dio ha unito (c. 11); Realtà finite e valori assoluti. «C’è una quantità di dèi e signori, ma per noi…» (1Cor 8,5-6) (c. 15). Qual è l’immagine di Dio veicolata dal Nuovo Testamento? La predicazione del Cristo segna un’irriducibile discontinuità rispetto al passato? La peculiarità del contributo dell’autore è di aver selezionato tre voci autorevoli – Gesù di Nazaret, Paolo e Giovanni – al fine di «cogliere alcune linee caratteristiche e caratterizzanti». Dall’annuncio del Cristo testimoniato nei sinottici, emergono soprattutto due immagini di Dio: quella regale, legata ai concetti di Regno di Dio/Regno dei cieli, e quella paterna, che costituisce uno dei tratti centrali della testimonianza gesuana. La teo-logia di Paolo è presentata nel suo nucleo essenziale a partire da Rm 4,17, dove Dio è presentato come Colui che dà vita ai morti. Infine, è analizzato il messaggio centrale della 1Gv: l’identità di Dio-Amore è offerta come rivelazione all’autore sacro a partire dal dono del Figlio Unigenito. È indubbio che una selezione di passi tenda a privilegiare alcuni a discapito di altri; tuttavia, crediamo che l’opzione analitica di Barbaglio si sia rivelata particolarmente felice perché un’analisi trasversale e sintetica dei dati neotestamentari non avrebbe reso ragione alla polifonia teologica che caratterizza il corpus neotestamentario.
«L’autorevole presa di posizione di Gesù contro la prassi legalizzata del divorzio, o meglio, del ripudio è stata tramandata da diversi testi neotestamentari, in cui è facile rilevare accanto alla preoccupazione di fedeltà verso l’insegnamento del Maestro, l’intento di adattarlo alle nuove situazioni vitali delle comunità cristiane delle origini» (143). Barbaglio passa in rassegna i passi neotestamentari (1Cor 7,12-15; Mc 10,2-12; Mt 5,31-33; 19,3-10; Lc 16,18) nei quali è trasmessa la netta presa di posizione di Gesù nei confronti del divorzio e del ripudio. Da un punto di vista formale, i detti possono essere distinti in due gruppi: il primo fa riferimento all’uso del verbo cho - rizein/ cho-rizesthai (“dividere”, “separare”) e intende il matrimonio come unione di due persone, così salda da non poter essere scissa; il secondo gruppo, invece, presenta la ricorrenza del verbo apolyein (“sciogliersi da”) e concepisce il matrimonio come un vincolo indissolubile. Dopo aver brevemente analizzato la concezione giudaica in merito alla liceità del divorzio (cf. le opinioni di scuola dei rabbini Hillel e Shammai), si dà risalto alla reazione di Gesù ricostruita nel suo contesto originario e nella sua applicazione ecclesiale. Degne di menzione sono le annotazioni offerte in merito alla prospettiva mattana. Prendendo posizione a favore del senso eccettuativo dell’espressione «parektos logou porneias» («tranne in caso di impudicizia»), Barbaglio scrive: «in realtà, Matteo (o anche la sua tradizione) appare sensibile al valore della santità e purezza che deve contraddistinguere l’unione sponsale dei credenti. Indissolubilità del matrimonio, certo, ma anche fedeltà dei coniugi. Se questa viene meno per colpa di uno dei due partners, è tolta la base stessa morale dell’unione matrimoniale» (p. 156). Il conflitto tra “forti” e “deboli” che affligge la comunità corinzia è oggetto dell’ultimo contributo che prenderemo in esame.
A Corinto, «città cosmopolita e splendente colonia romana dove culti greci e liturgie romane s’intrecciavano in un grande fenomeno sociale e religioso di marca sincretistica » (p. 221), la comunità ecclesiale risultava divisa al suo interno, non solo a motivo dell’affiliazione spirituale a personalità del calibro di Pietro, Paolo, Apollo, ma anche in merito alla liceità della partecipazione ai riti cultuali pagani. Da un lato, vi erano i “forti”, secondo i quali il prendere parte ai pasti festosi dentro l’aria dei santuari e il consumare le carni immolate agli idoli non costituivano affatto un problema; i “deboli”, invece, erano persuasi che tutto ciò costituisse un atto idolatrico. La soluzione su cui l’apostolo Paolo fa avanzare la questione, sapientemente rilevata da Barbaglio, mira a una distinzione basilare tra un monoteismo oggettivo, basato sulla realtà delle cose, e uno soggettivo, riferito al vissuto delle persone. In questo senso, «non basta sapere – la conoscenza di cui si gloriavano i “forti” della Chiesa di Corinto – che esiste un solo Dio e Signore, occorre verificare che nella propria vita non vi siano altri dèi, cioè realtà finite ma vissute come valori assoluti» (p. 228).
Tratto dalla rivista Asprenas n. 1-2/2010
(http://www.pftim.it)
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