Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria
(Einaudi. Storia)EAN 9788806228361
Lo storico e giurista Aldo Schiavone ha dato alle stampe un accattivante profilo storico del prefetto romano della Giudea Ponzio Pilato, con una ricostruzione articolata e suggestiva del processo che dovette istruire e celebrare nei confronti dell’ebreo Gesù di Nazaret. Dopo aver consultato ed esaminato numerose fonti storiche (Flavio Giuseppe, Filone, Tacito, rinvenimenti epigrafici…), fonti e studi biblici (Vangeli canonici, scritti apocrifi, letteratura intertestamentaria, studi biblici neotestamentari…) e scritti biografici sul prefetto, l’autore propone una presentazione dei fatti, che lo videro protagonista di una vicenda, apparentemente marginale, della storia di una provincia minore dell’impero romano, che sarebbe nel tempo assurta a una notorietà incancellabile. Schiavone ricostruisce la storia di Pilato articolando le sue attente valutazioni lungo la trama della sequenza evangelica, riferente le fasi del processo a Gesù e, segnatamente, l’interrogatorio condotto dal prefetto nella celebrazione del processo penale.
Fin dall’inizio del saggio l’autore riconosce che la valutazione del comportamento di Pilato nel processo a Gesù, a tutt’oggi, resta un “enigma” che vive tra “memoria e storia”. La “memoria” è quella sedimentatasi nelle quattro narrazioni evangeliche a partire dalla tradizione evangelica orale, che assume il suo definitivo assetto solo nello stadio redazionale. La “storia” è quella che si origina da quella memoria e si materializza, progressivamente, nel bimillenario vissuto ecclesiale, con le sue molteplici comprensioni, restituiteci in un’ininterrotta storia delle interpretazioni (Wirkungsgeschichte).
Schiavone ritorna a quella “notte del mese di Nisan” per offrirci una documentata e articolata analisi delle fasi dell’arresto e del processo giudaico di Gesù. Qui l’autore espone tutti i fatti documentandoli da un’angolatura storica, senza entrare nelle complesse problematiche collegate alla natura teologica del giudaismo. Dopo di ciò ci offre un utile excursus su “la Giudea romana e il lavoro del quinto prefetto”, condotto con il ricorso a fonti storiche romane e giudaiche, che ci prepara a una più chiara comprensione degli eventi successivi.
Con il capitolo intitolato Dio e Cesare si approfondisce il tema principale cui il personaggio Pilato è collegato: il processo a Gesù. L’autore ritiene che a quel tempo non si potesse parlare di un processo in senso moderno, ma di un processo extra ordinem, perché Gesù non era un cittadino romano, né un notabile. Pilato interrogò l’accusato per valutare la fondatezza di ciò che i giudei gli addebitavano. I suoi accusatori incalzarono il procuratore, facendo apparire Gesù come un sedizioso turbatore dell’ordine pubblico, messosi alla testa di un movimento politico rivoluzionario, con l’occulto disegno di restaurare la monarchia e di attentare al fondamento ideologico della res pubblica.
