Piccola ma preziosa e originale guida al Corano, questa dello studioso britannico Michael Cook uscita nell’originale per la Oxford University Press (The Koran. A very short introduction, Oxford 2000) e opportunamente riproposto in lingua italiana. Il lavoro tratta in modo sintetico il tema del «Corano nel mondo moderno» (cap. II), «nel mondo musulmano tradizionale» (cap. III) e la storia del testo (cap. IV), dalla sua complessa formazione - segnata dal passaggio cruciale da una fase orale a varie trascrizioni (sotto il primo califfo Abu Bakr, poi sotto il terzo, ‘Uthman) - sino allo sviluppo del testo come «codice» fondamentale di una intera civiltà, letto studiato e diffuso capillarmente in ogni angolo dell’ecumene musulmana. Spesso, da parte dei non addetti, si pensa al Corano come a una sacra scrittura funzionalmente equivalente a tante altre scritture analoghe che fondano le grandi religioni mondiali: dal Pentateuco ai Vangeli, dall’Avesta ai Veda. Il Corano si rivela essere in realtà molto di più che una scrittura sacra posta alla base di una cultura religiosa, dei suoi riti, della sua dogmatica ecc. Basti pensare che esso è praticamente il primo documento della stessa lingua araba scritta, la prima fonte scritta autoctona sulla storia degli arabi, il primo completo codice normativo uscito dalla penisola araba, per comprendere quale importanza esso abbia non solo per lo studioso di cose religiose, ma anche per lo storico, l’antropologo, il linguista, lo studioso di letteratura, di folklore, di diritto e via dicendo. Prima del Corano, in Arabia Centrale, esistono come fonti storiche praticamente quasi soltanto i siti archeologici e altre notizie sono desumibili solo da documenti scritti esterni (persiani, romani, greco-bizantini). Con il Corano, il popolo arabo si può dire accede per la prima volta alla sfera della parola scritta e comincia a documentare, da sé, la propria vita, i propri costumi, le credenze e la spiritualità, insomma a esprimersi autonomamente come Soggetto storico che riflette su se stesso.
Il Corano è ritenuto dai musulmani parola di Dio, trasmessa da Maometto al suo popolo. Parola di Dio in senso forte: non semplicemente «ispirata» da Dio, ma proprio parola diretta e immutabile di Allah. In altre parole, Maometto, nelle concezioni correnti, non ha neppure la paternità letteraria del testo come comunemente si riconosce agli evangelisti in ambito cristiano. Egli semplicemente andò recitando, o meglio «ripetendo» ai suoi – nel corso di un ventennio (612-32) - quel che l’angelo Gabriele gli andava dettando. Il Corano verrà trascritto, come ben documenta il Cook solo più tardi, dopo la morte del Profeta. La genesi del testo è, da un punto di vista confessionale islamico, spiegata all’interno di una suggestiva teoria delle «rivelazioni successive»: Dio in ogni tempo ha parlato agli uomini, smemorati per loro natura, facendo «scendere» un Libro dall’alto, concepito come copia di una rivelazione archetipale – la Madre del Libro (Umm al-Kitab)- che sta presso Allah. Così è stato per la Torà, per i Salmi, per il Vangelo; e infine appunto per il Corano che suggella questo antico flusso di divine rivelazioni calate dall’alto. Il Corano significativamente si auto-presenta come un dhikr, parola che significa «monito» e insieme «ricordo»: la sua funzione è appunto di ammonire/ricordare all’umanità smemorata e ribelle la presenza di un Divino Signore, suo creatore e padrone, cui essa deve il culto prescritto e con cui, soprattutto, ha un appuntamento alla fine dei tempi per reddere rationem nel «giorno del rendiconto» (yawm al-hisab). Colpisce invero il grande pessimismo antropologico che emana dalle pagine del Corano: l’uomo è definito creatura avida, tracotante, prevaricatrice, ingrata, che corre a Dio nel bisogno e se ne dimentica subito nella prosperità. Solo colui che si «ricorda» di Dio e ne segue la Legge, potrà salvarsi. Qui è anche il senso profondo delle cinque preghiere giornaliere, dislocate lungo la giornata dall’alba sino a dopo il tramonto: l’uomo pio è colui che si «ricorda» per tutto il giorno di Dio, che fa continua «menzione» - altro significato di dhikr, parola che finisce per essere sinonimo anche di «preghiera» - del Suo nome, o di qualcuno dei «99 bei nomi di Allah» . Va da sé che la stessa preghiera canonica è infarcita di formule coraniche; in pratica sin dalla prima infanzia il fanciullo impara a memoria brani o brevi sure del Corano da recitarsi durante l’esecuzione quotidiana del precetto.
Che cosa abbia significato il Corano nel contesto più ampio di quello che chiamiamo «civiltà musulmana» è ben esemplificato dal fatto che, con esso, nasce in Arabia una costellazione di arti e «scienze» ausiliarie: dalla lettura salmodiata del testo – arte musicale complessa che richiede non solo una bella voce di cantante, ma anche almeno una decina di anni di studio presso severe scuole-conservatori – sino all’arte della calligrafia, l’arte araba per eccellenza, di cui il libro di Cook ci offre numerose preziose illustrazioni; dalla scienza del Commento (tafsir) al testo sacro, a quella dei giuristi (fiqh) che ne hanno estratto e organizzato il complesso normativo; da quella dei teologi (kalam) che si sono soffermati sugli aspetti dogmatici, a quella degli storici che hanno cercato di ricostruire le «circostanze» della rivelazione consegnata dall’angelo al profeta, di ricostruire la biografia dei primi discepoli; dalla scienza del hadith (la parola del profeta che, per prima, illustra e commenta il Corano) sino a quella della gnosi mistica (‘irfan), che riflette e medita sul messaggio più spirituale del testo sacro dalle origini a oggi.
Ma il Corano diventerà presto non solo un libro di meditazione e di preghiera, usato ogni giorno da centinaia di milioni di fedeli; non solo un «discrimine» (furqan) per distinguere il Bene dal Male, che fonderà tutta la teologia morale e la manualistica di carattere precettistico, oltre a fornire il criterio per separare gli ortodossi dagli eretici: «La vera pietà è quella di chi crede in Dio e nell’Ultimo Giorno, e negli Angeli e nei Libri e nei Profeti, e dà dei suoi averi, per amore di Dio, ai parenti e agli orfani e ai poveri e ai viandanti» (sura II, 177); non soltanto una guida etica: «Per il tempo! L’uomo di certo va in perdita… eccetto coloro che credono e compiono il bene, che si raccomandano vicendevolmente la pazienza, che vicendevolmente si raccomandano la verità» (sura CIII) . Esso diventerà presto anche una fonte inesauribile di citazioni per ogni poeta o scrittore del mondo musulmano: non c’è opera, anche di argomento non religioso - o persino frivolo - che non cominci con la pia formula «Nel nome di Dio, il Clemente il Misericordioso», che apre ogni sura o capitolo del Corano; la citazione e il commento di questo o quel versetto, sarà spesso portata come argomento d’autorità all’interno di scritti della natura più disparata: dal trattato filosofico o teologico, sino al libro di ricette mediche o di consigli in materia d’amore.
Il volume di Cook, che documenta questi e altri aspetti notevoli, è completato da una sintetica bibliografia (carente però di indicazioni di testi e studi in italiano), da un indice dei versetti citati e da un ampio indice analitico.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2009, nr. 1
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
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maria rosa pace il 8 novembre 2017 alle 21:07 ha scritto:
importante e fondamentale per conoscere l'altra religione.