Gabriel è un ragazzo innamorato delle parole, soprattutto di quelle che è impossibile tradurre in altre lingue - come la giapponese Wabi sabi, che esprime l'autenticità dell'imperfezione, o come iktsuarpok, con cui gli Inuit dell'Artico intendono l'irrequietezza nel controllare se qualcuno sta arrivando oltre l'orizzonte. Parole uniche e sole, come solo si sente Gabriel quando muore sua nonna, con cui viveva. Confuso e smarrito, viene accolto nella casa affidataria della signora Michiko in un rione storico di Roma. Si trova così ad abitare sotto lo stesso tetto con ragazze e ragazzi segnati da storie irreparabili, come il piccolo Leo, come Chiara, che conosce le stelle ma non l'amore, o Greta, sempre concentrata a scrivere messaggi al cellulare, come il minaccioso Scar e Amina, con la sua indicibile esperienza di migrazione. Michiko segue i suoi giovani ospiti rammendando le giornate bucate con tazze di tè fumante, dialoghi pazienti, storie di paesi lontani: parole e gesti piccoli che restituiscono la grandezza dell'universo. Fuori c'è il mondo che conoscono, caotico, ingiusto, a tratti violento, ma nella casa della signora giapponese sono al riparo. Finché un giorno quell'armonia si spezza, e i ragazzi d'un tratto si sentono più orfani di prima. Fa male, ma dura poco: presto scoprono di sapersi fidare l'uno dell'altra, di saper fare famiglia. È l'inizio di una ricerca per le strade di Roma e dentro sé stessi, dove ciascuno mette a frutto il proprio intuito, le proprie qualità - e porta allo scoperto le proprie ferite.