Egli sarebbe stato colpevole del reato di perduellio, che consisteva nell’associazione sovversiva o nell’insurrezione armata contro i poteri dello stato. Che cosa avrebbe potuto fare Pilato di fronte a quelle ingiuste accuse? Quel gentile non aveva alcun motivo per condannare un mite e innocente rabbi ebreo, che si era affrancato nella sua predicazione dagli orientamenti del giudaismo ufficiale. Il tentativo di rimettere nelle mani del popolo la decisione di liberare il prigioniero, appellandosi alla facoltà in suo possesso di concedere la grazia, fu perciò un espediente per ottenere l’effetto desiderato senza contrariare i capi giudei. Qualche studioso ha ipotizzato che il grido della folla (“Crocifiggilo!”) possa ritenersi un elemento in favore della consuetudine nelle città libere – quelle grecofone appartenenti alla Decapoli – della Giudea di assumere una decisione per acclamatio populi. Frequentemente i romani erano soliti rispettare le consuetudini locali, ma Gerusalemme non era una città libera, bensì una città giudaica regolata da una codificata legge divina. A tal motivo Pilato non avrebbe dovuto applicare la consuetudine dell’acclamatio populi. Egli era convinto dell’innocenza dell’accusato, ma rimise la decisione nelle mani degli astanti, istigati dalle autorità religiose del giudaismo. Solo di fronte al verdetto emesso da quell’insolita camera di consiglio, egli si piegò alle pressanti richieste dei giudei e consegnò Gesù ai soldati per la crocifissione. Nella sua mente si agitavano lugubri fantasmi e prendeva il sopravvento la paura di decidere contro la volizione dei giudei, i quali lo avrebbero conseguentemente accusato a Cesare. Pilato, dopo ripetuti tentativi di liberare l’imputato, per timore di suscitare l’irritazione dei capi giudei, cedette alle loro ingiustificate pressioni.
Va detto che il processo romano condotto da Pilato dipese fortemente dall’interrogatorio/processo giudaico. Secondo il diritto romano, quando in una provincia minore dell’impero era concesso alle autorità locali di promuovere l’accusa, il presidente doveva essere estremamente vigile nel provare l’imputazione. Pilato avrebbe dovuto esaminare più attentamente l’inchiesta preliminare. Il processo romano a Gesù fu, pertanto, una ratifica del processo giudaico, perché Pilato voleva far ricadere la responsabilità della condanna sui giudei. Sicché il procuratore si limitò a fare una recognitio causae, senza istruire un’indagine autonoma. Appurò se l’accusa del precedente processo era giustificata e perfezionò la determinazione della pena. Nella sua udienza ammise soltanto persone ostili al Nazareno e introdusse il brigante Barabba per stornare il popolo da Gesù. Si trattò, insomma, di un procedimento condotto secondo il rito dell’exequatur (il termine indica, nel giudizio di delibazione, il riconoscimento dell’efficacia di una sentenza straniera).
È lecito chiedersi se Pilato poteva rilasciare l’imputato dopo averlo fatto flagellare per aver inveito contro il Tempio, archiviando il caso con la motivazione che si trattasse di un fanatico religioso? Così nel 64 d.C. si comporterà il procuratore romano Albino in una situazione del tutto simile con l’accusato Gesù figlio di Anania. Ciò avrebbe preservato l’autonomia del processo romano. Si è detto che Pilato abbia applicato il rito del processo extra ordinem, perché Gesù non era un cittadino romano. In tal caso egli avrebbe potuto attingere informazioni dalle autorità locali senza l’onere di richiedere il genere di prove previste dalla legge ordinaria. Probabilmente Gesù subì un processo sommario con la procedura abbreviata della cognitio da parte di Pilato, il quale era stato chiamato a giudicare dalle autorità locali su un caso che gli era stato presentato. Casi simili accadevano frequentemente nella provincia della Giudea.
Pilato condusse il processo senza l’ausilio di assessores (avvocati di grado inferiore) o di comites (attendenti). Egli fu solo di fronte all’imputato e non convocò un consiglio prima del verdetto. Ciò gli sarebbe stato consentito in forza degli editti di Augusto per Cirene. La circostanza sembra giustificata dall’urgenza della situazione storica: una festa movimentata con recenti tumulti. In tal caso la procedura romana poteva essere sommaria e iniziata con l’equivalente di un rapporto di polizia (elogium), proveniente da magistrati locali. Gesù fu accusato di essersi dichiarato “re dei Giudei”. Per la legge romana si trattava di una sedizione che poteva essere punita, infliggendo la pena capitale. Il sedizioso violava la Lex Iulia de maiestate e incorreva nel reato di perduellio, che consisteva nell’alto tradimento contro il popolo. Sotto Augusto e sotto Tiberio la proscrizione si fece più severa e l’esecuzione sommaria divenne sempre più comune. Secondo la testimonianza di Tacito e di Svetonio, Tiberio particolarmente sospettoso nei confronti delle congiure abusò nelle esecuzioni sommarie. È lecito chiedersi se Gesù avesse realmente violato la Lex Iulia de maiestate? Secondo quanto afferma il sommo sacerdote – «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare» (Gv 19,12) – ciò accadde. Per questo Pilato nell’interrogatorio ricordò all’accusato il capo di accusa: «Sei tu il re dei Giudei?» (Gv 18,33), ma non ricevette nessuna risposta. E alla domanda: «Che cosa hai fatto?» (Gv 18,35) l’imputato rispose: «Il mio regno non è di questo mondo […] il mio regno non è di quaggiù» (Gv 18,36). La reticenza dell’imputato e il suo silenzio nei confronti delle accuse possono essere considerate un’ammissione di colpa? Catone difendeva il principio che un magistrato doveva punire sulla base di ciò che era stato confessato. Ma Gesù non si era dichiarato colpevole e nemmeno smentiva le accuse. Che cosa sarebbe stato giusto fare? Il giudice poteva rifugiarsi nell’emissione di una sentenza sulla prova emersa nel processo stesso, specialmente quando era politicamente pressato a trovare colpevole l’accusato?
Infine, nell’ultimo capitolo, intitolato Il destino del prigioniero, è presentata l’ultima fase del processo con le sue concitate azioni: il tentativo di Pilato di liberare il prigioniero dopo averlo fatto flagellare; il rituale della lavanda delle mani per attestare la propria estraneità; la promulgazione della sentenza; e l’irrogazione della pena.
Dopo la flagellazione Pilato ricorse alla consuetudine giudaica riconosciuta al governatore del rilascio di un prigioniero in occasione della festa di Pasqua (privilegium paschale). Si trattò di un’amnistia (grazia generalizzata che causa l’estinzione del reato, concessa dall’imperatore), di un’abolitio (perdono in massa con annullamento della vertenza legale), di un’indulgentia (non irrogazione della pena accordata come atto dell’imperatore) o di una venia per lo più applicabile agli individui e accordata indipendentemente dalla colpa e concessa in occasione di una festa giudaica? Il procuratore poteva concedere l’amnistia secondo il diritto penale imperiale? Nel diritto romano posteriore c’era una certa riluttanza a far sì che i governatori delle province revocassero i loro verdetti. Pilato sapeva che molti volevano la liberazione del pericoloso rivoluzionario Barabba e per impedire ciò propose il rilascio del politicamente innocuo Gesù. Pilato propose Gesù alla folla per non assolvere Barabba. Se questi era stato già processato e condannato come sovversivo e omicida, perché Gesù, ritenuto innocente da Pilato e non ancora condannato, avrebbe dovuto essere amnistiato? O forse per Gesù Pilato propose la cessazione del processo, un proscioglimento per mancanza di prove, una sospensione di una sentenza, un proscioglimento motivato da circostanze attenuanti? Probabilmente Pilato applicò una venia che poteva essere concessa sia a Gesù prima della sentenza sia a Barabba nel caso fosse sotto processo o già condannato. Poiché la turba concitatamente chiedeva la condanna dell’accusato Pilato, pressato dall’opposizione in massa delle folle, acconsentì e inflisse la pena della crocifissione.
Il gesto di Pilato di lavarsi le mani prima di accondiscendere alla richiesta di crocifissione degli accusatori fu influenzato dalla prassi giudaica che il governatore conosceva bene. Le parole di Pilato evocano il rituale dell’abluzione richiamato nel detto deuteronomistico «le nostre mani non hanno sparso questo sangue» (Dt 21,7), pronunciato nel caso di un omicidio di cui resta ignoto l’autore. Con ciò Pilato cercava di seguire il consiglio ricevuto in sogno dalla moglie Claudia Procula e, riconoscendo Gesù come “giusto”, rivendicava la propria innocenza. Va detto che tale rituale era efficace solo se coloro che lo compivano non avevano partecipato all’omicidio, perpetrandolo essi stessi o sapendo chi lo aveva perpetrato. La responsabilità di Pilato forse non fu la principale, ma egli non poteva, per il ruolo ricoperto nella vicenda processuale, semplicisticamente lavarsi le mani.
L’atteggiamento di Pilato non fu quello di un uomo audace e nobile e, tuttavia, non fu manifestamente illegale. In tutte e quattro le narrazioni evangeliche affiora la sensazione che egli abbia emesso la condanna sotto pubblica coercizione e contro il suo giudizio superiore. La domanda da lui rivolta a Gesù in tono politico (“Sei tu il re dei Giudei?”) non si ritrova mai riferita nei Vangeli a Gesù se non sulla bocca dei Magi e sulle labbra degli accusatori (cf. Gv 19,21). La replica dell’accusato (“Tu dici così”), infatti, dichiara che questa lettura politica non era un’esatta interpretazione della sua regalità. Il titolo “re dei giudei” poteva rappresentare una minaccia per il prefetto della Giudea? Questo titolo era stato utilizzato dai sommi sacerdoti asmonei che fondarono uno stato giudaico indipendente. A quel tempo, nel tempio di Giove capitolino a Roma, vi era una vite d’oro con l’iscrizione “Da Alessandro re dei giudei”. Nella Palestina del I secolo questo titolo poteva essere interpretato dai romani come un tentativo di ricostituire il regno sulla Giudea. Ma Gesù nel suo ministero non aveva mai parlato di sé come re, semmai aveva parlato del regno di Dio. È vero che nell’ingresso a Gerusalemme egli era stato acclamato “figlio di Davide”. Pertanto, è logico ipotizzare che i nemici di Gesù abbiano distorto questi detti e avvenimenti in una sua pretesa di essere re. Nel Vangelo di Giovanni la domanda di Pilato ottiene una replica più articolata: «Tu lo dici. Io sono re. Per questo sono nato […] per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce» (Gv 18,37). La dichiarazione di Gesù è una verifica per Pilato; è il giudice a essere giudicato e il procuratore è avvertito che se abusa del potere che ha ricevuto da Dio anche il suo peccato sarà più grande. Se i giudei hanno manovrato Pilato a compiere il loro volere, anch’egli li ha manovrati perché si assumessero parte della responsabilità di questo grande peccato.
Quando nel 37 d.C. Pilato tornò a Roma per essere indagato dall’imperatore Tiberio per gravi imprudenze, il processo a Gesù non costituì un problema per lui. E possiamo, con ragionevole certezza, ritenere che quello incontrato da Gesù in quella provincia minore dell’impero romano non fu né il migliore né il peggiore dei giudici romani.
In conclusione, Schiavone costruisce con originalità la sua ultima argomentazione: «Gesù non desiderava affatto morire […] ma non aveva mai pensato a nessuna via d’uscita […] che non fosse l’estremo e totale sacrificio di sé […]. Era solo la morte che poteva eseguire il montaggio finale della straordinaria sequenza della sua vita […]. Era solo la morte che poteva definitivamente consegnare alla storia il suo insegnamento […]. La morte era un segno fortissimo e definitivo, che avrebbe fissato per sempre le sue parole […]. Perciò Gesù di fronte a Pilato non cercò in alcun modo di sfuggire alla condanna […]. Io credo che il governatore si sia reso definitivamente conto dell’atteggiamento del prigioniero (di andare consapevolmente e volutamente verso la morte) e si sia persuaso a non contrastarne il disegno […]. Io credo che tra Pilato e Gesù si sia stretto come un indicibile patto, che spinse Pilato nella direzione che Gesù riteneva inevitabile» (p. 126).
Tratto dalla rivista "Aprenas" n. 1-4/2016
(http://www.pftim.it)
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